Il libro V olario è un viaggio fantasmagorico, attraverso il tempo e lo spazio, alla scoperta di miti, simboli, leggende, proverbi, feste, opere letterarie e figurative ispirate dagli esseri alati; un viaggio in cui, uno dopo l’altro, si aprono davanti agli occhi del lettore scenari fantastici di uomini, dei e creature immaginarie, e in cui si intrecciano osservazioni naturalistiche e rievocazioni storiche, tradizioni popolari e considerazioni filosofiche. Tra colibrì, farfalle, ippogrifi e vampiri, Alfredo Cattabiani situa così ogni simbolo nel contesto suo proprio offrendo, grazie ai numerosi esempi tratti dalle arti figurative, la possibilità di interpretare correttamente quadri, sculture, emblemi, rappresentazioni religiose e raffigurazioni architettoniche. E ci offre un’opera unica, improntata da un amore «religioso» per l’universo animale, che è anche una straordinaria miniera di fiabe e leggende che hanno per protagonista il mondo alato. L’autore Alfredo Cattabiani (1937-2003), studioso di storia delle religioni, di simbolismo e di tradizioni popolari, è stato direttore editoriale di tre case editrici dal 1962 al 1979 e ha collaborato a vari quotidiani e periodici italiani e stranieri. Autore di numerosi saggi e volumi, con Mondadori ha pubblicato: Florario (1998, premio Scanno 1997), Planetario (1998), Volario (2000), Zoario (2001), Lunario (nuova edizione ampliata 2002), Acquario (2002) e Calendario (2003). Le sue opere principali sono pubblicate negli Oscar Mondadori. Ha inoltre tradotto o curato opere di Antonio Rosmini, Joseph de Maistre, Simone Weil, Georges Bernanos, Jules Barbey d’Aurevilly, Pierre Drieu La Rochelle e Baltasar Graciàn. Alfredo Cattabiani VOLARIO Simboli, miti e misteri degli esseri alati: uccelli, insetti, creature fantastiche Volario A Marina Gli uccelli sono l’opposto del tempo; sono il nostro desiderio di luce, di stelle, di arcobaleni, e vocalizzi di giubilo. OLIVIER MESSIAEN Introduzione 1. IL SIMBOLO COME VIA REGALE DI CONOSCENZA Natura del simbolo Con questo libro dedicato agli esseri alati, che costellano opere letterarie e artistiche, templi e chiese, comincia nella mia «Storia dell’immaginazione» un bestiario1 che è un viaggio attraverso i simboli, i miti e le leggende evocati da queste creature; non lo si scambi tuttavia per una pura catalogazione enciclopedica o per un gioco erudito, come quello di Jorge Luis Borges e di Margarita Guerrero,2 perché il simbolo, che insieme con il mito è il tema fondamentale di queste pagine, è strumento di conoscenza non discorsiva, incomparabilmente superiore alla conoscenza discorsiva; ed è anche tramite di energie cosmiche, come si spiegherà più avanti, per chi sappia farlo risuonare nel proprio «cuore». Nel mondo greco si definiva sýmbolon – dal verbo symbállein, «mettere insieme, connettere, ridurre a unità di significato» – un oggetto scomposto in due parti, fatto di argilla, di legno, o di metallo: una piccola immagine, un anello, un dado, un’impronta di sigillo, che si doveva ricomporre affinché riacquistasse il suo significato e fungesse da segno di riconoscimento. Amici personali o soci d’affari, creditori e debitori, pellegrini o persone tra loro legate da altri motivi, lo spezzavano in due quando dovevano partire; e soltanto ricomponendone i due frammenti, margine a margine, avrebbero potuto in seguito riconoscersi o riconoscere in qualunque momento i propri inviati. Analogamente il processo simbolico «separa» ma nello stesso tempo «unisce», serve a riconoscere, attestare e garantire un rapporto con l’«altro»: ciò è possibile perché le varie realtà sensibili che si simboleggiano a vicenda (per esempio il gallo e il sole) rinviano a realtà non sensibili, le quali sono l’oggetto simboleggiato per eccellenza, ma non simboleggiante.3 Scriveva Plotino a questo proposito: Coloro che nel sensibile riconoscono l’immagine di un essere posto nel loro pensiero sono per così dire turbati quando arrivano a ricordarsi della realtà vera: da questo turbamento nasce l’amore. C’è chi, vedendo l’immagine della bellezza in un viso, è trasportato nell’Intelligibile; ma chi può avere un animo così torpido e così indifferente a tutto che, guardando tutte le bellezze del mondo sensibile, le sue proporzioni, la sua perfetta regolarità e lo spettacolo offerto dalle stelle, pur così lontane, non riesca ad ammirare né onorare, colmo di sacro tremore, quelle cose e quelle da cui derivano? Ma allora costui non ha compreso le cose sensibili né veduto quelle intelligibili.4 Queste realtà metafisiche non sensibili, osserva a sua volta Elémire Zolla nell’Enciclopedia del Novecento, sono le forme formanti rispetto alle cose sensibili e transitorie, cioè alle forme formate: «Così l’oro, il leone, il re, il sole sono forme formate analoghe fra di loro, simboleggiabili l’una mediante l’altra; ed esse implicano tutte una forma formante comune, ovvero un archetipo, l’idea della preminenza e della maestà. Le forme formanti rinviano a loro volta a una causa ulteriore, il principio ontologico, che è l’oggetto ultimo di ogni simbologia».5 Per intuire il simbolo evocato da un oggetto o da un essere occorre tuttavia vederlo nel contesto in cui si situa: un leone, per esempio, può simboleggiare il Cristo o il diavolo, il coraggio o la ferocia. Questo avviene perché alcuni singoli oggetti o esseri possono appartenere a diverse serie analogiche nello stesso tempo, secondo le loro varie funzioni. Il gallo che canta al sole appartiene alla stessa serie del leone, dell’aquila, ma il gallo dalla potenza virile che gli consente di fecondare molte galline appartiene anche alla serie degli animali che simboleggiano la lascivia, analogamente alla pernice o alla quaglia; il serpente che si rinnova cedendo le squame è nella stessa serie del cervo che cambia le sue corna periodicamente, del pavone o della fenice, mentre quando avanza strisciando evoca le seduzioni insidiose, la demonicità. È la plurisignificanza dell’oggetto simboleggiante, che tuttavia non è arbitraria, a rendere il linguaggio simbolico così idoneo a trasmettere le verità meno traducibili in quello argomentante. Funzione del simbolo Il linguaggio simbolico è un metodo di conoscenza particolarmente adatto alla natura umana, che non è solo intellettuale, ma necessita di una base sensibile per elevarsi verso sfere superiori. Certo, non tutte le persone hanno bisogno di forme esteriori, le quali d’altronde sono contingenti e accidentali in rapporto a ciò che esprimono: analoghe a un cavallo che permette a un uomo di compiere un viaggio più in fretta e con assai minore fatica che a piedi. Così è dei simboli: essi non sono indispensabili, come osserva René Guénon, ma sono in un certo modo convenienti se si considerano le condizioni della natura umana.6 Qual è il fondamento del simbolismo? «In principio era il Verbo» dice Giovanni all’inizio del suo Vangelo, «e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio; tutto è stato fatto per mezzo di Lui, e senza di Lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste.» Il Verbo, ovvero il Logos: pensiero all’interno e parola o suono all’esterno, quando si manifesta. Così è stato percepito non soltanto nel cristianesimo ma in ogni tradizione. Osserva Guénon: In sé è l’intelletto divino che è «il luogo dei possibili»; in rapporto a noi si manifesta e si esprime per mezzo della Creazione dove si realizzano nell’esistenza attuale alcuni di questi possibili che, in quanto essenze, sono contenuti in Lui da tutta l’eternità. La creazione è l’opera del Verbo; essa è anche, e proprio per questo, la sua manifestazione, la sua affermazione esteriore; ed è per ciò che il mondo è come un linguaggio divino per coloro che sanno comprenderlo […]. E così, da un ordine all’altro, tutte le cose si concatenano e si corrispondono per concorrere all’armonia universale e totale che è come un riflesso dell’Unità divina in se stessa.7 Cosa affermava d’altronde san Paolo? Che «questo mondo è un sistema di cose invisibili manifestate visibilmente».8 «Paolo ci dimostra» commentava a sua volta Origene «che questo mondo visibile ci fa conoscere il mondo invisibile e che questa nostra terra posta in basso contiene immagini di realtà celesti: così da ciò che è in basso possiamo salire a ciò che sta in alto e da ciò che vediamo in terra possiamo avere conoscenza di ciò che sta nei cieli.»9 Non diversamente Massimo il Confessore spiegava che il mondo spirituale nella sua totalità si manifesta nella totalità del mondo sensibile ed è misticamente espresso mediante immagini simboliche che permettono agli uomini di contemplarne un aspetto: Dio ha seminato in ogni specie parte della sua pienezza, sia parole spirituali di sapienza sia modi di condotta degni, affinché non soltanto l’Artefice delle creature sia rappresentato da creature che non parlano a chiara voce, ma anche l’uomo apprenda, dalle norme e dalle abitudini naturali degli esseri visibili, a trovare facilmente la via che conduce fino a Lui.10 E in un altro passo spiegava: Infatti la contemplazione simbolica delle cose spirituali attraverso le cose visibili non è altro che la comprensione, nello Spirito, delle cose visibili attraverso le invisibili.11 A sua volta Bernardo di Clairvaux ribadiva: «Questo mondo sensibile è come un libro aperto a tutti e legato da una catena così che vi si possa leggere la sapienza di Dio, qualora lo si desideri».12 Tale corrispondenza è il fondamento del simbolismo, di quel linguaggio che non è prerazionale o prescientifico, ma sovrarazionale poiché esso solo rileva gli aspetti più profondi della realtà che sfidano ogni altro strumento conoscitivo, aiutando ciascuno a comprendere le verità che rappresenta secondo la misura delle proprie possibilità intellettuali. Certo, l’essere o l’oggetto simbolico si può idolatricamente identificare con il simbolo, come già osservava Plutarco;13 né diversamente si esprimeva, pur in un altro contesto teologico, Dionigi Areopagita scrivendo: Conseguentemente a tali cose diremo con quali sacre forme le sacre descrizioni della Scrittura rappresentano gli ordini celesti, verso quale semplicità dobbiamo elevarci mediante queste figure affinché anche noi, alla stregua dei più, non crediamo empiamente che le intelligenze celesti e divine abbiano molti piedi e molti volti e siano foggiate alla guisa dell’animalità dei buoi o della ferinità dei leoni, né che posseggano una forma secondo l’effigie delle aquile dai becchi ricurvi o le piume pelose dei volatili; né le immaginiamo come ruote infuocate sopra il cielo e come troni materiali necessari al riposo della tetrarchia o come cavalli dai molti colori e capi di eserciti armati di lancia, o infine come altre immagini che ci vengono tramandate dalle Scritture secondo una sacra forma nella varietà dei simboli espressivi. Infatti semplicemente la Sacra Scrittura ha usato le forme poetiche per la rappresentazione di intelligenze senza figura, avendo considerato, come si è detto, la nostra intelligenza e avendo provveduto a un innalzamento proprio e connaturale a lei e infine avendo formato per essa i simboli sacri che l’innalzano.14 Della funzione del simbolo nell’arte scriveva nel secolo scorso Pavel Florenskji spiegando l’itinerario che permette di creare immagini simboliche: Così nella creazione artistica l’anima è sollevata dal mondo terreno ed entra nel mondo
Description: