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Viaggio al termine della notte PDF

406 Pages·2011·1.84 MB·Italian
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Louis-Ferdinand Céline Viaggio al termine della notte (Voyage au bout de la nuit) Traduzione e note di Ernesto Ferrero Casa Editrice Corbaccio s.r.l., Milano > Digitalizzazione a cura di Yorikarus @ forum.tntvillage.scambioetico.org < [1] A Elizabeth Craig Notre vie est un voyage dans l’hiver et dans la nuit nous cherchons notre passage dans le ciel où rien ne luit Canzone delle Guardie svizzere, 1793 Viaggiare, è proprio utile, fa lavorare l’immaginazione. Tutto il resto è delusione e fatica. Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario. Ecco la sua forza. Va dalla vita alla morte. Uomini, bestie, città e cose, è tutto inventato. È un romanzo, nient’altro che una storia fittizia. Lo dice Littré, lui non si sbaglia mai. E poi in ogni caso tutti possono fare altrettanto. Basta chiudere gli occhi. È dall’altra parte della vita. È cominciata così. Io, avevo mai detto niente. Niente. E Arthur Ganate che mi ha fatto parlare. Arthur, uno studente, un fagiolo anche lui, un compagno. Ci troviamo dunque a Place Clichy. Era dopo pranzo. Vuol parlarmi. Lo ascolto. “Non restiamo fuori! mi dice lui. Torniamo dentro!”. Rientro con lui. Ecco. “‘Sta terrazza, attacca lui, va bene per le uova alla coque! Vieni di qua”. Allora, ci accorgiamo anche che non c’era nessuno per le strade, a causa del caldo; niente vetture, nulla. Quando fa molto freddo, lo stesso, non c’è nessuno per le strade; è lui, a quel che ricordo, che mi aveva detto in proposito: “Quelli di Parigi hanno sempre l’aria occupata, ma di fatto, vanno a passeggio da mattino a sera; prova ne è che quando non va bene per passeggiare, troppo freddo o troppo caldo, non li si vede più; son tutti dentro a prendersi il caffè con la crema e boccali di birra. È così! Il secolo della velocità! dicono loro. Dove mai? Grandi cambiamenti! ti raccontano loro. Che roba è? È cambiato niente, in verità. Continuano a stupirsi e basta. E nemmeno questo è nuovo per niente. Parole, e nemmeno tante, anche le parole che son cambiate! Due o tre di qui, di là, di quelle piccole...” Tutti fieri allora d’aver fatto risuonare queste utili verità, siamo rimasti là seduti, incantati, a guardare le dame del caffè. Dopo, la conversazione è tornata sul Presidente Poincaré che s’era inaugurato, proprio quel mattino lì, una mostra di cagnetti; e poi, passin passetto, su ‘Le Temps’ dove quello stava scritto. “Di’, che signor giornale il ‘Temps’ ”, ecco che mi provoca Arthur Ganate a ‘sto proposito. “Ce n’è mica un altro come quello che difende la razza francese! - Ce n’ha proprio bisogno la razza francese, visto che non esiste!” gli ho risposto io per fargli vedere che ero documentato, colpo su colpo. “Ma sì! che ce n’è una! E anche bella come razza! insisteva lui, ed è persino la più bella razza del mondo, e cornutaccio chi dice il contrario!”. E poi, eccolo che parte a gridarmi addosso. Ho tenuto duro, beninteso. “Non è vero! La razza, quel che chiami così, è solo questa grande accozzaglia di poveracci del mio stampo, cisposi, pulciosi, cagoni, che son cascati qui inseguiti da fame, peste, tumori e freddo, arrivati già vinti dai quattro angoli della terra. Potevano mica andare più in là perché c’era il mare. È questo la Francia, questo sono i Francesi. - Bardamu, mi fa allora con aria grave e un po’ triste, i nostri padri valevano quanto noi, non parlarne male!... - Ci hai ragione, Arthur, per questo ci hai ragione! Rancorosi e docili, stuprati, sgangherati e coglioni sempre, valevano proprio quanto noi! Puoi dirlo! Cambiamo mica! Né i calzini, né i maestri, né le opinioni, o almeno così tardi, che non ne vale più la pena. Siamo nati fedeli, fedeli crepiamo noialtri! Soldati a gratis, eroi per tutti e scimmie parlanti, parole sofferte, siamo noi i cocchi di Re Miseria. E lui che ci possiede! Quando non fai il bravo, lui stringe... Ci abbiamo le sue dita intorno al collo, sempre, dà noia a parlare, bisogna fare molta attenzione se ci tieni a mangiare... Per un niente, ti strozza... Non è vita... - C’è l’amore, Bardamu! - Arthur, l’amore è l’infinito abbassato al livello dei barboncini, e ci ho la mia dignità, io! gli risposi io. - Vediamo te! Te sei un anarchico, ecco tutto!” Un furbastro, in ogni caso, lo vedete da lì, e tutto quel che c’era di avanzato in fatto di opinioni. “L’hai detto, smargiasso, che sono anarchico! E la prova migliore, è che ho composto una specie di preghiera vendicatrice e sociale che adesso tu mi dici sùbito l’effetto che fa: ali dorate! È il titolo!... E allora gli recito: Un Dio che conta i minuti e i soldi, un Dio disperato, sensuale e brontolone come un porco. Un porco con le ali dorate che casca dappertutto, pancia all’aria, pronto alle carezze, è lui, nostro padrone. Baciamoci! “La tua robetta non sta in piedi di fronte alla vita, io sono, io, per l’ordine costituito e non mi piace la politica. E d’altronde il giorno che la patria mi chiederà di versare il sangue per lei, me mi troverà di sicuro, e mica a far flanella, pronto a darlo”. Ecco quel che mi ha risposto. Per l’appunto la guerra si avvicinava a noi due senza che ci siamo resi conto, e non avevo più la testa molto lucida. Questa breve ma vivace discussione mi aveva stancato. E poi, ero agitato perché il cameriere mi aveva un po’ trattato da avaro per via della mancia. Insomma, facemmo pace con l’Arthur per finirla, proprio. Eravamo della stessa idea su quasi tutto. “È vero, ci hai ragione insomma, ho convenuto io, conciliante, ma alla fine siamo tutti seduti su una grande galera, remiamo tutti da schiattare, puoi mica venirmi a dire il contrario!... Seduti su ‘ste trappole a sfangarcela tutta noialtri! E cos’è che ne abbiamo? Niente! Solo randellate, miserie, frottole e altre carognate. Si lavora! dicono loro. È questo che è ancora più fetido di tutto il resto, il loro lavoro. Stiamo giù nelle stive a sputare l’anima, puzzolenti, con le palle che ci sudano, ed ecco lì! In alto sul ponte, al fresco, ci sono i padroni e mica se la prendono, con belle femmine rosa tutte gonfie di profumo sulle ginocchia. Ci fanno salire sul ponte. Allora, si mettono il cappello dell’alta uniforme, e poi te ne sparano in faccia una del tipo “Banda di carogne, è la guerra! ti fanno loro. Adesso li abbordiamo, ‘sti porcaccioni che stanno sulla patria n. 2 e gli facciamo saltare la pignatta! Alé! Alé! C’è tutto quel che ci vuole a bordo! Tutti in coro! Spariamone una forte per cominciare, da far tremare i vetri: Viva la Patria n. 1! Che vi sentano da lontano! Chi griderà più forte, avrà la medaglia e il confetto del buon Gesù! Porco dio! E poi quelli che non vogliono crepare in mare, potranno sempre crepare in terra dove si fa ancora più in fretta di qui!” - È proprio così!, mi approvò Arthur, decisamente diventato facile da convincere. Ma non càpita che proprio davanti al caffè dove c’eravamo piazzati si mette a passare un reggimento, e col colonnello in testa sul suo cavallo, e ci aveva perfino un’aria simpatica e dannatamente in gamba, il colonnello! Io, ho fatto uno zompo solo dall’entusiasmo. “Vado a vedere se è così! gli grido all’Arthur, ed ecco che son partito ad arruolarmi, e a passo di corsa per di più. - Sei pirla da niente, Ferdinand!” mi grida lui, l’Arthur, di rimando, irritato senza alcun dubbio dall’effetto del mio eroismo su tutti quelli che ci guardavano. Mi ha un po’ seccato che lui prendesse la cosa a quel modo, ma questo non mi ha fermato. Ero al passo. “Ci sono e ci resto!”, mi dissi io. “Vedremo proprio, eh testa di rapa!”, ho avuto ancora il tempo di gridargli prima di svoltare l’angolo della via col reggimento dietro al colonnello e la sua musica. È andata esattamente così. Allora abbiamo marciato un bel po’. Non la finiva più che c’erano sempre delle strade, e poi dentro i civili e le loro donne che ci mandavano incoraggiamenti e lanciavano fiori, dalle terrazze, davanti alle stazioni, dalle chiese strapiene. Ce n’erano di patrioti! E poi s’è messo a essercene meno di patrioti... La pioggia è caduta, e poi ancora sempre meno e poi più nessun incoraggiamento, non uno solo, per la strada. Eravamo dunque rimasti tra noi? Gli uni dietro gli altri? La musica s’è fermata. “Riassumendo, mi son detto allora, quando ho visto come girava, non è più divertente! È tutto da ricominciare!” Stavo per andarmene. Ma troppo tardi. Avevano rinchiuso zitti zitti la porta dietro noi civili. Eravamo fatti, come topi. Quando ci sei, ci sei. Ci fecero montare a cavallo, e poi in capo a due mesi che eravamo là sopra, rimessi a piedi. Forse perché costava troppo caro. Alla fine, un mattino, il colonnello cercava la cavalcatura, il suo attendente c’era partito insieme, non si sapeva dove, in un posticino senza dubbio dove le pallottole passavano meno facilmente che in mezzo alla strada. Perché è lì esattamente che avevamo finito per metterci, il colonnello e io, nel bel mezzo della strada, io che tenevo il registro dove lui inscriveva gli ordini. Molto lontano sulla carreggiata, lontano fin dove si poteva vedere, c’erano due punti neri, in mezzo, come noi, ma erano due tedeschi occupatissimi a sparare da un buon quarto d’ora. Lui, il nostro colonnello, sapeva forse perché quei due là sparavano, i tedeschi forse anche loro lo sapevano, ma io, veramente, non lo sapevo. Per quanto lontano cercassi nella memoria, gli avevo fatto niente io ai tedeschi. Ero sempre stato molto gentile ed educato con loro. Li conoscevo un po’ i tedeschi, ero persino stato a scuola da loro, quando ero piccolo, dalle parti di Hannover. Avevo parlato la loro lingua. Allora erano una massa di cretinetti caciaroni con occhi pallidi e furtivi come quelli dei lupi; andavamo a toccare insieme le ragazze dopo la scuola nei boschi d’intorno, dove tiravamo anche con la balestra e la pistola che si compravano perfino a quattro marchi. Si beveva anche birra zuccherata. Ma da lì adesso a tirarci nella colombarda, senza neanche venire a parlarci prima e nel bel mezzo alla strada, ce ne correva parecchio, un abisso. Troppa differenza. La guerra insomma era tutto quello che non si capiva. ‘Sta cosa non poteva andare avanti. Gli era dunque capitato qualcosa di straordinario a quelli là? Che non avevo intuìto, io, per niente. Non avevo dovuto accorgermene... Non avevo mai cambiato sentimenti nei loro confronti. Avevo come voglia malgrado tutto di cercare di capire la loro brutalità, ma più ancora avevo voglia di andarmene, moltissimo, assolutamente, tanto tutto quello mi sembrava all’improvviso come l’effetto di un errore tremendo. “In una storia così, c’è niente da fare, non c’è che battersela”, mi dicevo io, dopo tutto... Sopra le nostre teste, a due millimetri, a un millimetro forse dalle tempie, venivano a vibrare l’uno dietro l’altro quei lunghi fili d’acciaio intriganti che tracciano i proiettili che cercano di ucciderti, nell’aria calda d’estate. Mai mi ero sentito così inutile come in mezzo a tutte quelle pallottole e le luci di quel sole. Una immensa, universale presa in giro. Non avevo che vent’anni a quel momento. Cascine deserte in lontananza, chiese vuote e aperte, come se i contadini fossero partiti da quelle borgate per la giornata, tutti, per una festa all’altro capo del cantone, e ci avessero lasciato fiduciosi tutto quello che possedevano, la loro campagna, le carrette, stanghe all’aria, i loro campi, i loro recinti, la strada, gli alberi e anche le vacche, un cane alla catena, tutto insomma. Perché ci trovassimo tutti tranquilli a fare quello che volevamo durante la loro assenza. Era una cosa gentile da parte loro. “Comunque, se non fossero altrove - mi dicevo io - se ci fosse stato ancora qualcuno da queste parti, non ci si sarebbe di certo comportati in quel modo ignobile! Così male! Non avremmo osato davanti a loro! Ma, non c’era più nessuno per sorvegliarci! Nessun altro che noi, come gli sposi che fanno le maialate appena tutti se ne sono andati”. Io mi pensavo anche (dietro un albero) che avrei proprio voluto vederlo qui, io, il Déroulède di cui mi avevano tanto parlato, a spiegarmi come faceva, lui, quando si prendeva una palla in piena ghirba. Questi tedeschi accovacciati sulla strada, testoni e sparacchianti, tiravano male, ma sembravano avere munizioni da vendere, magazzini pieni, senza dubbio. La guerra, decisamente, non era terminata! Il nostro colonnello, bisogna pur dire quel che è, manifestava un fegato stupefacente! Passeggiava nel bel mezzo della carreggiata fra le traiettorie con la stessa semplicità con cui avrebbe atteso un amico sulla banchina della stazione, soltanto un po’ impaziente. Io anzitutto la campagna, bisogna che lo dica sùbito, l’ho mai potuta capire, l’ho sempre trovata triste, con i suoi letamai che non finiscono più, le case dove la gente non c’è mai e i sentieri che non vanno da nessuna parte. Ma quando uno in più ci aggiunge la guerra, c’è da uscire pazzi. S’era levato il vento, brutale, da ogni lato delle scarpate, i pioppi fondevano le loro raffiche di foglie ai piccoli rumori secchi che da laggiù venivano verso di noi. ‘Sti soldati sconosciuti ci mancavano di continuo, ma continuando a metterci attorno mille morti, ci si ritrovava come rivestiti. Io non osavo più muovermi. Il colonnello, era dunque un mostro! Adesso, ne ero convinto, peggio di un cane, non s’immaginava la sua dipartita! Capii al tempo stesso che dovevano essercene molti come lui nel nostro esercito, dei prodi, e poi di sicuro altrettanti nell’esercito di fronte. Chi poteva sapere quanti? Uno, due, molti milioni forse in tutto? Da quel momento la mia caghetta divenne panico. Con esseri del genere, quest’imbecillità infernale poteva continuare all’infinito... Perché avrebbero dovuto fermarsi? Mai avevo sentito tanto implacabile la sentenza degli uomini e delle cose Sarei dunque io il solo vigliacco sulla terra? pensavo io. E con che spavento!... Perduto in mezzo a due milioni di pazzi eroici e scatenati e armati fino ai denti? Con elmetti, senza elmetti, senza cavalli, su moto, urlanti, in auto, fischianti, sparacchianti, cospiranti, volanti, in ginocchio, scavanti, defilanti, caracollanti sui sentieri, spetazzanti, schiacciati pancia a terra, come in una cella d’isolamento, per distruggere tutto, Germania, Francia e Continenti, tutto quel che respira, distruggere, più arrabbiati dei cani, in adorazione della loro rabbia (quel che i cani fanno mica), cento, mille volte più arrabbiati di mille cani e tanto più viziosi! Eravamo belli! Davvero, c’ero arrivato, m’ero imbarcato in una crociata apocalittica. Uno è vergine dell’Orrore come lo è della voluttà. Come me lo potevo immaginarmelo io ‘sto orrore lasciando Place Clichy? Chi avrebbe potuto prevedere prima d’entrare davvero in guerra, tutto quel che conteneva la sporca anima eroica e fannullona degli uomini? Adesso ero preso in questa fuga di massa, verso l’assassinio di gruppo, verso il fuoco... Veniva dal profondo ed era arrivato. Il colonnello era sempre lì che non faceva una piega, lo guardavo ricevere, sulla scarpata, le letterine del generale che poi strappava a pezzettini, dopo averle lette senza fretta, tra le pallottole. In nessuna di quelle c’era dunque l’ordine secco di fermare quella vergogna? Dunque non gli dicevano dall’alto che c’era uno sbaglio? Un errore riprovevole? Un equivoco? Che si erano sbagliati? Che erano manovre per ridere quelle che avevano voluto fare, non degli assassinii! Ma no! “Avanti, colonnello, siete sulla buona strada!” Ecco senza dubbio quel che gli scriveva il generale des Entrayes, della divisione, nostro capo di tutti, di cui riceveva una busta ogni cinque minuti, attraverso un agente di collegamento, che la paura rendeva ogni volta un po’ più verde e diarroico. Ne avrei fatto un mio fratello di spavento di quel ragazzo lì! Ma si aveva il tempo di fraternizzare nemmeno. Dunque niente errori? Quello spararsi addosso che si faceva, così, senza nemmeno vedersi, non era proibito! Quello faceva parte delle cose che si possono fare senza meritarsi una bella sgridata. Era perfino riconosciuto, incoraggiato senza dubbio da gente seria, come le lotterie, i fidanzamenti, la caccia coi cani!... Niente da dire. Di colpo scoprivo la guerra tutta intera. Ero sverginato. Bisogna essere all’incirca solo davanti a lei come lo ero io in quel momento per vederla bene la carogna, di fronte e di profilo. Avevano appena appiccato la guerra tra noi e quelli di fronte, e adesso quella bruciava! Come la corrente tra i due carboni, nella lampada ad arco. E non era vicino a spegnersi il carbone! Ci saremmo passati tutti, il colonnello come gli altri, anche se sembrava un gran volpone, e la sua carnaccia non avrebbe fatto più arrosto della mia quando la corrente di fronte gli fosse passata tra le due spalle. Ci sono un sacco di modi di essere condannato a morte. Ah! Cosa non avrei dato in quel momento per essere in prigione invece d’esser lì, come un cretino! Per avere, per esempio, quand’era così facile, con un po’ di previdenza, rubato qualcosa, da qualche parte, quando c’era ancora tempo. Si pensa a niente! Dalla prigione, ci esci vivo, dalla guerra no. Tutto il resto, sono parole. Se solo avessi avuto ancora tempo, ma non ne avevo più! C’era più niente da rubare! Come sarebbe stato bello in una piccola prigione tranquilla, ecco cosa mi dicevo, dove le palle non passano! Passano mai! Ne conoscevo una bella pronta, al sole, al caldo! In un sogno, quella di Saint-Germain per l’esattezza, così vicina alla foresta, la conoscevo bene, passavo spesso di là, un tempo. Come si cambia! Ero un bambino allora, mi faceva paura la prigione. E che non conoscevo ancora gli uomini. Non crederò più a quello che dicono, a quello che pensano. E degli uomini e di loro soltanto che bisogna aver paura, sempre. Quanto tempo doveva durare il loro delirio, perché si fermassero stremati, alla fine, ‘sti mostri? Quanto tempo poteva durare un accesso come quello? Mesi? Anni? Quanto? Forse fino alla morte di tutti quanti, di tutti i matti? Fino all’ultimo? E poiché gli avvenimenti prendevano quel giro disperato mi decidevo a rischiare il tutto per tutto a tentare l’ultimo passo, il supremo, a cercare, io, tutto solo, di fermare la guerra! Almeno in quell’angolo dove stavo. Il colonnello passeggiava a due passi. Gli avrei parlato. Mai, lo avevo fatto. Era il momento di osare. Là dove noi stavamo non c’era quasi più niente da perdere. “Cosa volete?”, mi avrebbe chiesto lui, immaginavo, sicuramente molto sorpreso dalla mia audace interruzione. Allora gli avrei spiegato le cose come le vedevo io. Si sarebbe visto quel che ne pensava lui. Spiegarsi è tutto, nella vita. In due si riesce meglio che da soli. Stavo per fare quel passo decisivo quando, in quello stesso istante, arrivò verso di noi con passo ginnico, stremato, dinoccolato, un cavaliere a piedi (come allora si diceva), con l’elmo rovesciato in mano, come Belisario, e poi in più tremante e tutto imbrattato di fango, il viso ancora più verdastro di quello dell’altro portaordini. Straparlava e sembrava provare come un male inaudito, quel cavaliere, a uscire da una tomba e averne una gran nausea. Dunque non gli piacevano nemmeno a lui le pallottole, al fantasma? Le prevedeva come me? “Cos’è?” lo fermò secco il colonnello, brutale, infastidito, gettando su quello spettro una specie di sguardo d’acciaio. Vederlo così l’ignobile cavaliere in una tenuta tanto poco regolamentare, e tutto disfatto dall’emozione, questo lo crucciava parecchio il nostro colonnello. Gli piaceva proprio per niente la paura. Era evidente. E poi quell’elmo in mano soprattutto, come una bombetta, finiva per essere del tutto fuori posto nel nostro reggimento d’attacco, un reggimento che si lanciava nella guerra. Aveva l’aria di

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A ottant'anni dalla sua pubblicazione e a cinquanta dalla morte del suo autore,Viaggio al termine della nottesi impone come il romanzo che ha saputo meglio capire e rappresentare il Novecento, illuminandone con provocatoria originalità espressiva gli aspetti fondamentali. «Céline è stato creato
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