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Coma PDF

251 Pages·1977·0.96 MB·English
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ROBIN COOK COMA (Coma, 1977) Alla memoria di mio padre, a mia madre, con affetto, a Sharon, con riconoscenza. Prologo 14 febbraio 1976 Nancy Greenly giaceva supina sul tavolo operatorio. Fissava le grosse lampade della sala numero 8, cercando di mantenersi calma. Le avevano fatto le solite iniezioni preoperatorie, e le avevano assicurato che così si sa- rebbe perfettamente rilassata. Niente di tutto ciò. Era più tesa e angosciata di prima e, peggio ancora, totalmente, completamente, assolutamente indi- fesa, vulnerabile. Nei suoi ventitré anni non aveva mai provato niente di simile. Era coperta da un lenzuolo di lino bianco, con gli orli sfilacciati e un piccolo strappo in un angolo. Non sapeva perché, ma la cosa le dava fa- stidio. Sotto il lenzuolo indossava uno di quei camicioni da ospedale aperti sulla schiena, che si allacciano sul collo e coprono solo fino a mezza co- scia; tra le sue gambe l'assorbente era già tutto inzuppato di sangue. In quel momento odiava e temeva l'ospedale; aveva voglia di urlare, di fuggire da quella stanza. Ma non lo fece: aveva più paura dell'emorragia che le era venuta che di quell'ambiente freddo e crudele. L'uno e l'altra la rendevano drammaticamente conscia della propria mortalità, e questo era un argo- mento che non le piaceva dover affrontare. Alle 7.11 del 14 febbraio 1976 il cielo su Boston era grigio pallido; le macchine che entravano in città in file serrate avevano i fari accesi; la tem- peratura era di diciassette gradi e la gente per le strade camminava in fret- ta. Nessuna voce, solo il rumore delle automobili e del vento. Dentro al Memorial Hospital le luci al neon illuminavano ogni centime- tro quadrato del reparto chirurgia. L'attività frenetica e le voci eccitate con- fermavano la regola che faceva iniziare gli interventi alle 7.30 in punto. Ciò significava alla lettera che i bisturi cominciavano a tagliare alle 7.30; e per quell'ora bisognava andare a prendere i pazienti, prepararli, lavarli, metterli sotto anestesia. Alle 7.11 l'attività del reparto, sala 8 compresa, procedeva perciò a pieno ritmo. La sala operatoria numero 8 non aveva niente di particolare. Come in tutte le altre, i muri erano ricoperti di piastrelle di colore neutro e il pa- vimento era di linoleum. Alle 7.30 del 14 febbraio 1976, nella numero 8 era previsto un DR: dilatazione e raschiamento, un normale intervento gi- necologico. La paziente era Nancy Greenly; l'anestesista il dottor Robert Billing, interno dell'ospedale da due anni; le infermiere Ruth Jenkins e Gloria Di Mateo; il chirurgo, George Major, il nuovo giovane socio di uno dei più anziani e affermati ginecologi, era nello spogliatoio e stava indos- sando il camice. Nancy Greenly aveva perdite di sangue da undici giorni. All'inizio aveva pensato che fossero semplicemente le mestruazioni, soltanto in anticipo di qualche settimana. Non aveva avuto dolori premestruali, a parte un leggero crampo la mattina che il sangue aveva cominciato a uscire. Poi più niente. Ogni notte sperava che fosse finita, ma alla mattina si svegliava con l'as- sorbente fradicio di sangue. Le conversazioni telefoniche, prima con l'in- fermiera del dottor Major, poi col dottore stesso, avevano calmato i suoi timori per periodi via via più brevi. Era una seccatura enorme, e come suc- cede sempre con queste cose era capitata nel momento meno opportuno. Kim Devereau era venuto a Boston dalla Duke Law School per passare in- sieme a lei le vacanze di primavera. E la sua compagna di camera aveva deciso di andare a sciare a Killington proprio quella settimana. Tutto si stava mettendo nel più romantico dei modi. Tutto, tranne le perdite di san- gue. Non era una cosa a cui Nancy potesse passare sopra. Era una ragazza snella e attraente, dall'aria delicata e aristocratica, molto esigente riguardo alla propria persona: se aveva i capelli appena appena sporchi si sentiva a disagio. Quel sangue che continuava a colare la faceva sentire sporca, fuori posto, brutta. Alla fine aveva cominciato ad aver paura. Si ricordava che era sdraiata sul divano coi piedi sul bracciolo, e leggeva la pagina editoria- le del Globe; intanto Kim stava preparando da bere in cucina. Di colpo a- veva provato una strana sensazione nella vagina, una sensazione mai pro- vata prima. Era come se una massa morbida e calda si stesse gonfiando dentro di lei. Ma non le dava né fastidio né dolore. Sulle prime era rimasta perplessa, chiedendosi cosa potesse essere; ma poi aveva sentito un calore all'interno delle cosce e un rivoletto di sangue le era sceso tra le natiche. Senza preoccuparsi troppo, si era resa conto che stava sanguinando, e abbondantemente anche. Restando immobile aveva girato la testa verso la cucina e aveva detto: «Kim, per favore, mi puoi chiamare un'ambulanza?». «Che ti succede?» aveva chiesto Kim accorrendo. «Sto perdendo molto sangue,» aveva risposto lei tranquilla. «Ma non c'è ragione di allarmarsi. Sarà solo una mestruazione più forte del solito. Però è meglio che vada subito in ospedale.» Il tragitto in ambulanza era andato liscio, senza sirene né drammi. Al pronto soccorso l'avevano fatta aspettare più di quanto le sembrasse ragio- nevole: poi era arrivato il dottor Major, e la sua comparsa aveva risvegliato in lei, per la prima volta, un senso di gioia. Aveva sempre detestato le visi- te ginecologiche, associandole alla faccia, all'andatura, all'odore di quel- l'uomo. Ma adesso, a vederselo lì davanti, era stata così felice che aveva dovuto lottare per ricacciare indietro le lacrime. Ma quella era stata la visita ginecologica più brutta della sua vita. Una tenda leggera, che veniva continuamente tirata, era l'unica barriera tra lei e la folla che gremiva lo stanzone del pronto soccorso. A intervalli di pochi minuti le misuravano la pressione; le avevano fatto un prelievo di sangue; aveva dovuto cambiarsi e indossare il camice da ospedale. Intanto la tenda continuava a venire aperta, e Nancy si trovava di fronte una marea di fac- ce, di camici bianchi, di bambini che si erano tagliati, di vecchi malconci. E poi c'era la padella, messa lì in un angolo, in modo che chiunque poteva vederla. Dentro c'era una grossa macchia di sangue scuro semirappreso. Il dottor Major era curvo tra le sue gambe, e mentre la toccava parlava di un altro caso con l'infermiera. Nancy aveva chiuso gli occhi stringendo le pal- pebre con tutte le sue forze, e si era messa a piangere silenziosamente. Ma sarebbe finito in fretta, almeno così aveva assicurato il dottor Major. Aveva spiegato a Nancy con ricchezza di particolari com'è fatto il rivesti- mento dell'utero, e come cambia durante il ciclo normale, e che cosa suc- cede quando non cambia. Qualcosa sui vasi sanguigni e sulla necessità che un uovo si stacchi dall'ovaia. La cura radicale consisteva in una dilatazione con raschiamento. Nancy aveva acconsentito senza obiezioni; aveva solo chiesto che i suoi genitori non venissero avvertiti. L'avrebbe fatto lei stessa dopo l'operazione. Era sicura che sua madre avrebbe pensato a un aborto. Adesso Nancy fissava la grande lampada della sala operatoria, e l'unica cosa che la consolava era il pensiero che quel maledetto incubo sarebbe fi- nito entro un'ora, e poi tutto sarebbe tornato normale. «Sta comoda?» Nancy girò la testa verso destra. Due occhi scuri la guardavano al di so- pra della mascherina. Gloria Di Mateo le stava rimboccando il lenzuolo at- torno al braccio, in modo che non potesse muoversi. «Sì,» rispose Nancy sforzandosi di apparire disinvolta. In realtà stava tremendamente scomoda. Il tavolo operatorio era duro come quello di formica della sua cucina. Ma il Phenergan e il Demerol che le avevano da- to stavano iniziando a fare effetto. Era molto più sveglia di quanto non a- vrebbe desiderato, e nello stesso tempo cominciava a provare una specie di distacco, di dissociazione da ciò che la circondava. Anche l'atropina si sta- va facendo sentire: aveva la gola e la bocca secche e la lingua impastata. Il dottor Robert Billing era tutto occupato con la sua macchina, un ag- glomerato di acciaio inossidabile, manometri, e alcune bombole colorate di gas compresso. Sulla macchina c'era una bottiglia marrone di halothane. Sull'etichetta c'era scritto: 2-bromo-2-cloro-1,1,1-trifluoretano (C2HBrClF3). Un anestetico quasi perfetto. Quasi perché sembrava che tal- volta distruggesse il fegato dei pazienti. Ma ciò accadeva di rado, e le altre caratteristiche dell'halothane erano così eccellenti da far passare in secon- do piano il pericolo di danni al fegato. Il dottor Billing era entusiasta di questa sostanza. A volte faceva uno strano sogno: vedeva se stesso che svi- luppava la formula dell'halothane, lo faceva conoscere al mondo medico con un articolo sul New England Journal of Medicine e alla fine andava a ritirare il premio Nobel con addosso lo stesso smoking del suo matrimonio. Billing era un anestesista formidabile, e lo sapeva. E pensava che anche gli altri lo sapessero. Era convinto di conoscere l'anestesiologia quanto e meglio della maggior parte dei colleghi. Era meticoloso, molto meticoloso. Da quando lavorava in ospedale non aveva mai avuto complicazioni gravi. Davvero una mosca bianca. Come il pilota di un jet, aveva una lista sempre pronta delle operazioni da fare; il suo metodo era quello di controllare ogni fase del trattamento. Ciò significava che aveva fatto un migliaio di fotocopie della lista, e a ogni operazione se ne portava sempre dietro una insieme alla propria attrezzatu- ra. Alle 7.15 era arrivato in perfetto orario alla fase numero 12: innestare un tubo di gomma simile a quelli dei respiratori subacquei. Un'estremità finiva nella sacca di ventilazione, la cui capacità da quattro a cinque litri gli dava la possibilità di gonfiare i polmoni del paziente in qualsiasi mo- mento; l'altra terminava in un contenitore pieno di calce viva, in cui veniva assorbito il diossido di carbonio espirato dal paziente. La fase numero 13 consisteva nell'assicurarsi che le valvole unidirezionali fossero allineate nella posizione giusta; la 14 nel collegare il respiratore alle fonti d'aria compressa, protossido d'azoto e ossigeno, situate su una parete della sala operatoria. Appese a un lato dell'apparecchio c'erano due bombole d'ossi- geno d'emergenza. Billing controllò i manometri: la pressione era al mas- simo. Ottimamente. «Adesso le metto qualche elettrodo sul petto per controllare il cuore,» disse Gloria Di Mateo, tirando giù il lenzuolo ed esponendo il torace di Nancy all'aria sterile. Il camice le arrivava a coprire appena i capezzoli. «Sentirà freddo per un secondo,» esclamò l'infermiera spalmandole un po' di gelatina grigia su tre punti del petto. Nancy voleva dir qualcosa, ma era combattuta tra due stati d'animo op- posti: da una parte era riconoscente, perché sapeva che tutto questo era per il suo bene, o almeno così le avevano detto; ma dall'altra era furiosa per essere così esposta, in senso letterale e figurato. «Adesso sentirà una piccola puntura,» disse il dottor Billing premendo sulla mano sinistra della ragazza per trovare le vene. Stava accadendo tutto troppo in fretta perché lei riuscisse a rendersi conto. «Buongiorno, Miss Greenly,» salutò un esuberante dottor Major, entran- do con passo energico in sala operatoria. «Spero che abbia passato una buona notte. Solo pochi minuti, e poi la farò tornare nel suo letto per una bella dormita.» Prima che Nancy potesse rispondere, i nervi del dorso della sua mano presero vita e lanciarono urgenti messaggi al centro del dolore. Dopo la prima fitta, il male continuò ad aumentare, e poi si spense. Il laccio di gomma scomparve, e il sangue riaffluì alla mano di Nancy. Sentì le lacri- me sgorgare da dentro la testa. «Endovena,» disse il dottor Billing impersonalmente, e fece un segno nero accanto al numero 16 della lista. «Tra poco si addormenterà, Nancy,» continuò il dottor Major. «Non è vero, dottor Billing? Nancy, è una ragazza fortunata oggi. Il dottor Billing è il numero uno.» Major chiamava tutte le sue pazienti «ragazza», qualun- que età avessero. Era uno di quei vezzi di accondiscendenza che aveva a- dottato dal suo collega più anziano. «È esatto,» esclamò Billing, montando una maschera di gomma sul tubo dell'anestesia. «Tubo numero 8, Gloria. Può prepararsi, dottor Major, alle sette e mezzo in puntò siamo pronti.» «Okay.» Il dottor Major si avviò alla porta; si fermò e si voltò verso Ruth Jenkins, intenta a preparare gli strumenti chirurgici. «Voglio i miei dilatatori e raschiatoi, Ruth. L'ultima volta mi hai dato quella ferraglia da Medioevo dell'ospedale.» Era già fuori prima che l'infermiera avesse potu- to rispondere. Da un punto indefinito alle sue spalle, Nancy sentiva il ritmo pulsante, simile a un sonar, del monitor cardiaco: era il battito del suo cuore che ri- suonava nella stanza. «Bene, Nancy,» sorrise Gloria. «Dovrebbe mettersi un po' più giù e infi- lare i piedi qui nelle staffe.» Le prese prima l'una e poi l'altra gamba e le ti- rò sulle staffe d'acciaio. Il lenzuolo scivolò tra le gambe di Nancy, sco- prendole da metà coscia in giù. La parte inferiore del tavolo si abbassò di colpo, e il lenzuolo cadde per terra. Nancy chiuse gli occhi cercando di non immaginare se stessa lì sul tavolo a gambe aperte. Gloria raccolse il len- zuolo e l'appoggiò sull'addome della ragazza, in modo che un lembo le scendesse tra le gambe, e le coprisse il perineo insanguinato e appena rasa- to. Nancy sentiva l'angoscia crescerle dentro. Voleva essere riconoscente, ma era come se una grande marea la spingesse sempre più verso la rabbia e la disperazione. «Non sono sicura di voler andare avanti,» disse guardando il dottor Bil- ling. «Va tutto benissimo,» ribatté il medico con un tono artificiosamente premuroso, mentre spuntava il numero 18 della lista. «Si addormenterà in un attimo,» aggiunse sollevando una siringa e dandole dei colpetti per far uscire le bollicine d'aria. «Adesso le do il Pentothal. Non ha sonno?» «No.» «Be', avrebbe dovuto dirmelo.» «Ma io non lo so come dovrei sentirmi.» «Va tutto bene,» ripeté il dottor Billing, avvicinandole il suo apparec- chio alla testa. Con abilità consumata attaccò la siringa di Pentothal alla valvola a tre vie del tubo delle endovenose. «Adesso deve contare fino a cinquanta, Nancy.» Pensava che non sarebbe riuscita a oltrepassare il quindici. Guardare i pazienti che si addormentavano dava sempre una pun- ta di soddisfazione al dottor Billing; era la conferma della validità del me- todo scientifico. E poi lo faceva sentire potente: era come se avesse il co- mando del cervello del paziente. Ma Nancy era un tipo dalla personalità forte, e anche se voleva mettersi a dormire il suo inconscio lottava contro il sonno. Continuava ancora a contare mentre il medico le iniettava 2 cc sup- plementari di Pentothal. Arrivò fino a ventisette prima di cedere. Nancy Greenly si addormentò alle 7.24 del 14 febbraio 1976. Per l'ultima volta. Il dottor Billing non immaginava che quella ragazza sarebbe diventata la sua prima grave complicazione. Era sicuro che tutto fosse sotto controllo. Aveva ormai quasi completato la lista. Attraverso la maschera fece respira- re a Nancy una miscela di halothane, protossido d'azoto e ossigeno; quindi le iniettò 2 cc di soluzione allo 0,2% di cloruro di succinilcolina per otte- nere la paralisi di tutti i muscoli scheletrici. Ciò avrebbe facilitato l'inseri- mento del tubo endotracheale, e avrebbe anche permesso al dottor Major di fare un esame bimanuale per escludere una patologia ovarica. L'azione della succinilcolina fu quasi immediata. Dapprima si formarono dei fascicoli nei muscoli facciali, poi in quelli dell'addome. Mentre il san- gue metteva la sostanza in circolo per tutto il corpo, le estremità dei mu- scoli si depolarizzarono, e si ebbe la totale paralisi dei muscoli scheletrici. I muscoli involontari, come il cuore, non erano interessati: il monitor con- tinuò a pulsare senza la minima oscillazione. La lingua di Nancy era paralizzata, e le si arrovesciò indietro, bloccan- dole la trachea. Anche i muscoli dell'addome e del torace erano paralizzati: ogni tentativo di respirazione cessò. Anche se chimicamente diversa dal curaro dei selvaggi dell'Amazzonia, la sostanza aveva il medesimo effetto: Nancy sarebbe morta in cinque minuti. Ma a questo punto la situazione non presentava ancora nessun pericolo. Il dottor Billing teneva tutto sotto controllo. Il risultato era previsto e auspicabile. Esteriormente calmo, ma tesissimo dentro, Billing tolse a Nancy la ma- schera e prese il laringoscopio, la fase 22 della lista. Con la punta dello strumento tirò in avanti la lingua e oltrepassò l'epiglottide bianca, scopren- do l'ingresso della trachea. Le corde vocali erano semiaperte, paralizzate come il resto dei muscoli scheletrici. Il dottor Billing spruzzò rapidamente un po' di anestetico locale nella trachea, quindi inserì il tubo endotracheale. Il laringoscopio fece il suo ca- ratteristico rumore metallico allorché il medico piegò la lama sul manico. Con l'aiuto di una piccola siringa gonfiò il colletto del tubo, sigillandolo; poi collegò il tubo di gomma, senza la maschera, all'endotracheale. Quan- do compresse la sacca di ventilazione, il petto di Nancy si sollevò. Billing auscultò e si rialzò soddisfatto. L'inserimento del tubo era avvenuto in ma- niera perfetta. Regolò i manometri sulla combinazione di halothane, pro- tossido d'azoto e ossigeno desiderata. Anche se non lo faceva vedere, Bil- ling era sempre molto teso durante l'inserimento del tubo endotracheale. Col paziente paralizzato, bisognava lavorare con la massima rapidità e non commettere il minimo errore. Con un cenno del capo fece capire a Gloria Di Mateo che poteva iniziare a preparare il perineo rasato di Nancy. Ormai il compito del dottor Billing era limitato all'osservazione continua delle funzioni vitali della paziente: il ritmo cardiaco, la pressione del sangue, la temperatura. Finché la ragazza era paralizzata, doveva continuare a comprimere la sacca di ventilazione per farla respirare. La succinilcolina avrebbe esaurito il proprio effetto nel giro di otto o dieci minuti; poi Nancy sarebbe stata in grado di respirare da sola, e l'anestesista avrebbe potuto rilassarsi. La pressione si manteneva sui 105/70. Il polso, molto rapido nello stato d'ansia precedente l'anestesia, era sceso a settantadue. Il dottor Billing era decisamente soddisfatto, e pregu- stava già il caffè che avrebbe preso quaranta minuti dopo. L'operazione filò via liscia. Il dottor Major fece il suo esame bimanuale e chiese a Billing un maggiore rilassamento. Ciò significava che il sangue di Nancy aveva detossificato la succinilcolina. Billing iniettò prontamente altri 2 cc, prendendone nota sul verbale dell'anestesia. Il risultato fu imme- diato; il dottor Major ringraziò il collega e informò i presenti che al tatto le ovaie sembravano lisce e normali prugne. Diceva sempre così quando tro- vava ovaie a posto. La dilatazione della cervice fu completata senza intop- pi. Nancy aveva un normale utero anteroflesso, e la curva dei dilatatori a- deriva perfettamente. C'era qualche grumo di sangue che venne succhiato via con l'aspiratore. Il dottor Major raschiò accuratamente l'interno dell'u- tero, saggiando la consistenza del tessuto endometriale. Mentre Major prendeva il secondo raschiatore, Billing rilevò un leggero cambiamento nel ritmo del monitor cardiaco. Osservò la traccia sullo schermo dell'oscillo- scopio. Il polso era sceso a sessanta. Istintivamente gonfiò il colletto dello sfigmomanometro e ascoltò con la massima attenzione il suono lontano e familiare del sangue che scorreva nell'arteria; quindi allentò, e sentì il suo- no riecheggiante che indicava la pressione diastolica. La pressione era di 90/60. Non era un valore eccezionalmente basso, ma la sua mente analitica restò perplessa. Si chiese se Nancy non stesse subendo una stimolazione vagale dall'utero. Era improbabile, ma si tolse ugualmente lo stetoscopio dalle orecchie. «Dottor Major, un attimo. La pressione sanguigna è scesa un po'. Quanto valuta che sia stata la perdita di sangue?» «Non più di 500 cc,» rispose Major alzando gli occhi. «Strano.» Billing si rimise lo stetoscopio. Gonfiò di nuovo il colletto: 90/58. Guardò il monitor: il polso era a sessanta. «Pressione?» chiese Major. «Novanta e sessanta, col polso a sessanta,» rispose Billing togliendosi lo stetoscopio e ricontrollando le valvole di flusso dell'apparecchio per l'ane- stesia. «Cosa diavolo c'è che non va, Cristo?» scattò il dottor Major, con la tipi- ca irritazione precoce dei chirurghi. «Niente,» ribatté Billing. «Ma è cambiato qualcosa. Prima era perfetta- mente regolare.» «Be', ha un bellissimo colorito. Qui giù è rossa come una ciliegia!» Major fu il solo a ridere della propria battuta. Billing guardò l'orologio: le 7.48. «Okay, avanti. Le segnalerò eventuali altri cambiamenti.» Schiacciò al massimo la sacca di respirazione. I pol- moni di Nancy si gonfiarono. C'era qualcosa che lo preoccupava, che met- teva in allarme il suo sesto senso, che gli faceva battere il cuore più in fret- ta. Restò a osservare la sacca di ventilazione mentre si sgonfiava, poi la compresse di nuovo, registrando mentalmente il grado di resistenza offerto dai bronchi e dai polmoni. Era molto facile farla respirare. Osservò di nuo- vo la sacca: nessun movimento, nessuna reazione. Eppure la seconda dose di succinilcolina doveva essere stata ormai metabolizzata. La pressione si alzò leggermente, poi si abbassò di nuovo a 80/58. La frequenza del monotono bip-bip del monitor aumentò d'improvviso. Gli occhi del dottor Billing corsero allo schermo dell'oscilloscopio. Il ritmo sa- lì ancora. «Tra cinque minuti ho finito,» annunciò Major. Con una sensazione di sollievo Billing allungò una mano e chiuse il flusso di protossido d'azoto e halothane, aumentando quello di ossigeno. Voleva abbassare il livello di anestesia di Nancy. La pressione salì a 90/60; Billing si sentiva meglio. Si permise persino di asciugarsi col dorso della mano le goccioline di sudore che gli imperlavano la fronte. Guardò il contenitore di soda caustica. Sem- brava normale. Erano le 7.56. Con la destra sollevò le palpebre di Nancy. Si aprirono senza resistenza: le pupille erano dilatate al massimo. A Billing tornò di colpo la paura. C'era qualcosa che non andava. Qualcosa che non andava per niente bene. lunedì 23 febbraio ore 7.15 Una miriade di piccoli flocchi di neve scendeva danzando su Longwood Avenue, nella semioscurità. La temperatura era di cinque gradi sotto zero, e i fragili cristalli toccavano il suolo, e restavano intatti. Il sole era nasco- sto sotto un pesante strato di nubi scure. Dal mare continuavano ad afflui- re, portate dal vento, sempre nuove nuvole, che avvolgevano le cime degli edifici più alti e rendevano sempre più buia quell'alba di Boston. Dentro alla stanza, Susan Wheeler era tutta occupata a tirarsi fuori da un sogno assurdo e inquietante, dopo una notte agitata e quasi insonne. Il 23 febbraio sarebbe stato come minimo un giorno difficile, forse disastroso. Medicina è fatta di mille piccole crisi, di tanto in tanto interrotte da un ca- taclisma senza precedenti. Il 23 febbraio, per Susan Wheeler, apparteneva a quest'ultima categoria. Da appena cinque giorni aveva completato il pri- mo biennio, quello in cui viene impartita la preparazione di base, in aula e in laboratorio. Se l'era cavata benissimo in tutte le materie, pratiche e teo- riche. I suoi appunti avevano ottima fama, tanto che tutti glieli chiedevano di continuo in prestito. All'inizio li dava a chiunque. Poi, appena si accorse che il clima competitivo che pensava di essersi lasciato alle spalle a Ra- dcliffe era ancora una realtà, cambiò tattica. Li prestò solo a un piccolo gruppo di amici, o a quelli che potevano prestarle i loro quando lei saltava una lezione. Ma era raro che ne saltasse una. Molti la prendevano in giro perché frequentava troppo. Lei ribatteva che aveva bisogno di tutti gli aiuti possibili. Naturalmente non era questo il motivo. Avendo iniziato una professione dominata dai maschi — anche tutti i professori erano uomini — Susan Wheeler non poteva saltare una le- zione senza che la cosa venisse notata. Per quanto considerasse gli inse- gnanti in modo neutro e asessuato, come semplici superiori, questo at- teggiamento non era ricambiato. Il nocciolo della faccenda era che Susan Wheeler era una femmina di ventitré anni molto attraente. Aveva i capelli biondo grano, fluenti, lunghi e fini; quando c'era vento la facevano impazzire, e spesso era costretta a tirarseli indietro, fissandoseli con una forcina sulla nuca. Aveva la faccia larga, con gli zigomi alti; gli occhi erano un misto di azzurro e verde, con striature marrone, sicché l'ef- fetto cromatico mutava col mutare della luce. I denti erano ultrabianchi, merito per il cinquanta per cento della natura e per l'altro cinquanta dei dentisti della città. Susan Wheeler era in tutto e per tutto simile al sogno dei pubblicitari della Pepsi-Cola. A ventitré anni era giovane, piena di sa- lute, sexy, con quello stile tutto americano e californiano che fa girare lo sguardo e risveglia l'ipotalamo. E oltre a tutto questo — o forse nonostante tutto questo — Susan Wheeler era molto sveglia. Il suo quoziente di in- telligenza si aggirava attorno a 140, per la delizia dei genitori. A scuola aveva sempre avuto il massimo dei voti. Le piaceva imparare, le piaceva la scuola, e si divertiva a usare il proprio cervello. Era una lettrice insaziabile. Radcliffe era stata una scuola ideale per lei. Si era specializzata ottima- mente in chimica su un programma vastissimo. Non aveva avuto certo dif- ficoltà a essere ammessa alla facoltà di medicina. Ma essere carina come Susan aveva anche i suoi svantaggi. Uno era la già ricordata difficoltà di mancare a una lezione senza che gli altri se ne accorgessero. Quando poi c'era qualche interrogazione, Susan era tra quei pochi sfortunati che vengono usati per dimostrare la stupidità degli studen- ti o l'acume dei professori. Un secondo svantaggio era che la gente si face- va delle opinioni assolutamente arbitrarie sul suo conto. Assomigliava tal- mente a quelle vistose fotomodelle degli annunci pubblicitari, che senza star tanto a pensarci la confondevano con la ragazzona del tipo oca giuliva. C'erano comunque dei vantaggi nell'essere bella e intelligente, e Susan stava a poco a poco rendendosi conto che non c'era niente di male nell'ap- proflttarne. Se aveva bisogno di qualche spiegazione supplementare su un argomento difficile, bastava che chiedesse. Tutti gli insegnanti si premura- vano di aiutarla a capire i punti più complicati dell'endocrinologia o dell'a- natomia. Susan usciva con molti meno uomini di quanti la gente non pensasse. Questo per vari motivi: primo, preferiva restare a leggere nella sua stanza anziché andare in giro con un tipo noioso (e con la sua intelligenza trovava noiosi non pochi uomini). Secondo, erano in pochi a chiederle di uscire, perché la sua combinazione di bellezza e cervello intimidiva parecchio. Così passava molto spesso il sabato sera immersa nella lettura di qualche romanzo. Susan temeva che da quel 23 febbraio in poi, il suo tranquillo ritmo di vita sarebbe andato in pezzi. La routine delle lezioni in aula, a cui si era ormai così ben abituata, era finita: insieme ad altri centodue compagni di corso sarebbe stata rudemente staccata dalla serenità dell'apprendimento teorico e gettata nell'arena degli anni di tirocinio clinico. Tutta la sicurezza nelle proprie capacità che si era formata durante il primo biennio sarebbe stata messa a dura prova davanti ai malati in carne e ossa. Susan Wheeler non si faceva illusioni: ignorava che cosa significasse es- sere un medico che cura malati reali. Anzi, temeva che non ci sarebbe mai riuscita. Non era una cosa che si potesse imparare solo leggendo e studian- do. L'idea di una prova del fuoco era diametralmente opposta alla sua struttura mentale. Ma quel 23 febbraio, volente o nolente, avrebbe avuto a che fare con dei malati. Era questa crisi di fiducia in se stessa che non l'a- veva fatta dormire e aveva riempito la sua notte di incubi, in cui vagava per labirinti sconosciuti e spaventosi. Susan non si immaginava nemmeno quanto fedelmente quelle fantasie rispecchiassero l'esperienza che avrebbe fatto nei giorni successivi. Alle 7.15 il clic meccanico della radiosveglia interruppe i suoi sogni. Il cervello di Susan riacquistò la piena lucidità. Spense prima che il transistor potesse riempire la stanza di rauca musica folk. Di solito lasciava che la musica la svegliasse completamente, ma quella mattina non ne aveva biso- gno. Era troppo tesa. Si sedette sulla sponda del letto e appoggiò i piedi per terra. Il pavimento era freddo e per niente invitante. I capelli le scendevano davanti alla fac- cia, lasciando solo uno spiraglio di quattro o cinque centimetri attraverso cui poteva guardarsi intorno. Non era un granché come stanza: quattro me- tri per quattro e mezzo, con due finestre a pannelli multipli che davano su un altro edificio di mattoni e un parcheggio. Le pareti, dipinte da Susan un paio d'anni prima, erano in un bel colore giallo pastello, che metteva in ri- salto il tessuto Marimekko Printex delle tende — un verde elettrico varie- gato a strisce blu scuro — e i vecchi poster colorati di manifestazioni cul- turali del passato. I mobili erano quelli forniti dall'università: un letto vecchio stile, troppo morbido, e una poltrona logora ed esageratamente imbottita. Susan la usa- va solo per appoggiarvi sopra la biancheria sporca. Le piaceva leggere a letto e studiare alla scrivania, così la poltrona non era «cruciale», come di- ceva lei. La scrivania era di quercia, molto comune, a parte la distesa di i- niziali e graffi che la ricoprivano; nell'angolo a destra, Susan aveva persino trovato incisa una frase oscena associata con la parola biochimica. C'era un libro di diagnostica aperto. Negli ultimi tre giorni l'aveva letto e riletto da cima a fondo, ma la cosa non era servita a farle ritrovare la fiducia in se stessa. «Merda!» esclamò ad alta voce, senza rivolgersi a nessuno o a niente in particolare. Era solo la sua reazione al fatto ormai accertato che il 23 feb- braio era arrivato davvero. A Susan piaceva imprecare, e lo faceva spessis- simo, quasi sempre tra sé. Dato che un linguaggio simile strideva col suo aspetto così perbene, il risultato colpiva notevolmente. Susan aveva sco- perto che era uno strumento utile e divertente. Dopo essersi staccata con quel commento dal calore delle coperte, si ac- corse di avere ancora una quindicina di minuti a disposizione. Di solito questa era la durata del suo rituale mattutino: accendere e spegnere ripetu- tamente la radiosveglia prima di riuscire ad alzarsi ed entrare in bagno. Il suo atteggiamento ambivalente nei confronti dell'inizio di quella giornata le fece perdere tempo: se ne stette seduta per tutto il quarto d'ora a fissare il vuoto. Ah, come avrebbe voluto essersi iscritta a legge o a lettere! Qual- siasi cosa tranne la medicina. Il freddo del pavimento di linoleum si trasmise ai piedi di Susan. Mentre restava lì seduta, il suo sistema circolatorio disperse nella stanza il calore del corpo. I capezzoli le si indurirono e le venne di colpo la pelle d'oca sul- l'interno delle cosce nude. Aveva addosso solo una vecchia camicia da not- te di flanella leggera, che le avevano regalato a Natale allorché faceva la quinta. La portava ancora quasi ogni notte, almeno quando dormiva da so- la. Ci era affezionata. Nel ritmo furioso dei cambiamenti della sua vita, sembrava offrirle una specie di punto di riferimento. Inoltre era la camicia da notte preferita da suo padre. Fin da piccola Susan faceva di tutto per piacere al padre. Il suo primo ri- cordo di lui era l'odore: un misto di profumo e sapone deodorante che co- priva un altro odore strano, che più tardi capì essere l'odore dei maschi. Era sempre stato buono con lei, e lei sapeva di essere la sua preferita. Un segreto che non aveva mai diviso con nessuno, e men che meno coi due fratelli più piccoli. Era sempre stata una cosa che le aveva dato sicurezza di fronte alle consuete difficoltà dell'infanzia e dell'adolescenza. Il padre di Susan era un uomo di forte personalità, un dominatore, ma nello stesso tempo una persona generosa e gentile che amministrava la fa- miglia e il lavoro di assicuratore come un sovrano illuminato. Era un uomo affascinante, e i figli gli lasciavano l'ultima parola su qualsiasi argomento. Non che la madre di Susan fosse una donna debole, aveva solo sposato un uomo molto più forte di lei. Per la maggior parte della propria vita Susan aveva accettato questa situazione come una norma immutabile. Alla fine, però, aveva cominciato a metterla un po' a disagio. Susan somigliava mol- to al padre, e lui ne incoraggiava lo sviluppo in questa direzione. Ma poi Susan aveva cominciato a capire che non poteva diventare uguale a lui, che non poteva aspettarsi di avere un giorno una casa tutta sua, come quella in cui era cresciuta. Allora, per un certo periodo, aveva desiderato essere co- me sua madre, e aveva fatto tutto il possibile per diventarlo. Ma era stato inutile. La sua personalità ricalcava sempre di più le caratteristiche pater- ne, e al liceo fu letteralmente forzata ad assumere un ruolo guida. Venne eletta capoclasse nell'anno del diploma, anche se quello era un periodo in cui avrebbe preferito restarsene tranquillamente in disparte. Il padre di Susan non era stato mai particolarmente esigente, e non le a- veva mai imposto di far qualcosa. Era sempre rimasto una fonte di sicurez- za e di incoraggiamento, aiutandola a fare quello che voleva lei. Dopo aver conosciuto le prime compagne a medicina, si era accorta che molte di loro provenivano da un ambiente paternalistico come il suo. Quando le capitava di vedere i loro genitori, le sembrava che i padri le fossero familiari, come se li avesse già incontrati in passato. Dal termosifone sotto la finestra venne un piccolo rimbombo, il prean- nuncio dell'arrivo del calore; un piccolo getto di vapore sibilò fuori dalla valvola. I sussulti del calorifero ricordarono a Susan che lì dentro faceva un gran freddo. Si alzò di scatto, si stirò, e andò a chiudere la finestra. Sol- levò la camicia da notte sopra la testa e si guardò il corpo nudo nello spec- chio sulla porta del bagno. Gli specchi esercitavano una strana attrazione su di lei. Le era quasi impossibile oltrepassarne uno senza lanciare almeno una rapida occhiata di conferma. «Forse potresti fare la ballerina, Susan Wheeler,» disse alzandosi sulle punte dei piedi e muovendo in alto le braccia, «e rinunciare a questa idea di diventare un fottuto medico.» Come un pallone che si sgonfia si abbassò lentamente fino a toccare terra. Continuava a osservare la propria immagi- ne nello specchio. «Vorrei poterlo fare,» sospirò piano. Susan era orgo- gliosa del proprio corpo. Era morbido e flessuoso, e nello stesso tempo for- te e formoso. Avrebbe potuto davvero essere una ballerina. Aveva un buon senso dell'equilibrio e del ritmo. Invidiava Carla Curtis, un'amica di Ra- dcliffe che dopo il liceo si era data al ballo e adesso era entrata nell'am- biente di New York. Ma Susan si rendeva anche conto che non avrebbe mai potuto fare la ballerina, nonostante le sue fantasticherie. Aveva biso- gno di una professione in cui poter usare il cervello, sempre. Susan fece una boccaccia, mostrando la lingua alla ragazza dello specchio, che ricam- biò il gesto. Poi entrò in bagno. Aprì i rubinetti della doccia. Ci vollero quattro o cinque minuti prima che l'acqua diventasse calda. Si guardò la faccia nello specchio del bagno, dopo essersi scostata i capelli dagli occhi. Se solo il naso fosse stato un pochino più stretto, pensò, sarei irresistibile. Poi cominciò le abluzioni, dopo aver preso una pastiglia di Ortho-Novum. Tra l'altro, Susan Wheeler era una donna pratica, piena di forza di volon- tà. Pratica, appunto. lunedì 23 febbraio ore 7.30 Il Boston Memorial Hospital non è certo una costruzione modello nono- stante il numero spropositato di architetti esistenti nella zona di Boston. Il corpo centrale è stato costruito più di un secolo fa con blocchi di pietra in- castrati con abilità. Non è brutto, anzi, ma ha l'inconveniente di essere troppo piccolo, e a un solo piano. Inoltre è stato progettato con grandi cor- sie, oggi ormai superate. Sicché la sua funzionalità attuale è minima. Solo i molti sedimenti di storia della medicina che ne permeano i corridoi fanno desistere gli innovatori. I numerosi edifici più grandi sono in stile gotico americano, con milioni e milioni di mattoni disposti ad angolo ottuso per sostenere finestre sporche e tetti piatti e monotoni. Le costruzioni si sono moltiplicate senza un piano logico, esclusivamente in base alla necessità di nuovi posti letto o alla disponibilità di fondi. L'insieme è decisamente sgradevole; forse le uniche eccezioni sono pochi edifici più piccoli adibiti alla ricerca e costruiti senza badare a spese. Ma pochissimi notano questo aspetto esteriore. La percezione è oscurata da una cascata di reazioni emotive: gli edifici non sono edifici e basta. So- no il famoso Boston Memorial Hospital, tempio di tutto il mistero e l'al- chimia della medicina moderna. La paura e l'eccitazione si mescolano con- fusamente, allorché la gente comune si avvicina a quel luogo. E per gli ad- detti ai lavori, è la Mecca: il culmine della scienza medica. La posizione dell'ospedale non aggiunge molto all'impressione generale. Da una parte c'è un labirinto di binari ferroviari che portano alla North Station, con un incredibile intrico di strade sopraelevate che formano un'e- norme scultura di ferro arrugginito; dall'altra c'è un gruppo di moderni ca- seggiati popolari. Ma lo scopo non è stato raggiunto a causa della nota cor- ruzione dell'amministrazione di Boston. Le case sembrano popolari per l'assenza di rifiniture, ma gli affitti sono alle stelle e solo i ricchi e i privi- legiati possono permettersi di abitarci. Di fronte all'ospedale c'è un angolo stagnante del porto, con l'acqua color caffè nero, addolcita dalle esalazioni delle fognature. Tra l'ospedale e il porto c'è un campo di giochi di cemento pieno di carta straccia. Alle sette e mezzo di quel lunedì mattina l'attività ferveva in tutte le sale operatorie dell'ospedale. Nello spazio di cinque minuti, ventun bisturi ta- gliarono pelle umana che non opponeva resistenza, e le operazioni in pro- gramma ebbero inizio. Il destino di un considerevole numero di persone dipendeva da quello che si sarebbe o non si sarebbe fatto, da quello che si sarebbe o non si sarebbe trovato nelle ventun sale chirurgiche. Il ritmo fre-

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