1 63454 STAMPATA SALA DI CESENATICO 4 LUGLIO 2002 STAMPARE DA PAGINA 39 I MIEI PRIMI SETTE ANNI… E QUALCUNO IN PIU’ di Dario Fo Prologo Quella che vi propongo non è la storia della mia vita d’attore, autore e capocomico, ma piuttosto un frammento della mia infanzia. Anzi è solo l'inizio: il prologo della mia avventura a partire dal tempo in cui mai mi sarebbe passato per il cervello che quello del teatrante sarebbe diventato il mio mestiere definitivo. Ricordo che Bettelheim, pediatra, autore di una rivoluzionaria teoria sulla formazione caratteriale ed intellettiva degli individui, diceva: “Di un uomo basta che mi diate i primi sette anni della sua vita, lì c'è tutto, il resto tenetevelo pure”. Io ho voluto esagerare: ve ne offro dieci più qualche puntata verso la maturità... credetemi, è già fin troppo! 2 La scoperta che Dio è anche un capo supremo delle EFFE EFFE ESSE ESSE. Tutto dipende da dove sei nato, diceva un grande saggio. E, per quanto mi riguarda, forse il saggio ci ha proprio azzeccato. Tanto per cominciare io devo dire grazie a mia madre, che ha scelto di partorirmi a San Giano, quasi a ridosso del Lago Maggiore. Strana metamorfosi di un nome: Giano bifronte, antico Dio romano,che si trasforma in un santo cristiano completamente inventato, per di più presunto protettore dei fabulatores-comicos. In verità non è stata mia madre a scegliere, ma le Ferrovie dello Stato che hanno deciso di spedire mio padre a prestare servizio in quella stazione. Sì, mio padre era un capostazione, se pure avventizio. La fermata di San Giano era così poco importante che spesso i macchinisti la sorpassavano senza manco accorgersene. Tanto che, un giorno, un viaggiatore, stanco di ritrovarsi scaricato alla fermata seguente, ha tirato il segnale d'allarme. Il treno si è ingrippato dopo una lunga frenata arrestandosi nel bel mezzo di una galleria. Un "merci" che lo seguiva è franato addosso al treno bloccato. Non ci sono stati morti, per miracolo. Solo 3 un ferito grave: il passeggero che aveva tirato l'allarme: il disgraziato si era picchiato da tutti gli altri viaggiatori, compresa una suora. Ma con l'arrivo di mio padre le cose alla stazione di San Giano sono cambiate all'istante. Felice Fo era uno che destava rispetto e soggezione. Quando si piazzava con il suo cappello rosso calcato fino agli occhi, ritto sulla rotaia, brandendo la bandiera da segnale, rossa anche quella, i treni si fermavano tutti... Tutti gli accelerati, s'intende, e anche gli omnibus... che poi in totale erano quattro. Io sono venuto al mondo fra un omnibus ed un "merci", in quella fermata sussidiaria a quattro passi dal lago (Antelacus, è scritto su un reperto romano). Erano le sette del mattino quando mi sono deciso a far capolino fra le gambe di mia madre. La donna che fungeva da levatrice mi ha tirato fuori e sollevato come fossi un pollo, per i piedi. Poi velocissima, mi ha assestato una gran pacca sulle natiche... ho urlato come un segnale d'allarme. In quell'istante transitava l'omnibus delle sei e mezza... che era naturalmente in ritardo. Mia madre ha sempre giurato che il mio vagito aveva superato di gran lunga il fischio della locomotiva. Dunque io ho visto la luce a San Giano per decisione unica delle Ferrovie dello Stato, ma lì son nato solo per l'anagrafe. 4 In verità, per quanto mi riguarda sono venuto al mondo e ho preso coscienza a 30-40 chilometri un po’ più in su, lungo la costa del lago, a Pino Tronzano e qualche anno dopo a Porto Valtravaglia, sulla sponda magra del Lago Maggiore. Entrambi sono stati i miei “paesi delle meraviglie”. I luoghi che mi hanno scatenato le fantasie più pazze e hanno determinato ogni mia scelta futura. Il trasloco di tutta la famiglia era stato un'altra volta deciso dalla direzione delle EFFE- EFFE-ESSE-ESSE, compartimento di Milano. Milano! Ricordo che la prima volta che ci sono andato è stato con mio padre. Ero molto piccolo e lui doveva andarci per sostenere un esame da movimentista, sperava di venir promosso capostazione di seconda classe, livello C. Ma perché farsi accompagnare in quel viaggio da me, un bambino così piccolo? Ho sempre sospettato che mi volesse con sé per scaramanzia. Tutti in famiglia erano convinti che io portassi una fortuna sfacciata. Infatti io ero nato con la camicia, come si dice, cioè ero uscito tutto avvolto nella placenta di mia madre. Un segnale che nelle antiche tradizioni lacustri è di ottimo auspicio. Arrivati a Milano, poco prima di entrare nel grande hangar della Stazione Centrale, il treno ha cominciato a rallentare vistosamente... 5 procedeva a passo d'uomo. Papà Felice - Pa’ Fo, come lo chiamava mia madre - ha abbassato il finestrino e mi ha fatto sporgere fino a mezzo busto "Guarda lassù" e mi indicava un ponte altissimo issato su centine d’acciaio, sotto il quale transitavano tutti i convogli. Una enorme passerella zeppa di fari puntati in ogni direzione. Una serie di cabine di vetro, illuminate da lampade fortissime e colorate. Quella macchina fantastica era sorretta da piloni giganteschi. "Cos'è?" "È il centro operativo da dove si comanda il movimento di tutti i treni, compresi gli scambi e i semafori." In quel momento ero convinto: dentro quelle cabine di vetro, splendenti di luci, ci doveva essere di sicuro Dio, con tutti i Santi dei capostazione. Non avevo dubbi: il Padreterno non era altro che il direttore generale delle FF.SS. Era lui che organizzava tutto il movimento dei ferrovieri, lo spostarsi dei treni, progettava macchine e la nascita dei figli dei capostazione! Ma torniamo al nostro trasloco dalla stazione di San Giano a quella di Pino Tronzano sulla frontiera Svizzera: tutti i mobili della famiglia erano stati caricati su un vagone merci. Il viaggio non durava più di un’ora e mezza. Mi aveva fatto molta impressione veder smontare i letti e gli armadi. Credevo li stessero spaccando a pezzi e così sono 6 scoppiato in un pianto disperato. Mio padre mi aveva subito tranquillizzato: “Vedrai che appena arrivati, li rimetteremo insieme!” Ahimè, nel caricare “la roba”, la stufa di ghisa si era rovesciata dal vagone e si era sfasciata… mia madre ha mandato un urlo straziante. Io l’ho presa per mano e l’ho confortata: “Tranquilla, come arriviamo, il papà ri-incolla tutto!” Oh, antica fiducia nei padri! Il vagone era stato agganciato al treno sul quale anche noi si era saliti. Quindi, come siamo arrivati a Pino Tronzano, il nostro vagone merci è stato sganciato e, aiutati da due facchini, mio padre e mia madre hanno cominciato a scaricare i pezzi da rimontare. Io ero letteralmente affascinato da quel posto: la stazione era più grande di quella dov’ero nato… noi si abitava sopra, al primo piano. Un centinaio di metri più sotto, a picco, c’era il lago. Alle spalle montava una parete rocciosa dentro la quale era scavata una strada che disegnando un gran numero di tourniquet, saliva fino al paese: una cinquantina di case abbarbicate quasi una sull’altra come in un bassorilievo romanico. C’erano una torre antica, un campanile con sotto la pieve e un gran palazzo che ospitava il Municipio, la scuola e pure il pronto soccorso. 7 I facchini e i miei non avevano ancora terminato lo scarico ed ecco che arriva il prete: scendeva a darci il benvenuto e a benedire la casa con le pareti delle stanze intonacate di fresco. Con lui c’era un chierichetto che mi ha portato subito a visitare, nello spiazzo dietro la stazione, un gran recinto nel bel mezzo del quale troneggiava un imponente pollaio a forma di gazebo DA SISTEMARE. Dietro il gazebo un cumulo di gabbiotti sussultava per l’agitarsi di conigli stipati in clausura con un fracco di galline e delle gabbie basse con dentro i conigli. Mio padre si ritrovava a gestire quella stazione di confine al posto di un anziano collega in pensione. “È tutta roba vostra!” esclama di botto il chierichetto. “E come mai?” Il chierichetto, tutto garrulo, mi svela l’origine di quella inaspettata eredità: “Il capostazione che c’era prima era un fanatico dell’allevamento. Passava più tempo nel pollaio che nell’ufficio del telegrafo. ‘Ste bestie prolificavano da far spavento cosicché al momento di dover traslocare per via della pensione ha mollato tutta ‘sta polleria con coniglieria annessa ai novi arrivati, cioè a voi…” “Oh, grazie!” PARTE IN SOSPESO 8 Il cantoniere guardia-scambi, cioè l’assistente di mio padre, ci avvertiva che purtroppo galline e conigli ogni tanto riuscivano a scappare fuori dal recinto, cosicché immancabilmente qualcuno di loro finiva sulle rotaie, proprio mentre arrivavano i treni. Ad ogni modo, le povere vittime ferroviarie - o almeno le loro appetitose spoglie - erano quasi sempre “recuperabili: bastava decidere per lo spezzatino in umido, così nessuno s’accorgeva della gran tranciata. Devo dire che raramente in casa nostra si riusciva a cucinare un pollo o un coniglio intero! Avrete già indovinato che quella nostra stazione si trovava completamente isolata: ci abitavamo solo noi e il cantoniere guardia scambi con sua moglie. Sotto, al fondo della scarpata, di fronte alla scogliera che si inzuppava nel lago profondo era sistemata la caserma della Finanza con l’attracco per una motovedetta e una piccola nave- faro chiamata Torpedine. La notte c’era un gran silenzio, interrotto per lunghi tratti dal batti- batti della pompa che pescava l’acqua dal lago per riempire il grande serbatoio che avrebbe rifornito le locomotive in transito, da e per la 9 Svizzera. Mi piaceva moltissimo quel pulsare… sembrava il cuore della stazione: calmo e rassicurante. Un altro suono piacevole era quello dello scampanellio che annunciava l’arrivo dei treni. Qualche volta il fischio di una locomotiva in manovra mi svegliava, ma subito tornavo ad addormentarmi beato. Posso ben dire d’esser cresciuto con lo sferragliare delle ruote dei vagoni in testa, con il cigolio delle frenate e nella memoria degli occhi i segnali di luce della Torpedine, che sciabolavano sull’acqua, cielo e montagne, infilandosi poi fra le persiane. Essendo noi proprio sulla frontiera c’era sempre il problema dei contrabbandieri o dei disperati che tentavano di transitare nascosti nei vagoni merce. Ogni convoglio che facesse sosta veniva perquisito dalle guardie di finanza e dai carabinieri. Spesso mi svegliavano i segnali dati con fischietti e le grida dei reparti di servizio. Mi arrivavano insopportabili botti sferrati sulle fiancate dei vagoni, lo scorrere delle portiere e gli ordini di controllare meglio quel vagone o l’altro appresso. Poi un segnale gridato: “Tutto a posto!” Ero rimasto teso per tutta l’ispezione e adesso tiravo un gran fiato. Mi immaginavo sempre un uomo o un ragazzo appesi sotto un vagone 10 che finalmente riuscivano a farla franca e passare di là. Mi riaddormentavo con un gran sospiro sorridendo. Eravamo nel 1930. I clandestini di transito erano spesso antifascisti perseguitati, che cercavano di raggiungere Svizzera e Francia. Mi ricordo di una notte in cui grida, ordini e uno sparo mi hanno svegliato di soprassalto. Sono andato alla finestra e ho sbirciato di sotto: avevano catturato un clandestino e lo stavano portando giù, in caserma. L’indomani ho visto che lo caricavano su un vagone diretto a Luino dove c’erano le carceri. Più tardi mio padre mi aveva accennato a ‘sto fatto dei clandestini politici; io ci avevo capito poco, ma quella scena m’è rimasta nella memoria indelebile come un tampone scuro. Per incontrare ragazzini della mia età coi quali giocare mi toccava salire fino in paese. Era una scarpinata da gran fiatone… si montava di almeno trecento metri letteralmente in verticale. Non è stato difficile far amicizia con quei ragazzini: stavano tutti “aggrompiàti” nella piazzetta della chiesa ed erano piuttosto curiosi di conoscere un “foresto” come me. Parlavano tutti in un dialetto duro, pieno di zeta al posto delle esse, alla maniera degli svizzeri, ma non strascicavano le vocali come nel Canton Ticino.
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