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Ferrari, testimone del tempo PDF

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FERRARI • TESTIMONE DEL TEMPO Ferrari: Proprietà letteraria riservata © 1980 Rizzoli Editore. Milano Testimone del tempo: © 1980 Club Italiano dei lettori, Milano Edizione riservata ai soci del Club Italiano dei Lettori S.p.A.. Milano 1980 su licenza di Rizzoli Editore Enzo Biagi FERRARI • TESTIMONE DEL TEMPO Club Italiano dei Lettori « La mia vita è stata un ansimante cammino. Non tornerei indietro. Non mi piace più questo mondo dove la violenza ha preso il posto della ragione. Intravedo uno smisurato penitenziario che ha in noi i suoi reclusi. L'egoismo ci condiziona, allontanandoci spesso dal prossimo, costringendoci a contare sulle nostre sole possibilità. » E F NZO ERRARI I giorni che contano L'antefatto Una storia lunga cominciata oltre sessant'anni fa. È il 5 ottobre del 1919, infatti, quando Enzo Ferrari irrompe nel mondo dell'automobilismo, facendo il suo esordio come corridore. Disputa la Parma-Poggio di Berceto. Si classifica al quarto posto. La sua esperienza durerà dieci anni. Ma senza grandi bagliori. Dirà più tardi: « La mia grande passione non è mai stata guidare le macchine, ma farle nascere ». Dovrà attendere. Nel 1929, abbandonata l'attività di pilota, organizza una scuderia: la scuderia Ferrari. Ne faranno parte, tra gli altri, Nuvolari, Varzi, Campari, Fagioli, Chiron. Corrono con le Alfa. E ottengono raffiche di vittorie. Poi arrivano gli anni del predominio tedesco. Mercedes e Auto Union scendono in forze sulle strade e sulle piste. Nessuno sembra in grado di resistere ai bolidi argentati. Ma nel 1935 Nuvolari realizza una eccezionale impresa: vince il Gran Premio di Germania. Qualcuno dirà: un « affronto » per il nascente nazismo, paragonabile solo a quello che un nero americano di nome Jesse Owens, sull'anello olimpico della Berlino 1936, infliggerà al Terzo Reich e ai suoi profeti della razza pura. La scuderia Ferrari dura nove anni. Nel 1938, dopo avere preparato la 158, la freccia dell'Alfa che dominerà nel dopoguerra, Ferrari viene nominato direttore sportivo della casa milanese. Ma è una brevissima parentesi. Ferrari lascia l'incarico perché non va d'accordo col direttore generale. Torna nella sua Modena. Nasce il costruttore Sull'Europa si addensano le nubi della grande bufera. Ferrari fonda la Auto Avio Costruzioni. Anno 1939. Costruisce motori per aerei-scuola, macchine, utensili, ma non auto. Ha un impegno con l'Alfa che gli impedisce, per quattro anni, di lanciare vetture denominate Ferrari. Ma il suo obiettivo resta sempre quello. E così realizza la 815, utilizzando parti meccaniche della Fiat. C'è il tempo per farne gareggiare due esemplari nella Mille Miglia edizione 1940. Poi la guerra, le distruzioni. Ferrari si trasferisce a Maranello. Ma anche là non c'è scampo. I bombardamenti non risparmiano la sua fabbrica. Ferrari non si arrende. Ricostruisce. E quando il cannone tace, dà inizio alla scalata che lo porterà ai vertici dell'automobilismo mondiale. Riesce a strappare ad Arese Gioacchino Colombo, il progettista della 158. Nasce la Ferrari. Nel 1947 se ne vendono i primi esemplari: sette in tutto. La nuova vettura, denominata 125-GT, esordisce nel maggio '47 al circuito di Piacenza. La pilota Franco Cortesi, che sarà costretto al ritiro a due giri dal termine. Sono anni di crescita. Ma anche difficili. In Formula 1, c'è lo strapotere dell'Alfa, che vince il primo campionato mondiale con Nino Farina, seguito in classifica da Fangio e Fagioli. La 158, la gloriosa Alfetta, non ha rivali. E anche il titolo del 1951 è suo: stavolta ad aggiudicarselo è Fangio. Ma in quell'anno avviene qualcosa di nuovo e di importante. Al traguardo del Gran Premio d'Inghilterra sfreccia davanti a tutti una Ferrari. È la prima affermazione di prestigio. La consegue un "maciste" argentino. Si chiama Froilan Gonzales. L'incantesimo è rotto. E subito seguono due successi, in Germania e Italia, di Ascari. Ormai la Ferrari è lanciata: la classifica finale del '51 la vede al secondo e terzo posto rispettivamente con Ascari e Gonzales. Il biennio d'oro I trionfi sono vicini. E arrivano infatti nel 1952 e l'anno dopo. Tre ferraristi ai primi tre posti nel 1952: Ascari, Farina e Taruffi. E due nel 1953: primo Ascari, secondo Fangio su Maserati, terzo Farina. È la consacrazione internazionale dell'auto italiana. E di un pilota italiano. Era stato Gigi Villoresi a portare Alberto Ascari in casa Ferrari. E sembrava un sodalizio destinato a durare a lungo. Alberto Ascari era figlio di un altro campione del volante, Antonio, amico e compagno dello stesso Ferrari, morto nel '25 sul circuito di Montlhéry. E come il padre, era un abilissimo collaudatore e un pilota generoso. Proprio le qualità che Ferrari predilige. Ma l'unione, cominciata nel '49, si spezza nel '54, proprio dopo il biennio d'oro, quando Ascari passa alla Lancia. Il primo divorzio importante consumato a Maranello. Passerà poco tempo e la separazione diventerà tragicamente irreparabile. È il 26 maggio del '55. Un giovedì. Alberto Ascari, appena reduce da un pauroso incidente sul circuito di Montecarlo, si reca a Monza per seguire le prove di alcuni colleghi che avrebbero dovuto gareggiare la domenica successiva. Tra i piloti che si esercitano c'è Eugenio Castellotti. Ascari gli chiede di guidare la sua Ferrari. Si fa dare il casco e gli occhiali dell'amico. Parte. Un giro. Poi uno schianto. Accorrono e trovano la macchina capovolta e Ascari esanime. Scompare un grande pilota, un milanese ricco di tenerezza e di coraggio. Lo chiamavano Ciccio. Aveva 37 anni. Nessuno saprà mai com'è successo. Nel '54 Ferrari deve accontentarsi del secondo posto di Gonzales e del terzo di Hawthorn. Il vincitore è Fangio su Maserati e Mercedes. E ancora l'argentino, su Mercedes, fa il bis l'anno dopo precedendo il compagno di squadra Moss e il ferrarista Castellotti. Ferrari rimane ai vertici ma gli mancano le vittorie assolute. Come rimediare al dopo-Ascari? La soluzione è Juan Manuel Fangio. L'argentino era arrivato in Italia nel 1948, con le credenziali di "capitano" di una squadra del suo Paese e di "protetto" di Juan Perón. Allora aveva 37 anni. Sembrava tardi per pronosticargli un futuro in Formula 1. Ma Ferrari, dopo averlo visto in azione sulla pista di Modena, ne aveva intuito le eccezionali risorse. Così decise di affidargli una sua vettura. E Fangio rispose vincendo il Gran Premio di Monza nonostante un guasto. Ma non si fermò a Maranello. Alla Ferrari preferì l'Alfa. Scriverà poi Ferrari: « Fangio non ha mai sposato alcuna casa: consapevole delle sue capacità, ha rincorso tutte le possibilità di pilotare sempre la vettura migliore del momento ». E in quell'anno, il 1956, ritiratasi la Mercedes, nessuna vettura gli dà maggiori garanzie della Ferrari, che eredita dalla Lancia le D-50 otto cilindri. Fangio riporta così il titolo mondiale a Maranello. E poi lascia. Va alla Maserati, con la quale si conferma campione mondiale. Le tragedie Per Enzo Ferrari sono giorni di dolore, anche se nel '58 si prende la rivincita con Hawthorn, un inglese di fuoco protagonista di un memorabile duello col connazionale Moss. Ferrari si porta addosso le ferite di una catena di tragedie. La prima è quella della morte, nel 1956, del figlio Dino (e Dino darà il suo nome alla sei cilindri a V 1500). Dino, laureato in ingegneria in Svizzera, era uno dei suoi tecnici più ascoltati e l'interlocutore più vicino: la sua più forte ragione di vita. L'anno successivo, la strage alle Mille Miglia, l'ultima Mille Miglia. Un patrizio spagnolo, il marchese De Portago, e il suo secondo, Nelson, muoiono sulla loro Ferrari che falcia e uccide nove spettatori a Guidizzolo di Mantova. La stampa insorge. E Ferrari viene processato, in sede penale. I giudici lo assolvono. Non ha nessuna colpa. Ma l'amarezza rischia di travolgerlo. Medita il ritiro. Poi la sua tempra indomabile ha il sopravvento. E resta al suo posto. In quello stesso anno scompare Eugenio Castellotti, un giovane lodigiano bello come un divo del cinema. È legato da rapporti sentimentali con Delia Scala, una delle regine del teatro di rivista italiano. Castellotti sta provando sull'autodromo di Modena. Esce fuori strada in una curva. È il 14 marzo 1957. Aveva ventisette anni. Era promettente, per il suo coraggio più che per la sua classe. È morto sognando di vincere un Gran Premio. Un altro giovane cade nel '58. È un inglese. Lo descrivono come un gentleman. Si chiama Peter Collins. Ha appena passato in testa il traguardo del Gran Premio di Gran Bretagna. La sua Ferrari si sfascia in una scarpata del Nürburgring. Stava inseguendo la Vanwall di un compatriota, Tony Brooks. In quell'anno tocca pure a Luigi Musso. La tragedia avviene a Reims, durante il Gran Premio di Francia. Il pilota romano esce fuori strada. Cessa di vivere in ospedale. Qualcuno dirà che la sua morte trova una spiegazione nella rivalità che lo divideva dal suo collega di équipe Hawthorn. Mentre questi lutti si susseguono, sugli autodromi avanza la minaccia dei costruttori britannici. Il campionato del '59 si conclude con l'affermazione di Brabham, su Cooper. La Ferrari è seconda con Brooks. Nel '60 ancora la Cooper: primo posto dello stesso Brabham, secondo il suo compagno di "team" McLaren. Segue Moss su Lotus. Ma la Ferrari si scuote. A Maranello approda un americano, scontroso, teso, eppure sentimentale: Phil Hill. E con lui arriva il quinto titolo mondiale targato Ferrari. È il 1961, un altro anno segnato a lutto nella storia dell'automobilismo. Strage a Monza 14 settembre. Si corre il Gran Premio d'Italia, penultima prova della stagione. Il tedesco von Trips è in testa alla classifica del mondiale. Ha 33 punti contro i 29 dell'altro ferrarista, Phil Hill. Al secondo giro il disastro. Lo scozzese Jim Clark, ancora alle prime armi come pilota della Formula 1, tocca con la sua Lotus la Ferrari di von Trips, poco prima della curva parabolica di Monza. Il bolide del tedesco sembra impazzito. Ed è la strage: con von Trips muoiono quattordici spettatori. I feriti sono decine. A von Trips resta il secondo posto « alla memoria », nel mondiale. Per Ferrari seguiranno due anni di grigiore. Ritorno alla vittoria È John Surtees a vincere il sesto mondiale nel '64. Surtees aveva trent'anni, era inglese di Tastfield, e prima di approdare alle quattro ruote, nel '60 con la Cooper, era stato un grande campione di motociclismo: sette titoli iridati con la MV Agusta. Il suo successo fu contrastato e appassionante: prima dell'ultimo Gran Premio, in programma a Città del Messico, era secondo in classifica dietro il connazionale Graham Hill (BRM): trentaquattro punti contro trentanove. In quella prova decisiva si ritirarono Clark, terzo a quota trentadue, e Graham Hill. Bandini, altro « ferrarista », era in seconda posizione ma lasciò passare il compagno di scuderia che ottenne così sei punti necessari a vincere. Il binomio Ferrari-Surtees pareva destinato a buone imprese: c'erano stima reciproca e identità di vedute su parecchi argomenti tecnici; eppure nel '66 alla vigilia della 24 ore di Le Mans avvenne il distacco. Periodo duro Così con il '66, che dopo le delusioni dell'anno prima doveva essere la stagione del riscatto, comincia un periodo duro per gli uomini di Maranello. La prima guida è Lorenzo Bandini, nato in Cirenaica, figlio di un meccanico, rimasto orfano prestissimo. La vita per Bandini fu - come si dice - tutta in salita, le macchine il mezzo dell'ascesa sociale ed economica. Debutta con la Ferrari nel '62 a Montecarlo, ha il suo unico successo nel Gran Premio d'Austria del '64: all'appuntamento con la gloria trova la morte. Capita a Montecarlo nel '67, gara d'esordio per le rosse vetture che hanno disertato il Sud Africa. Bandini parte in prima fila con Brabham, è subito in testa, lo gioca l'olio sull'asfalto costringendolo a cedere ad Hulme e Stewart il comando della corsa. Ritiratosi Stewart, Bandini dal 42° al 58° giro si porta a soli sette secondi da Hulme. A a metà dell'81 tornata, l'incidente: Bandini ha toccato con una ruota una staccionata, la macchina, rimbalzando contro un parapetto di ferro, si è sventrata, capovolta ed incendiata. Lunghi giorni di agonia: Bandini muore il 10 maggio 1967. È l'epilogo drammatico di un periodo denso di disavventure, nonostante i successi dei prototipi e la vittoria di Scarfiotti nel '66 a Monza. Il gravissimo incidente di Parkes, costretto in pratica ad abbandonare la carriera, la rottura con Scarfiotti, la sua stessa morte nel '68 nelle prove del campionato europeo di montagna, le difficoltà di Amon che disputa ventisei grandi premi senza riuscire a vincerne uno: il caso limite in Spagna nel '68, al comando con venticinque secondi di vantaggio su Graham Hill, è fermato dall'avaria del fusibile della pompa di benzina. Intanto, fra i successi degli altri, si annuncia il micidiale otto cilindri della Ford- Cosworth che avrebbe segnato un'epoca e al quale la Ferrari risponde lanciando in Formula 1 l'alettone posteriore, Belgio '68. Manca sempre però il corridore di spicco, il campione in grado di sfruttare le risorse tecniche della casa. In quegli anni « bui » si alternano De Adamich, Bell, Williams, Pedro Rodriguez, fratello di Ricardo, un altro innamorato della scuderia: segue la stessa sorte del fratello morendo nel '71 in una gara di contorno alla guida di una vecchia macchina di Maranello. È in questa situazione che arriva Jacky Ickx, lunatico rampollo di una famiglia dell'alta borghesia belga. Ickx ha soltanto ventitré anni. Vince subito il Gran Premio di Rouen in Francia e poi comincia l'altalena dei risultati che per quattro anni somministreranno illusioni ed amarezze ai tifosi del cavallino rampante. Ci si mette di mezzo anche la malasorte, nel '70, quando la rottura di un raccordo della benzina impedisce il successo del Gran Premio degli USA, necessario per scavalcare in classifica l'austriaco Rindt. Il '70 (quattro vittorie: Ickx in Austria, Canada e Messico, Regazzoni a Monza) pareva essere l'annuncio di un'altra èra fortunata per la Ferrari ed invece rimane un bagliore senza seguito. Un brusco cambiamento di rotta cominciato con la morte d'Ignazio Giunti a Buenos Aires, nel gennaio del '71. Accanto ad Ickx in quegli anni vengono provati molti piloti, lo stesso Giunti, Andretti, ancora agli esordi in Formula 1, Galli, Merzario. Sono anni incerti, illuminati appena da un paio di vittorie, (Olanda nel '71 e Germania nel '72) che si concludono nella maniera più naturale e cioè con la separazione fra Ickx, ormai ricco e annoiato, e la Ferrari che si appresta a battere altre vie. Ecco Lauda Viene creata una struttura nuova: dalla direzione tecnica, affidata a Mauro Forghieri, alla direzione sportiva con l'allora giovanissimo Luca di Montezemolo, alla squadra formata da un vecchio ma utilissimo cavallo di ritorno, Regazzoni, e da un ragazzino, Niki Lauda. Austriaco, il giovane Lauda si è tirato su da solo, investendo sul proprio talento e rompendo con la famiglia allorché i parenti si oppongono alla sua scelta. Quando Lauda arriva a Maranello è un pivellino di scarsa esperienza, ma che mostra subito un impegno quasi maniacale nella messa a punto della 312 B-3; giorni e giorni di preparazione che danno presto buoni frutti: all'esordio della stagione arrivano i primi piazzamenti. In Spagna il clamoroso e definitivo ritorno al vertice: primo Lauda, secondo Regazzoni. Lì viene presa la decisione di privilegiare Lauda su Regazzoni: ciò non impedisce ai due di cominciare una serratissima battaglia e spesso il giovane finisce, con la propria inesperienza, per danneggiare il secondo. Nelle ultime corse dell'anno Regazzoni ha la possibilità di vincere il mondiale: all'ultima prova, negli Stati Uniti, lui e Fittipaldi sono alla pari in testa alla classifica. Regazzoni parte benissimo superando Fittipaldi ma poi

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