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Foresta Nera PDF

2007·0.26 MB·italian
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FRANCK THILLIEZ FORESTA NERA (La Foret Des Ombres,2006) TRAMA L'offerta è una di quelle che non si possono rifiutare: un sacco di soldi per un lavoro che non prenderà più di un mese. E a David Miller non importa se le condizioni sono quantomeno singolari: rimanere chiuso in una villa nella Foresta Nera, insieme con Arthur Doffre, il facoltoso committente, per scrivere un libro su un serial killer - tristemente noto col soprannome "Boia 125" - responsabile della morte di sette coppie e suicidatosi quasi trent'anni or sono. Raggiunta la casa, David si trova subito immerso in un'atmosfera surreale: la villa, lontanissima dal villaggio, è stata costruita intorno a una quercia secolare e le grandi vetrate che la caratterizzano sono prive di ante e di tapparelle. In più, la neve copre ogni cosa. Ciò che lo aspetta, poi, non è meno inquietante: lo studio in cui dovrà produrre almeno dieci pagine ai giorno si affaccia su una sorta di mattatoio; la presenza di Doffre è costante e implacabile; i racconti sul Boia 125 sono raccapriccianti. Ma soltanto con l'arrivo allo chalet di una donna terrorizzata e gravemente ferita quell'incubo claustrofobico giungerà al culmine, esplodendo in un'imprevedibile e agghiacciante follia... A quell'angelo lontano, lassù, che mi accompagna... Senz'ali, senza uccelli, senza vento, ma con la notte; nulla se non il palpito di un'assenza di rumore. Da Sphere di Eugène Guillevec 1 La donna scagliò il test di gravidanza contro una trave del solaio. Positivo. Il mondo le crollò addosso. Prese a camminare avanti e indietro per la stanza, a capo chino e a piedi scalzi, scorticandosi i talloni con le schegge. Il sangue importava poco. Il dolore era da un'altra parte. Tradimento. Il vento urlava sotto le tegole del tetto, le fiamme delle candele ansimavano prima di distendersi e di assottigliarsi, afferrando il riflusso d'ossigeno. Sotto i turbini invisibili, una lettera profumata, squarciata con le forbici, su un vecchio tavolo di legno. Una lettera d'amore. La sessantatreesima che gli aveva scritto. Non l'avrebbe mai ricevuta. Non dopo quell'affronto. Mai. Le cadde lo sguardo sul test usato, la rabbia si rinnovò, si moltiplicò. Un frullio d'ali riempì la soffitta. Una colomba si agitava freneticamente sotto un coperchio. In meno di un'ora, sarebbe morta per mancanza d'aria. Dietro la finestra, la notte srotolava i suoi spettri filiformi e la brina si aggrappava ai vetri in stelle traslucide. Le pupille nere contemplarono per un po' i movimenti delle nuvole. Da lontano, la massa grigia delle case... Rouen. La donna strinse il pugno. Nella tempesta dei suoi lineamenti si leggeva la storia di quello che l'essere umano è sempre stato: un predatore. Quando le sue membra impazienti si liberarono un poco dal nervosismo, la donna si mise al tavolo e, di getto, su un foglio bianco scrisse: Tu sei cieco. Lei si serve di te. Un bambino non è abbastanza, forse? Bisognava proprio darci dentro di nuovo e metterla incinta? Perché? Per allontanarti da me? Non te lo lascerò fare. Il nostro sangue si è mescolato e nessuno potrà farci niente, nemmeno lei. Il tremore s'impossessò di nuovo delle sue dita scheletriche. Il pennino della stilografica sobbalzava da una riga all'altra, come un sismografo guasto. Le unghie stridevano contro il legno, fino a sfiorare la canna di un revolver. Non so se ti scriverò ancora. Non ne sei all'altezza. Prendi il mio silenzio come una punizione. Tocca a me farti soffrire. Ignorandoti. MISS HYDE La penna esplose contro il muro della soffitta. La lettera venne piegata maldestramente, poi ficcata in fondo a una scatola troppo voluminosa per quel pugno di parole. Mancava ancora qualcosa. La colomba, comprata in un allevamento. La donna si precipitò al pianterreno, con l'uccello della pace stretto fra le mani furiose. Nessuna porta da spingere per attraversare le stanze buie. Le aveva tolte tutte, meticolosamente, l'una dopo l'altra. L'ombra scivolò su uno specchio, poi tornò indietro, lasciando a ogni passo le tracce di sangue dei talloni martoriati. Fissò la lancetta dei secondi, quindi si portò la colomba davanti al viso. «Se sbatti le palpebre sette, no, otto volte in meno di dieci secondi, vuol dire che David mi ama alla follia. Per sette volte, vuol dire che mi ama, ma un po' meno. Non scendere sotto le sei, okay?» E si mise a contare, stringendo la povera bestia sempre più forte. Il pigolio salì fino al sottotetto. «Sbatti le palpebre, maledetta bestiaccia.» L'uccello sussultò per l'ultima volta. Sconfitta, la donna cercò di trovare qualche scusa. La scommessa non era valida, ne aveva già fatta un'altra meno di un'ora prima, pure quella persa. Non si fanno mai due scommesse troppo ravvicinate. Ovvio. Fissò lo specchio. Dietro di lei, appesa al muro con una puntina, una foto presa da un articolo di giornale, ingrandita a dimensioni reali: David... Da vicino, qualità scarsa, nonostante il ritocco digitale di ogni singolo pixel del viso, ma da lontano e a luce smorzata... la sottile illusione che David la stesse abbracciando. Spesso rimaneva lì, imbambolata, nel flusso delle ore insonni, a scrutare minuziosamente la coppia allo specchio. Formavano un duo così perfetto. Se solo quella schifosa puttana di sua moglie... Pensava costantemente a loro. A letto, in bagno... David aveva portato il sole nella sua vita, come tanti altri prima. Gli altri non erano che polvere. Ma lui... Lui era diverso. Un uomo per bene, colto, intelligente. Le aveva scritto parole così profonde, così toccanti. La amava. La amava davvero. Improvvisamente intenerita, fu sul punto di perdonarlo e di strappare la lettera. Dopotutto, aveva probabilmente messo incinta la puttana prima del loro primo contatto via e-mail. Come faceva a saperlo? Le dita non le tremavano più. Tutto andava bene. Sì. Con calma. Fare un bel respiro. Lo specchio, davanti a lei. David, David, David. Lì, vicinissimo. Forse doveva decidersi a incontrarlo di persona, finalmente. Andare a Parigi e vederlo, davvero, senza più nascondersi. Osservare i suoi occhi neri sprofondare dentro di lei. Sentire le sue mani che la carezzavano... Scosse la testa e contrasse la mascella. Tutto ciò non sarebbe successo. Il giorno seguente, all'alba, sarebbe partita per Parigi. E avrebbe fatto a David e a Cathy Miller una bella sorpresa. 2 Nell'intimità della prima mattina, David Miller sollevò delicatamente la camicia da notte di Marguerite, che aveva il triplo della sua età. Non la conosceva e, tra loro, ci sarebbe stata soltanto quell'ultima fusione carnale. Poi lui sarebbe scomparso, com'era venuto, col vento freddo di gennaio. Due ore di perfetta comunione. Con la vita, con la morte... Stesa sul letto, Marguerite emanava un piacevole odore di acqua di colonia. Un poco in disparte, nella stanza angusta, suo marito li osservava, David e lei, lo sguardo triste. Molto più giovane, anche lui. Comunque... Quelle fotografie incorniciate non erano state fatte il giorno prima... Mentre infilava i guanti e si metteva il camice sopra il vestito scuro, David esaminava il corpo della defunta. Non rilevò tracce di fleboclisi né escare. I lividi sull'orecchio sinistro si potevano attenuare con la semplice pressione del pollice. La temperatura corporea, ancora alta, prometteva un lavoro facile. Tanto meglio. Al contrario di Gisèle, una collega dal bisturi facile, David aborriva le complicazioni, soprattutto col suo primo defunto della giornata. Disinfettò il naso e la bocca, poi sistemò le palpebre e le labbra. Trovare il sorriso giusto era la cosa più difficile di quel mestiere. Evitare l'artificiosità, l'esagerazione. Riassumere tutto quello che la donna era stata mettendo nella giusta posizione due pezzi di carne pallida. Non era mai semplice, anche dopo sette anni di pratica e quasi cinquemila cadaveri. In quel momento, si accingeva ad affrontare un passaggio che non raccontava mai. Fece un'incisione nell'incavo del collo, da sinistra a destra, e riuscì a estrarre la carotide e la giugulare con un'unica, abile rotazione delle falangi. In una avrebbe iniettato dieci litri di soluzione fisiologica; l'altra sarebbe servita a rimuovere i fluidi corporei. Uno svuotamento, una purga, un'assoluzione. Con la pratica, aveva imparato a svolgere i due compiti contemporaneamente, riducendo così i tempi del lavoro di conservazione. Il che gli consentiva, al termine delle sue lunghe giornate di lavoro - raramente rientrava prima delle nove, traffico permettendo -, di trattare un defunto in più. Con una moglie disoccupata e una bambina piccola, quei quindici euro supplementari non erano poca cosa. Con grande attenzione, tagliò le unghie ben corte, quindi spalmò una crema idratante sulle mani, mentre i liquidi fluivano nei tubi trasparenti. Dopo aver tolto il guanto destro, accarezzò la fronte grinzosa col dorso della mano e, stranamente, non sentì il freddo cadaverico. Gli sarebbe tanto piaciuto conoscerla, conoscere lei e le altre. Anche solo per un rapido scambio di opinioni, per scambiarsi un sorriso, per bere insieme un caffè. Per presentarsi, se non altro. «Salve, io sono David. E lei?» Incontrare tante persone e non conoscerne nessuna. Lui era solo un imbalsamatore. Lo chiamavano proprio così: «l'imbalsamatore». O peggio: «il beccamorto». Prima di ricucire, iniettò un astringente. Più che i professori, era stata Cathy, sua moglie, a insegnargli a truccare un viso. «David, ovvero l'arte di trasformare un viso in una cava di gesso», aveva scherzato la prima volta che si era esercitato su di lei, prima dell'esame di ammissione. Così aveva finito per rendere il trucco la sua carta vincente. Spalmare creme, incipriare zigomi, ridare alle labbra il loro colore... Applicarsi il meglio possibile. Perché sarebbe stata quella l'immagine di Marguerite che si sarebbe impressa nella memoria dei suoi cari. Una vecchia signora tranquillamente addormentata. David aprì la finestra. Il freddo pungente si riversò nella stanza. La notte indietreggiava sulla coltre di nebbia, lasciando presagire una giornata mortale. Un'altra bella sfilza d'incidenti in arrivo, pensò sospirando. I feriti e le autopsie erano quello che temeva di più. Odiava rimettere insieme i pezzi. E poi, come affrontare le pupille vitree e stupefatte di un bambino squartato? Adorare e detestare la propria arte. Triste contraddizione. Richiuse le imposte prima di dare un'occhiata all'orologio. Le otto passate, Cathy non aveva ancora chiamato. Forse non c'erano state lettere, quella mattina. Quelle lettere anonime che inondavano la loro casella postale - «David & Cathy Miller» - da quasi un mese. Suo malgrado, continuava a pensarci. Ripose il materiale e i vasetti di rifiuti organici nelle due valigie di alluminio. L'odore della formaldeide - un fetore insopportabile per i non-iniziati - si era in parte dissipato. Marguerite stringeva il rosario di legno tra le mani giunte e sembrava in pace, avvolta nel suo vestito più elegante. Era linda e pulita. Poteva far entrare la figlia. «Devo ancora pettinarla, ma può farlo lei, se desidera», mormorò in tono rispettoso. La donna si rintanò nel cappotto, con un vago cenno di risposta. Poi avanzò verso la madre. David percepì un'ombra di sollievo dietro le lacrime, prova di un lavoro ben fatto. Avrebbe preferito una mancia, ma insomma, una parola, uno sguardo, un sorriso discreto potevano bastare. E poi, soldi in un momento simile... Bisognava saper conservare la dignità... la professionalità... «Sembra addormentata», sussurrò infine la donna, prendendo delicatamente la spazzola. David si sporse e accompagnò il gesto di lei. Bisognava sempre aiutare un po' i clienti, all'inizio. Accostarsi a un defunto non è mai facile, sfiorarlo lo è ancora meno. Poi i movimenti venivano da sé. L'ultimo scambio tra madre e figlia. Forse il momento più intimo e commovente di tutta una vita. Una volta all'aperto, David prese il cellulare per chiamare Cathy. Voleva sapere. Cosa si era inventata ancora Miss Hyde nella sua ultima lettera? Aveva accluso un biglietto perché lui andasse a vedere uno spettacolo «pensando a lei»? La fotografia di un tramonto, «un luogo dove un giorno andremo insieme»? Oppure solo minacce, come la maggior parte delle volte? All'ultimo cambiò idea. Menzionare le lettere avrebbe dato di nuovo fuoco alle polveri. Negli ultimi tempi, Cathy aveva i nervi a fior di pelle, era una vera anguilla, insieme vicina e sfuggente. Sgusciava via non appena la abbracciava. Da quanto non facevano l'amore? A conti fatti, forse avvertire la polizia non era una cattiva idea. Incidere l'ascesso. Quel giorno, Miss Hyde non lo spaventava. In realtà, non l'aveva mai spaventato, ma incuriosito. Dall'eleganza della scrittura, la immaginava piuttosto matura, ma le sue parole bruciavano di foga adolescenziale. Non parlava mai di sé, sempre di loro. Una creatura curiosa. Un buon personaggio da romanzo, in ogni caso. David alzò il collo della giacca a vento, seppellì il naso sotto la sciarpa e s'inoltrò fra gli spessi strati di oscurità. Era da un po' che non passava per quelle parti del XIX Arrondissement, sui selciati della collinetta Beauregard, nella fitta tessitura di costruzioni ammassate, coi tetti schiacciati dalla nebbia. Un'ambientazione interessante per uno dei suoi prossimi thriller, perché no? Una terra dalla storia insanguinata, infarcita di gallerie sotterranee. Non un'anima in quei vicoli scoscesi. Sì, l'idea non era poi così stupida. Chilometri di tunnel che si gettano in una cava di gesso. Facile nasconderci l'antro di uno psicopatico, rinchiuderci atrocità folli. Tutto un programma per Jack Frost, lo sbirro dei suoi romanzi. Perché David scriveva. Quando non ricuciva, quando non dormiva, quando non crollava dalla fatica, scriveva.

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