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U.S.A. La trilogia: Il 42° parallelo - Millenovecentodiciannove - Un mucchio di quattrini PDF

1435 Pages·2019·6.006 MB·Italian
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Il libro La trilogia U.S.A. (Il 42° parallelo, Millenovecentodiciannove e Un mucchio di quattrini) racconta i primi trent’anni del XX secolo americano e rappresenta la più importante e longeva matrice del “grande romanzo americano”. John Dos Passos coniuga l’estro formale e avanguardistico degli anni Venti con lo scavo storico, culturale e linguistico nelle radici nazionali della Grande Depressione; mette a nudo i costi inflitti al tessuto sociale e psicologico del paese da una modernizzazione senza uguali; e traccia la parabola del fallimento di una democrazia che ha tradito i propri ideali di uguaglianza, libertà, giustizia, opportunità, sacrificandoli al “mucchio di quattrini”. Alla geografia del paese da costa a costa, allo scandaglio della società in tutti i suoi strati si intreccia la ricostruzione storica che, affiancando cronache minute e quotidiane dei personaggi di fantasia a eventi ufficiali delle biografie di personaggi emblematici, tratteggia i grandi fenomeni politici e di pensiero del trentennio. Per comporre un tableau così complesso, Dos Passos sperimenta diverse modalità narrative: le vicende di dodici personaggi inventati; le brevi biografie di ventisette americani famosi; cine-giornali che interrompono le narrazioni con slogan pubblicitari, testi di canzoni popolari e titoli dei giornali; e vertiginosi squarci di riprese fotografiche o cinematografiche, passaggi joyciani in cui l’autore registra la propria vita sensoriale, vere e proprie incursioni nella soggettività. Il risultato è un’opera unica, una vera enciclopedia del continente americano, capace di misurarsi con il respiro epico di una nazione-mondo e con i suoi miti fondativi. L’autore John Dos Passos Chicago 1896 - Baltimora 1970. Fu scrittore assai prolifico di romanzi, poesie, saggi, drammi, e anche reporter e pittore. Oltre alla “trilogia americana” (1938), ricordiamo Manhattan Transfer (1925) e la trilogia District of Columbia (1939-49). Lo sperimentalismo di U.S.A. ha ispirato sia il new journalism americano (Truman Capote, Norman Mailer, Joan Didion) sia l’epica di Underworld di Don DeLillo. John Dos Passos U.S.A. La trilogia IL 42° PARALLELO MILLENOVECENTODICIANNOVE UN MUCCHIO DI QUATTRINI A cura di Cinzia Scarpino e Sara Sullam Traduzioni di Cesare Pavese e Glauco Cambon Introduzione U.S.A., ieri e oggi. Cronaca modernista del fallimento di una “democrazia da favola” di Cinzia Scarpino Secondo una nota affermazione di Gertrude Stein contenuta nella Autobiografia di Alice Toklas (1933), l’America sarebbe «attualmente il più antico paese del mondo, giacché … fu l’America a creare il secolo Ventesimo».1 Se così fosse, la trilogia U.S.A. (1938) di John Dos Passos, composta da tre volumi pubblicati tra il 1930 e il 1936, andrebbe considerata come l’opera narrativa più antica della modernità occidentale, nonché la matrice novecentesca più importante e longeva del “grande romanzo americano” contemporaneo. Ripercorrendo i primi tre decenni del secolo scorso, Il 42° parallelo, Millenovecentodiciannove e Un mucchio di quattrini (traduzione pavesiana del titolo The Big Money) mettono a nudo i costi inflitti da una modernizzazione senza uguali, per rapidità e scala, sul tessuto sociale del paese e la psicologia degli americani. U.S.A. traccia il fallimento inesorabile di una democrazia fondata su principi così alti da diventare impraticabili – una “democrazia da favola” («our storybook democracy», come recita il Camera Eye 46) – che ha tradito, sacrificandoli al “Big Money”, i propri ideali di uguaglianza, libertà, giustizia e opportunità. Lo spaccato restituito da Dos Passos è un enorme e brulicante campo di residui materiali e metaforici del capitale e della nascente industria culturale di massa. Dalle trincee della Prima guerra mondiale alla strada su cui si muovono, risospinti dalla necessità economica e dall’inquietudine sociale e attraversati dalle parole della modernità, i tre personaggi “anonimi” collocati all’inizio, al centro e alla fine della trilogia – «Il giovane uomo», Le spoglie mortali di un americano (The Body of an American) e Vagabondo (Vag) –, U.S.A. accumula e contiene i segni, i luoghi e le parole dell’ascesa vertiginosa della nazione a potenza mondiale. Stiamo parlando, storicamente, del ventennio che da un lato istituzionalizza politiche sociali fortemente conservatrici (il proibizionismo, l’antisindacalismo, il blocco dei flussi immigrati) e dall’altro prepara il terreno alla più grande crisi economica del paese (avviata dal crollo del 1929). Non è un caso che U.S.A. si apra con una canzone patriottica che recita «It was that emancipated race/That was chargin’ up the hill»2 – riecheggiando l’eccezionalismo egemonico americano (la «città sulla collina») – e si concluda, dopo oltre novecento pagine, sul «giovane uomo» diventato Vagabondo («la testa che gira, la fame gli morde nel ventre, le mani in ozio intorpidiscono») ormai rotto alla disillusione di un sogno rovesciato: «i libri dicevano occasione, gli annunzi promettevano pronta carriera, siate il padrone in casa vostra, spendete più del vostro vicino, la voce della radio sussurrava belle bambine, fantasmi di bambine biondoplatino lusingavano dallo schermo, milioni di guadagni erano scritti a gesso sulle lavagne degli uffici, la busta paga pronta per le mani volenterose» (Vagabondo, Un mucchio di quattrini). U.S.A. si innesta su una tradizione narrativa – quella del romanzo americano a grandi volute, si pensi all’epico Moby Dick (1851) di Herman Melville – che non indietreggia di fronte alle contraddizioni economiche, sociali e culturali di un passato recente e un presente in magmatico divenire e decostruisce, pezzo per pezzo, i miti fondativi della retorica nazionale. Quando, sul finire di Un mucchio di quattrini, tutte e quattro le modalità narrative della trilogia (ci torneremo) convergono sull’esecuzione di Sacco e Vanzetti nel 1927 come momento esemplare della sconfitta della democrazia americana, la grande narrative anglocentrica dei padri puritani (arrivati sul Mayflower a Plymouth Rock, Massachusetts, lo stesso luogo in cui approdano gli attivisti impegnati nella difesa dei due anarchici italiani, nuovi “santi visibili” della sinistra) è riscritta a partire da un comune “odio dell’oppressione” su cui si fonda un’etnogenesi nazionale allargata ad abbracciare tutte le ondate migratorie successive. Se la vicenda di Sacco e Vanzetti, così come la violenta repressione dello sciopero dei minatori di Harlan County (1931), chiudono la trilogia nel segno della maturata consapevolezza che esistono, dickensianamente, due nazioni separate – i ricchi e i poveri, i potenti e gli spossessati, i topdogs e gli underdogs –, l’intellettuale e scrittore Dos Passos si schiera dalla parte degli sconfitti, «noi l’America dei vinti» (Occhio fotografico 50). Una perdita condivisa, quindi, ma anche un’esortazione a non rassegnarsi alimentata dalla speranza, residuale e sovversiva, che solo chi è stato sopraffatto dai “traditori” delle “antiche parole” della democrazia possa rinnovarle: «ricostruire le distrutte parole fatte viscose in bocca agli avvocati ai pubblici ministeri ai presidenti dei collegi ai giudici» (Occhio fotografico 49). La lingua, le parole, la voce della gente, e di un popolo. «Ma soprattutto U.S.A. è la voce del popolo» («But mostly U.S.A. is the speech of the people») recita notoriamente il Prologo di un’opera intenta a registrare una lingua, l’americano, grande e proteiforme quanto la geografia di un continente e la molteplicità sociale di una nazione che ha inventato la modernità e i suoi linguaggi (la stampa, la radio, il cinema). È la lingua di attivisti e agitatori sindacali, executives pubblicitari, marinai, aviatori, stenografe, decoratrici di interni, star e starlet del cinema, operai, vagabondi, prostituti, capitani di industria, assistenti sociali, ereditiere, meccanici, architetti, banchieri, è la lingua capace di catturare in modalità panoramica «la più grande valle» del mondo, è una lingua che fonde negli accostamenti paratattici di cataloghi aperti e virtualmente infiniti “Il canto della strada aperta” di Walt Whitman – su cui dovremo tornare – e il gergo allitterante degli annunci pubblicitari. Ed è anche, quale veicolo della modernità, la lingua dell’alienazione e dello straniamento. Ma è poi nella tenacia con cui «la lingua della nazione sconfitta non ci tace alle orecchie stanotte» (Occhio fotografico 50) che lo scrittore americano, di oggi e di ieri, può contribuire al gesto di rinascita di quella democrazia, perché «Solo le orecchie protese in ascolto non sono sole» (Prologo). «Chiamatemi Ismaele» («Call me Ishmael», Moby Dick), «Parla la tua lingua, l’americano» («He speaks in your voice, American», Underworld, Don DeLillo): gli incipit di alcuni dei più grandi romanzi americani dell’Ottocento e del Novecento, lo spiega benissimo Alessandro Portelli,3 sono tutti attraversati dalla voce, dalla lingua, dal parlato, e da una certa tensione etica a raccontare le storie dei marginali, dei poveri, degli sconfitti e a farlo con le loro stesse parole. Per molti versi, U.S.A. di Dos Passos funziona da cerniera tra i secoli, un monumento di narrativa modernista che, pur radicato nella tradizione passata, lascerà un’impronta indelebile nella letteratura a venire. Per incastri compositivi, varietà dei registri stilistici, intertestualità onnivora, uso consumato del collage, stratificazione delle trame, proliferazione acentrica del sistema dei personaggi, commistione metanarrativa di fatti e finzione, scavo mimetico nella, della e sulla lingua americana, U.S.A. è infatti il riferimento irrinunciabile di alcuni tra i filoni narrativi più significativi del secondo Novecento. L’eredità, spesso non dichiarata, della trilogia U.S.A. va cercata in una serie di romanzi impegnati a rappresentare un quadro espanso della società americana e di alcune soglie di attraversamento della storia del paese. Da A sangue freddo (1966) di Truman Capote a Le armate della notte (1968) di Norman Mailer,4 al romanzo che più di tutti sembra iscritto nel solco di U.S.A. ovvero Underworld (1997) di Don DeLillo (per arrivare, forse, al recentissimo Pulitzer di Richard Powers Overstory, 2018, Il sussurro del mondo). Anche a livello più stilistico, affiliazioni letterarie future meno scontate lambiscono autori e generi assai diversi che vanno dalla sperimentazione ossessiva dei cut-up di William Burroughs (chiaro richiamo gli intarsi a collage di una congerie di materiali letterari ed extraletterari disseminati in U.S.A.) ai ritratti, lapidari, precisi e impietosi, di personaggi celebri della non-fiction di Joan Didion (un sottogenere che sembra modellato sulle straordinarie “biografie” della trilogia), fino al cluster di narratives, personaggi e di storie tenuti insieme nel romanzo-non-romanzo di Jennifer Egan A Visit from the Goon Squad (2010, Il tempo è un bastardo). Una trilogia proiettata nel futuro, quindi. Ma anche una trilogia che scompagina e, al contempo, reimpagina l’unicità del frangente storico, politico, culturale e letterario in cui nasce. «U.S.A.», gli anni Trenta, la «taylorizzazione del romanzo» Per cogliere la portata della comparsa di U.S.A. sul panorama letterario americano degli anni Trenta può essere utile partire da due esempi, opposti, di ricezione dei tre romanzi. Da un lato, una lettrice intellettuale e middle-class che ricorda, a circa cinquant’anni dall’uscita del 42° parallelo, come la trilogia segnò uno spartiacque per gli scrittori coevi: «Mi innamorai perdutamente di quel libro [Il 42° parallelo], andai in biblioteca alla ricerca di tutto ciò che Dos Passos aveva pubblicato prima … Come un fiore di carta giapponese lasciato cadere in un bicchiere di acqua, tutto si schiuse, dispiegandosi magicamente, da Dos Passos».5 Dall’altro, un lettore working-class che dichiarava, in un’intervista del 1934, il senso di frustrazione di fronte alla complessità esibita di Millenovecentodiciannove: «E a proposito di Dos Passos: perché mai scrive così strano? Ho letto Millenovecentodiciannove, di cui farneticavano tutti appena uscì e, accidenti, è stato come mettere insieme un puzzle dall’inizio alla fine. Alcune cose erano interessanti e vere, non dico di no; ma perché metterci una settimana o due a scervellarmi su un libro?».6 Mentre l’identità del secondo lettore è anonima, così come quella delle centinaia di lavoratori intervistati da Louis Adamic nel 1934 circa le letture del “proletariato” statunitense, la prima testimonianza è firmata da Mary McCarthy, scrittrice e intellettuale americana di spicco il cui esordio – The Company She Keeps (1942, Gli uomini della sua vita) – mette in scena, in maniera largamente autobiografica, i circoli letterari impegnati “on the Left” della New York degli anni Venti e Trenta. Il modernismo sperimentale e polifonico dei romanzi collettivi di John Dos Passos conquista così la giovane Mary McCarthy (che, per inciso, sposerà il critico letterario più influente dell’epoca, Edmund Wilson, dopo aver lasciato il famoso intellettuale marxista Philip Rahv) e attanaglia il lettore working-class, disorientato e spazientito di fronte alla fatica di una lettura che lo inchioda per settimane. È questo, in fondo, il dilemma che mina il genere del romanzo proletario degli anni Trenta, un genere nato sul finire del decennio precedente sulla spinta “impegnata” di scrittori sensibili tanto alle avanguardie marxiste allineate al Partito comunista americano (CPUSA) quanto, confluendo nelle maglie più larghe del romanzo sociale di protesta, alle istanze più latamente riformiste destinate ad alimentare il “fronte

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