1 OSSERVATORIO Scritti di: Piero Calamandrei, Anna Garofalo, Umberto Olobardi, Enzo Enriques Agnoletti, Hulda Brawer Liberanome LA TRUFFERELLA DI TURNO di P. C. Le leggi elettorali che mirano a deformare la volontà degli elettori coi trucchi degli apparentamenti e dei premi di maggioranza, non portano fortuna ai loro sostenitori: le elezioni italiane del 7 giugno 1953 e quelle recentissime francesi lo hanno dimostrato. Ammaestrati dall’esperienza, pare che per le prossime elezioni amministrative anche coloro che furono un tempo non solo i sostenitori ma gli inventori degli apparentamenti, li rinnegheranno e si batteranno strenuamente per la proporzionale: lo stesso accadrà per le elezioni politiche, in vista delle quali coloro che prima del 7 giugno furono i fanatici fautori della legge maggioritaria, fino al punto di ricoprir di contumelie chi dichiarava onestamente di non approvarla, si presentano oggi come i campioni della lealtà elettorale, rappresentata dalla proporzionale. Hanno scoperto a loro spese che gli elettori sentono all’annuso il puzzo della merce avariata e, come muli recalcitranti, si liberano, con una scrollata del dorso, dal carico poco pulito. Ma tuttavia, specialmente nei cosiddetti "piccoli partiti" (o meglio nei loro rappresentanti in Parlamento), questo gusto della manipolazione elettorale non è scomparso. Naturam expellas furca… con quel che segue. Anche nel disegno di riforma della legge elettorale politica attualmente in discussione alla Camera, il quale dovrebbe segnare il ritorno alla correttezza costituzionale del sistema proporzionale (disegno di legge presentato dal governo Scelba-Saragat, 16 nov. 1954, legisl. II, n. 1237), c’è un articolino che basta a rivelare la vecchia vocazione. Racconta Orazio di quel pittore che era bravo a disegnare i cipressi, e che per questo, anche quando dipingeva una marina o una città, almeno un cipressino da una parte del quadro ce lo voleva mettere per forza. Il cipressino, cioè la trufferella, sarebbe qui l’art. 33, che regola la repartizione in sede nazionale dei voti non utilizzati in sede circoscrizionale. Nel testo unico del 1948 era stabilito che una lista, per essere ammessa alla repartizione dei resti, bisognava che avesse raggiunto il quoziente circoscrizionale almeno in una circoscrizione. Nell’art. 33 del nuovo testo è stata stabilita una diversa limitazione; anche le liste che non hanno raggiunto neanche un quoziente circoscrizionale possono essere ammesse alla repartizione dei resti in sede nazionale, a condizione che abbiano ottenuto una cifra elettorale di almeno 500.000 voti di lista validi. Ma questa regola è subito corretta da una eccezione: non vale per quelle liste che, pur non avendo raggiunto il quorum di 500.000 voti, "siano state presentate da partiti che nella precedente elezione della Camera dei deputati hanno ottenuto almeno un seggio". È una bella trovata, che fa onore all’inventore (sarei curioso di vederlo in faccia). Intanto questa disposizione ha il pregio della sfrontatezza: quello che vuole, le si legge in fronte. La cosiddetta "legge truffa" era fatta, con più accorta ipocrisia, per favorire un partito o una coalizione di partiti a danno di altri partiti. Qui in questo articolo 33, siamo scesi di livello: il trucco è preparato scopertamente per garantire a certe persone di rientrare alla Camera, e per impedire ad altre di entrarvi. Ci si potrebbero scrivere in margine i nomi e cognomi: degli eletti e degli esclusi. Ma quello che più sorprende, è la spudoratezza costituzionale di questa norma: nella regola, ma soprattutto nella eccezione. Il Ponte rivista di politica, economia e cultura fondata da Piero Calamandrei Numero 1 - 1956 2 La regola è che, se una lista raggiunge in tutta Italia, raggranellando voti in tutte le circoscrizioni, 499.999 voti ma non 500.000, senza riuscire a ottenere con essi qualche quoziente circoscrizionale, questi 499.999 voti in sede nazionale non contano nulla, vanno tutti in fumo. Un altro partito che abbia raggiunto, poniamo, 500.001 voti, otterrà in sede nazionale, se il quoziente nazionale è di 50.000 voti, otto seggi; mentre il primo, per una differenza di un voto o due, non ne avrà neanche uno. È una flagrante violazione del principio proporzionale; e tuttavia essa potrebbe considerarsi giustificata, come si legge nella relazione, dallo scopo "di evitare il sorgere e il moltiplicarsi di liste aventi una consistenza politica insignificante". Ma lo sconcio è soprattutto nella eccezione: la quale stabilisce che abbia diritto alla repartizione dei resti in sede nazionale la lista che, pur non avendo raggiunto i 500.000 voti, sia stata presentata da partiti che nella precedente elezione alla Camera dei deputati avessero ottenuto almeno un seggio. Facciamo un esempio. Noi auguriamo al nuovo partito radicale di sorpassare di gran lunga, alle prossime elezioni politiche, il mezzo milione di voti; ma se, per ipotesi, riuscisse soltanto ad arrivarci vicino. superando i 450.000 voti, ma non arrivando ai 500.000, esso, in virtù di questo ben congegnato articolo 33, vedrebbe tutti i suoi voti sfumare senza frutto in sede nazionale. Viceversa, se un altro partito, per esempio il repubblicano, non riuscirà a raggiungere ugualmente neanche un quoziente circoscrizionale, ma tuttavia riuscirà a raggranellare, qua e là, un mucchietto di 150.000 o 200.000 voti, avrà ottenuto, con questi, di assicurarsi, in sede nazionale, tre o quattro seggi. Dunque: 450.000 voti dei radicali in sede nazionale valgono 0; 200.000 voti dei repubblicani in sede nazionale valgono 4. È una bella aritmetica: e un bell’esempio di onestà politica. Tutto questo avverrebbe perché nella Camera attuale i radicali come partito non sono rappresentati, e i repubblicani sì. "Chi c’è ci stia, e chi non c’è non c’entri", dice il proverbio toscano. Per i vecchi partiti, diciamo meglio per i vecchi uomini, c’è una specie di diritto di anzianità, di usucapione. Prezzi di favore per i vecchi clienti. Il voto, coll’andar del tempo, aumenta di peso: più un partito è decrepito, e più i suoi voti fanno presa. Come accadeva a quel cinematografo di paese, dove si proiettava una pellicola vietata ai minori dei sedici anni: il portiere, quando si presentava per entrare qualche ragazzo che non conosceva, lo mandava via con fiero cipiglio; ma se li aveva visti altre volte, li lasciava passare. Diceva: – Lo so che non hanno sedici anni; ma già ci sono stati un’altra volta: sono bell’e smaliziati. – Non possiamo credere che a inventare questa trappola siano stati i repubblicani; i quali per tradizione, sono persone perbene (tant’è vero che, in sede di commissione, l’unico che ha protestato contro questa sconcezza è stato un repubblicano, l’on. La Malfa). L’art. 33 è certamente in contrasto col principio della uguaglianza del voto, ma soprattutto è incompatibile col principio dell’uguaglianza delle opinioni e dei partiti. Esso pone una serie di problemi giuridici di ardua soluzione: che cos’è giuridicamente un partito? come si fa a identificarlo e a stabilirne la continuità? come si fa a stabilire alle elezioni se nella Camera precedente quello stesso partito avesse ottenuto almeno un seggio? Un partito, da un’elezione all’altra, può cambiar nome, può cambiar programma, rimanendo tuttavia formato dalle stesse persone dirigenti; oppure possono cambiare i dirigenti, immutato restando il nome e il segno del partito. Quando sarà lo stesso partito e quando sarà un altro? E se nel corso di questa legislatura un deputato è uscito dal partito che lo aveva eletto e ne ha fondato un altro (come è accaduto, per esempio, all’on. Villabruna) il nuovo partito che lo porterà candidato alle nuove elezioni potrà sostenere, dato che egli faceva parte della Camera, di avere ottenuto nelle precedenti elezioni "almeno un seggio"? Oppure, dato che l’on. Villabruna il seggio lo aveva ottenuto come liberale e non come radicale. la Il Ponte rivista di politica, economia e cultura fondata da Piero Calamandrei Numero 1 - 1956 3 sua presenza nella Camera attuale non potrà salvare il nuovo partito radicale dalla mannaia dell’art. 33? È veramente sorprendente che questo art. 33 non abbia sollevato nella Camera un’ondata di disgusto, e che in sede di commissione sia stato approvato. Questa non è neppure una questione politica: è una questione di decenza. Ma forse chi se ne sorprende è un ingenuo: i deputati dei piccoli partiti vedono i problemi politici solo in funzione della loro rielezione, e quindi approvano l’art. 33 perché sperano che li aiuti a tornare sui loro seggi: i grandi partiti lo approvano, perché pensano che esso servirà a distogliere gli elettori incerti dal votare per i piccoli partiti, nel timore che il loro voto vada disperso. E così il meccanismo dell’art. 33 opera come strumento di broglio elettorale e di trasformismo politico: che questi sistemi servano sempre più a screditare la democrazia nel sano giudizio degli elettori onesti, questo a nessuno importa. Certo, dal tempo della "legge truffa", abbiamo fatto qualche progresso. I costumi si sono ingentiliti. Non potendo più fare il grosso colpo dei 380 seggi di maggioranza, oggi ci si contenta di arraffare quei due o tre seggi che devono garantire anche per la prossima legislatura felicità e vitto a quelle due o tre brave persone che altrimenti resterebbero disoccupate. Non potendo più scassinare la cassaforte, ci si contenta di borseggiare il portamonete. ARTICOLO 587 di Anna Garofalo Il 30 dicembre ’55 la Corte d’Assise di Roma ha condannato a tre anni e sei mesi di reclusione l’impiegato Luigi Millefiorini di 36 anni che il 23 giugno ’54, sulla via Appia, uccise a colpi di pistola sua moglie Giovanna Clorinda Brignone e ferì il presunto amante di lei, Leone Pontecorvo. La Corte ha applicato nei confronti dell’uxoricida l’art. 587 del C. p. relativo al cosiddetto "delitto di onore". Tale articolo dice: "Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale o nello stato determinato dall’offesa recata all’onor suo e della famiglia è punito con la reclusione da tre a sette anni". Sul "Ponte" del giugno ’51 (anno VII, n. 6), in un articolo intitolato Concetto di onore (cui rimando il lettore interessato) scrivevo che non si può sperare in un rinnovamento della società italiana se non si rivedono certe leggi che regolano la morale e il costume e che a nulla serviranno i progressi della tecnica, la emancipazione della donna sancita dal voto e dalla Costituzione se, all’interno delle famiglie e nei rapporti fra i suoi membri, continuerà a vigere la legge della caverna e della jungla. Dopo più di quattro anni, queste parole mi sembrano sempre valide e provo una specie di doloroso sbalordimento all’idea che la vita umana conti così poco che ad un marito sia lecito ammazzare sua moglie cavandosela con una così mite condanna. L’indulgenza per il "delitto di onore" trova, tuttavia, consenzienti molti, troppi italiani. I giornali ci dicono che la sentenza è stata applaudita dal pubblico, ci sono stati baci, abbracci e lacrime di gioia ed è stata perfino letta in aula la letterina natalizia della innocente figlia dell’uccisa (cinque anni) che invoca su colui che le ha tolto la madre tutte le grazie celesti. E di lei, di Giovanna Clorinda Brignone, di anni 26, sposa colpevole se pure non colta "in flagrante" e, malgrado tutto, in diritto di vivere, non c’è nulla da dire? A sedici anni, nel 1945, profuga di Tripoli, vive in un campo di concentramento a Cinecittà. Qui incontra l’uomo di dieci anni più anziano e lo sposa, certo anche per sottrarsi alla triste, sorte che guerra e dopoguerra le hanno Il Ponte rivista di politica, economia e cultura fondata da Piero Calamandrei Numero 1 - 1956 4 riserbato. Si accorge presto che il marito è duro, manesco, a casa vuol fare il padrone, sospetta di tutti, è geloso di tutti. Le apre le borsette, le intercetta le telefonate, la fa spiare dalle donne di servizio. Non ha il coraggio di separarsi da lui, teme che le tolga sua figlia, che non le passi gli assegni alimentari. È poi vittima di un complesso piccolo-borghese, sa che in Italia la condizione di moglie separata è difficile, non dà alcun diritto e mantiene tutti i doveri. Le donne sole, poi, sono sospette e indifese. Sentendosi infelice, ripiega sul gran rimedio di una società senza divorzio: l’adulterio. Allora comincia per lei l’epoca che si potrebbe chiamare "degli schiaffi". Il marito, messo in allarme, è svelto di mano. È lui stesso che lo dichiara in udienza: "La schiaffeggiai, le diedi due ceffoni, la chiusi nel bagno perché confessasse…". Millefiorini è quello che si dice "un galantuomo". Valoroso in guerra (porta all’occhiello della giacca il nastrino azzurro della medaglia), religioso e osservante (aspettando la sentenza ha recitato il rosario), è autoritario e militaresco come si conviene ad un prode (ce lo dice il P. M. Bracci, ma l’avv. Porzio della difesa ribatte che essere autoritario e militaresco è tutt’altro che una cosa disonorevole). Come ex-ufficiale di artiglieria ha sempre con sé una rivoltella, con la quale, prima di uccidere la moglie, ha ucciso un gatto che era inviso a sua madre. Quando si accorge del tradimento, per il dolore vorrebbe suicidarsi, ma poi ci ripensa. "Religiosissimo e osservante", ci dice l’avv. Pacini della difesa, "non volle perdersi, uccidendo il suo corpo e la sua anima". Trovò più comodo uccidere lei. Anche se sposa infedele, "lei" è certamente più coraggiosa di "lui". Nella famosa passeggiata sull’Appia, attentamente e lungamente studiata ("non uccise "nell’atto" – dice Cassinelli – ma molti giorni dopo. Fin dal 18 luglio era certo e sparò il 23"), tenta di disarmare il marito, quando lo vede sparare sul Pontecorvo (lo dice lui stesso, Millefiorini: "Tentò di disarmarmi, con disperato coraggio"). L’amante si abbatte, ferito al torace, e lei, senza pensare che rischia la vita, si piega su di lui, lo chiama: "Leo, Leo mio…". Sono parole che le costano cinque colpi di revolver, uno mortale al petto. Un prete straniero, che passa per caso, accorre accanto alla donna caduta. Domanda, indicando la moribonda: "È cattolica?". "Sì", risponde il marito compunto. "Le dia l’assoluzione". Non vogliamo qui difendere l’adulterio, e sappiamo, del resto, che Giovanna Brignone avrebbe comunque scontato il suo errore. Ci domandiamo solo quello che si è chiesto nella sua arringa il P.M. Bracci: "Quante donne esistono come la Brignone? Essa ha pagato troppo". Per l’articolo 587, che considera il delitto d’onore un reato a sé stante, punibile con un terzo della pena riservata ai delitti comuni, il marito pagherà troppo poco. E viene fatto di domandarci se la causa d’onore non sia un relitto di tempi barbarici, nei quali la donna era "oggetto" e non "soggetto", così come l’onore è un fatto che riguarda l’uomo come singolo e non la "tribù". Si deve, in tempi come i nostri, accettare il ricorso alla violenza anziché ai tribunali? Questo processo, oltre tutto, per le deposizioni dei testimoni, per le reazioni del pubblico, ha messo in luce certi ambienti della piccola borghesia italiana dove non spira, malgrado gli anni e gli eventi, neppure una boccata di aria pura. Quegli amici fedeli che vanno avanti a colpi di delazioni e di lettere anonime, quelle amiche gelose che parlano di "collier" d’oro regalati dall’amante e costui lo nega ("le diedi solo una catenina con una medaglia, mai la macchina da cucire, mai denaro perché non ne volle"), quei sacerdoti che invece di calmare l’ossesso insinuano: "Tua moglie ha qualcuno", quelle "serve" (si deve chiamarle così) che riferiscono le occhiate fuori dalla finestra e l’ora dei rientri a casa. Tutti contro di lei meno sua madre, che la chiama "angelo". E anche lei, poveretta, sbaglia. Strano mondo emotivo e retorico, che si esalta alle parole fruste di Porzio: "Ecce homo. Eccolo con le cicatrici del suo martirio, con i chiodi del suo tormento", e non pensa a quella tomba fresca e a quella bambina senza mamma. È lo stesso mondo che applaudì la "vendetta" di Lydia Cirillo, che Il Ponte rivista di politica, economia e cultura fondata da Piero Calamandrei Numero 1 - 1956 5 scusa la Bellentani, che si disinteressa di Egidi, perché è un povero diavolo che abita a Primavalle. Vogliamo credere che non sia vero, ma su un giornale abbiamo letto perfino queste parole terribili, attribuite ad uno degli avvocati della difesa: "Se non temessi di fare apologia di reato, direi: benedetti quei colpi di pistola…". QUALCOSA DI NUOVO di U. O. La compattezza che, nelle sue varie riprese, ha caratterizzato lo sciopero degli insegnanti medi in tutta Italia, se da un lato è la spia di un disagio economico e morale divenuto ormai insostenibile, dall’altro è il segno confortante che una parte almeno del nostro ceto medio ha compiuto passi giganteschi sulla strada della propria maturazione politica. Dieci anni fa uno sciopero compatto e consapevole come quello della scuola secondaria non sarebbe stato neppure immaginabile. Non foss’altro che per averci dato una notevole prova di maturità politica e proprio su quel terreno dello sciopero che della maturità politica è la prova del fuoco, la vertenza degli insegnanti, qualunque ne siano le conclusioni, rappresenta un fatto estremamente positivo nella vita del paese, stando a dimostrare, fra l’altro, che dieci anni di istituti e di vita democratica, per quanto imperfetti e osteggiati, contano più di quello che le nostre aspirazioni e le nostre impazienze spesso ci facciano credere. Ma più positivo ci appare il bilancio della vertenza, se consideriamo che con essa il problema della scuola è entrato nel giro dei problemi fondamentali della nostra vita democratica cui l’opinione pubblica è portata, bon gré, mal gré, a prestare attenzione e, soprattutto, che su uno stesso fronte di rivendicazioni in favore della scuola di stato si sono trovati strettamente uniti insegnanti laici e insegnanti cattolici. Nell’agitazione della scuola è questo, a mio parere, l’aspetto veramente nuovo e suscettibile di più interessanti sviluppi nel più vasto quadro della lotta politica in Italia. Si è criticato, giustamente, l’insensibilità dimostrata anche in questa occasione dalla classe dirigente cattolica nei confronti della scuola, che è poi insensibilità nei riguardi dello stato. La mancanza del senso dello stato – quel senso dello stato che, per quanto angusto, fu il segno di nobiltà della classe dirigente laica dall’unità in poi – è la carenza più grave degli attuali dirigenti cattolici, e solo il paternalistico, asburgico senso dello stato di De Gasperi ha potuto per molti anni mascherare questa deficienza. Ora io mi guarderò bene dall’accreditare – di fronte a una classe dirigente cattolica di mentalità antiquata e di troppo scarsa sensibilità verso la cosa pubblica per non restar vittima, ad ogni passo, di tentazioni confessionali – una base cattolica che sta scrollandosi di dosso l’antico complesso d’inferiorità nei confronti dello stato laico risorgimentale e che le ragioni e gli interessi dello stato stesso sente e fa propri. Se così fosse, gran parte dei problemi della nostra vita pubblica sarebbero risolti o per lo meno ci troveremmo nelle condizioni favorevoli per avviarli a concreta e rapida soluzione. Questa coscienza non c’è. Pure, se un segno di novità è avvertibile nel mondo politico cattolico, questo ci viene proprio dalle organizzazioni e dai dirigenti di base che, nella lotta politica e sindacale, si trovano quotidianamente a dividere le stesse sollecitazioni e le stesse mete con le altre forze del mondo del lavoro. La vertenza dei professori in questo senso è esemplare. Di fronte a una scuola pubblica sempre più povera di mezzi e sempre meno presente nel vivo del processo educativo della nazione, i dirigenti cattolici hanno manifestato ancora una volta la loro classica sordità verso i problemi dello stato, accentuata in questo settore, per tradizionali passioni confessionali, fino ad assumere il carattere di ostilità; gli insegnanti cattolici, invece, allineandosi con i laici nella rivendicazione di un Il Ponte rivista di politica, economia e cultura fondata da Piero Calamandrei Numero 1 - 1956 6 trattamento economico e giuridico che, risollevando la condizione degli insegnanti, ridia slancio e vitalità alla scuola di stato, hanno dimostrato di sentire che lo stato non è un ente a loro estraneo od ostile, ma qualcosa di cui essi stessi partecipano, in bene o in male, giorno per giorno. Dedurre da questo atteggiamento che sì è maturata in loro anche una chiara consapevolezza della funzione della scuola nella società e della sua autonomia politica e didattica, sarebbe per lo meno semplicistico e frettoloso; ma non mi sentirei neppure di sottovalutare l’importanza e il significato di quella presa di posizione, considerando, fra l’altro, che la consapevolezza dei problemi politici e sociali non nasce da posizioni aprioristiche o da astratte predicazioni, ma dal vivo dell’esperienza e della lotta. In particolare poi mi sembra che la difesa della scuola di stato non potrà non apparire alle stesse masse cattoliche, a mano a mano che della sua importanza acquisteranno coscienza, come difesa della scuola del popolo contro la scuola dei ricchi, ponendo con ciò stesso in una nuova, ben più attuale e concreta prospettiva storica l’annosa querelle di scuola laica e scuola confessionale. D’altro canto, questa degli insegnanti non è l’unica testimonianza che nelle masse popolari cattoliche si va maturando qualcosa di nuovo. I dirigenti politici sono ancora in gran parte quelli di un tempo: come quei loro oppositori che concentrano nel problema del laicismo l’essenza della loro opera politica, anch’essi non riescono a "far politica" se non nei vecchi schemi di confessionalismo e laicismo, perennemente divisi, perennemente in lotta sulla carcassa dello stato. Oggi a me, domani a te. Ma è un circolo chiuso, dove gli uni e gli altri sono destinati a logorarsi e dal quale non vedo come sia possibile uscire in forme rinnovate e moderne se non sollecitando l’intervento di vaste forze popolari, interessate – al di là delle rigide chiusure ideologiche del laicismo e del confessionalismo – a creare una società e uno stato veramente più liberali di quelli odierni. E qui mi sembra che le riflessioni potrebbero essere molte. Io mi limito a una. Se è vero che una democrazia moderna si afferma con la diretta partecipazione delle masse popolari e se non è proprio del tutto una nostra illusione che le forze popolari cattoliche stiano maturando un interesse diretto a inserirsi nella vita dello stato come in quella del proprio stato e non già di un organismo estraneo da presidiare per legittima difesa e magari far decadere e morire; allora appare evidente che anche la difesa del patrimonio politico della migliore tradizione liberale, a cominciare dal principio della laicità dello stato, potrà esser condotta efficacemente se inserita nella più ampia lotta che le forze popolari combattono per il rinnovamento economico e sociale del Paese e che vedrà sempre più frequentemente, le une a fianco delle altre, le forze socialiste e le forze cattoliche. Continuare ad arroccarsi in piccole formazioni di ceto medio illuminato che il problema della laicità dello stato pongono al centro della loro azione politica può essere utile, anzi indispensabile e doveroso, in casi di emergenza: è insufficiente per un’opera costruttiva a lunga scadenza e ad ampio raggio. Come già il problema istituzionale fu dai socialisti, alla fine del secolo scorso, assorbito in quello della rivoluzione sociale, e con ciò venne svuotato di mordente politico il repubblicanesimo del partito repubblicano, così oggi il problema della laicità dello stato, per ricevere nuovo ed effettivo vigore, deve far tutt’uno con quello del rinnovamento delle strutture economiche e sociali della nazione. Che cos’è in fondo, questa, se non difesa liberale dello stato? Ma è una difesa che richiede un coraggio che i "liberali" di oggi non hanno: il coraggio di inserire le proprie istanze, senza prevenzioni e senza timori, nella concreta realtà della vita del paese e dei suoi problemi sociali. LA FESTA DEGLI ALBERI di P. C. Il Ponte rivista di politica, economia e cultura fondata da Piero Calamandrei Numero 1 - 1956 7 Napoli è una città fortunata: non soltanto perché ha il più bel golfo del mondo, e il Vesuvio, e diffusa nel suo popolo la dolce indulgenza di un’antica civiltà. Ma anche perché ha un sindaco che sa comandare: "comandante" patentato, addirittura: e monarchico per giunta, il che lo esonera dall’impaccio di dover osservare le leggi della Repubblica. Qualche settimana fa, in un breve soggiorno a Napoli, mi trovai a dover traversare una via del centro, percorsa dal traffico cittadino: e poiché modestamente aspiravo a non essere travolto dai pazzi volanti che vedevo guizzare a zig-zag sulle lambrette, andai in cerca lungo il marciapiede del semaforo o del vigile che desse qualche speranza di incolumità al derelitto pedone. Ma un amico napoletano, sopraggiunto in buon punto, mi avvertì che era inutile cercare: – Il sindaco ha abolito tutti questi antiquati rimasugli che finora ingombravano gli incroci: in una città moderna gli automobilisti devono abituarsi all’autodisciplina stradale. – Detto questo, l’amico mi prese premurosamente a braccetto e mi incoraggiò a tentare la rischiosa traversata: affidandomi a lui, a forza di balzi acrobatici tra quei veicoli frenetici che piombavano come bolidi da tutte le direzioni, arrivammo sani e salvi, ringraziando San Gennaro, all’altro marciapiede. Allora, quando mi sentii al sicuro, mi venne fatto di rivolgere un pensiero di gratitudine e di ammirazione a questo sindaco eccezionale, il quale non solo insegna ai suoi felici amministrati la auto disciplina stradale, ma la pratica egli stesso in maniera esemplare: tanto è vero che in questi ultimi tempi per due volte ha investito colla sua macchina autodisciplinata due passanti ignari d’ogni disciplina: e la seconda volta una donna incinta, la quale, quando si è rialzata sanguinante e ha riconosciuto che l’investitore era il suo sindaco, lo ha acclamato e gli ha tirato un bacio e un fiore. Ora il sindaco, dopo l’autodisciplina nelle strade, ha voluto iniziare l’autodiboscamento nelle piazze. Da più di un secolo i napoletani erano abituati a ripararsi, nelle giornate di sole, sotto la folta alberatura dì piazza del Municipio: quegli alberi erano ormai un complemento classico di quella piazza: un’oasi di verde e di ombra in quel febbrile formicolio cittadino. Ma il comandante Lauro ha deciso di tagliarli: non potendo tagliare le teste, ha deciso intanto di esercitare la scure sui tronchi. Appena si è conosciuta questa sua volontà, la cittadinanza, affezionata a quegli alberi come a persone vive, si è messa in allarme: sono cominciate a piovere le proteste del comitato di difesa del paesaggio, della associazione degli ingegneri e architetti, di enti politici e culturali cittadini; deputati di ogni partito hanno telegrafato a Roma invocando l’intervento del governo. Allora il ministro della Pubblica Istruzione, sollecitato anche dal soprintendente alle belle arti, è intervenuto con suo telegramma perentorio, col quale ordinava al sindaco di sospendere il taglio appena iniziato. A questo punto il sindaco ha perso il lume degli occhi: – Qui comando io: non per nulla sono comandante; l’alberatura della piazza di Napoli e l’alberatura della mia flotta fan tutt’uno. – E per tutta risposta, in una nottata, da squadre di sicari incappucciati di nero come i congiurati del "Ballo in maschera", ha fatto radere al suolo tutta l’alberatura. La mattina dopo i buoni napoletani hanno trovato la piazza del Municipio rapata, come una testa di coscritto appena uscita dalla tosatura regolamentare. Il prefetto, informato fin da principio della cosa, si è guardato bene dall’intervenire in quella polemica: questa è materia forestale, in cui un prefetto non ha competenza. – Tutt’al più – ha detto il prefetto quando si è trovato difronte al fatto compiuto – lo denuncerò all’autorità giudiziaria per distruzione di bellezze naturali, art. 734 Codice penale. – Ma la Magistratura si è affrettata ad archiviar la denuncia. Proprio in questi giorni il ministro della Pubblica Istruzione della Repubblica, che si trovava per altra ragione a passare da Napoli, ha sentito il dovere di recarsi in pio pellegrinaggio a visitare la piazza tosata; e dopo aver deposto un fiore e una lacrima su quei poveri tronchi abbattuti, se n’è ripartito consolandosi al pensiero che tra cinquant’anni altri alberi saranno ricresciuti. Così il comandante, vincitore contro tutti, è stato portato in trionfo dai suoi accoliti: – Il Ponte rivista di politica, economia e cultura fondata da Piero Calamandrei Numero 1 - 1956 8 Viva Lauro, lo spiantatore, il diboscatore, lo sradicatore, il rasatore delle piazze d’Italia! – Qualche livido oppositore vorrebbe trarre argomento dall’episodio per fare indiscreti paragoni fra questo caso e i numerosissimi casi (forse centinaia) di sindaci (non monarchici) che in questi ultimi anni sono stati sospesi o revocati dalle loro funzioni semplicemente per aver esposto la bandiera alla sede comunale in un giorno non comandato, o per avere trascurato qualche visto nel deliberare la costruzione di case per gli indigenti. In quei casi i prefetti sono fulmineamente intervenuti a reprimere l’abuso: il prefetto di Napoli, no. Ma è tutt’altra cosa: il paragone non regge. Innanzi tutto bisogna capire che quello che il comandante di Napoli ha fatto in piazza del Municipio, non è stato un vandalismo, ma una festa: la festa degli alberi. Lui gli alberi li adora: e proprio per questo, se li vede appena scalfiti da un tarlo, si commuove, e li fa tagliare. Cinquant’anni fa, a Firenze, c’era l’usanza che verso marzo gli scolari andassero in corteo sulle pendici brulle di Monte Morello, e vi piantassero a gara piccoli pini e cipressi. Questa si chiamava "la festa degli alberi": ora Monte Morello, in virtù di quelle costumanze di allora, è tutto rimboschito. Anche il comandante Lauro, che ha un bel nome petrarchescamente vegetale, segue gli stessi metodi. Egli è un uomo colto, conosce i suoi classici: sa bene che cosa vuol dire, nel linguaggio dei buoni scrittori, "far la festa a uno". Si legge in una lettera di Alessandro Segni: "fu impiccato Lorenzo Soderini… e per fargli più onore, gli fu fatta la festa in piazza alla finestra dove allora stava il bargello". Il comandante di Napoli, non potendo far la festa ai consiglieri dell’opposizione, ha pensato dì farla agli alberi. Viva dunque la festa degli alberi. E poi bisogna considerare che il comandante di Napoli è legibus solutus. Egli non è un sindaco della Repubblica: è un sindaco estraterritoriale. Dipende da Cascais, non da Roma: gode dell’immunità diplomatica, e ha per questo diritto di tagliare quanti alberi vuole. Quando il glorioso esule da cui egli dipende sbarcherà da un bastimento della flotta di Lauro e salirà su un bianco destriero bell’e pronto sul molo, il comandante Lauro, a cavallo anche lui, lo accompagnerà tra due ali di popolo delirante, fino a quella piazza, e gli dirà: – Ecco, maestà: abbiamo fatto piazza pulita; come voi faceste dell’Italia. Sempre avanti Savoia! CIRCOLO CHIUSO DA SPEZZARE di E. E. A. Le elezioni francesi sono andate bene o male? Per rispondere bisogna presupporre una definizione di un bene e di un male. Se si guarda alle difficoltà parlamentari sono andate male. Quando non c’è una maggioranza omogenea e stabile il regime parlamentare vive una vita anormale, e il fatto che siamo tutti abituati a quella malattia non vuol dire che questa non esista. Ma se si ritiene che l’esistenza di una maggioranza stabile non sia un fatto occasionale e arbitrario, ma sia il prodotto di una omogeneità e vitalità sociale dell’intero paese, e se si ritiene che non il parlamento e il governo, ma il paese sia, in Francia, il vero ammalato, bisogna riconoscere che, pur continuando la malattia, questa non si è aggravata e che ci sono sintomi abbastanza confortanti di miglioramento; che perciò le elezioni sono andate abbastanza bene. Contro e a dispetto dei commenti dei giornali benpensanti si deve constatare: primo che la difesa repubblicana ha funzionato, e questo è tanto più importante in quanto la minaccia antidemocratica è reale come l’ha dimostrato il successo di Poujade; secondo che esiste un raggruppamento politico il quale, a differenza dei comunisti, ha delle possibilità di governo e può porre la propria candidatura al governo della Francia anche per lo spazio di una generazione; terzo che esiste una leggera Il Ponte rivista di politica, economia e cultura fondata da Piero Calamandrei Numero 1 - 1956 9 maggioranza di sinistra, che, anche se composta in parte dai comunisti, può formare una linea di difesa stabile dietro cui resistere agli attacchi della destra e talvolta colpire i centri nevralgici degli avversari, o almeno tenerli sotto la minaccia della approvazione di leggi per essi pericolose. L’interesse politico si è ridestato, una buona parte del paese ha dimostrato di desiderare più che un governo una politica, e questa politica è stata delineata anche durante la campagna elettorale con una certa precisione. Fatto ancora più importante si è cementata – e speriamo che sia un cemento capace di resistere alle alte temperature degli allettamenti governativi e dei trasformismi – una alleanza tra un socialismo piuttosto stanco e senza idee, e parecchio abitudinario, ma che ha ancora una base elettorale popolare fondata su una tradizione di umanismo, e alcune correnti di democrazia moderna impersonate soprattutto da Mendès-France. Quella alleanza non ha un significato puramente francese, essa può rappresentare una soluzione che potrebbe essere valida per tutta l’Europa continentale e che forse sarebbe la sola ad avere carattere europeo, distinta cioè dalle soluzioni offerte dai due grandi blocchi avversari. Questa, tuttavia, è per ora solo un’astrazione, poiché né Italia né Germania consentono a quegli ideali o a quella politica, anche se l’esempio francese potrà costituire un incoraggiamento. Per ora è un’astrazione anche in Francia, in cui è ancora più una speranza che una realtà. Gli uomini del centro-sinistra francese si trovano davanti a quel circolo vizioso di fronte a cui si trovano tutte le idee politiche che intendono trasformare una società pur mantenendo il regime parlamentare. Per trasformare un paese come la Francia, con problemi così gravi anche coloniali, e interessi sezionali così feroci, non basta stare a vedere l’evoluzione naturale delle cose. Occorre che il governo intervenga chirurgicamente; ma il governo si appoggia a un parlamento eletto in buona parte da interessi i quali non desiderano operazioni chirurgiche che li colpiscano. Parlamento e governo sono soltanto l’espressione dell’elettorato; è qui che bisogna colpire, qui che bisogna riformare. Dove c’è un’opinione pubblica abbastanza disinteressata e avvertita, capace di influenzare anche il parlamento, si può superare la contraddizione nascente dalla necessità di riformare, attraverso il voto del parlamento, il voto degli elettori, ma dove l’opinione pubblica è fiacca e insensibile la cosa è assai più incerta. Un solo modo hanno Mendès-France e i socialisti per arrivare a imporre quelle riforme che, trasformando la Francia, trasformeranno parlamento e governo. Rifiutare, per qualsiasi ragione, ogni unione più o meno sacra, battersi su un programma da prendere o lasciare in blocco, disposti piuttosto a rifare le elezioni e a lasciar governare gli altri, se questi ci riescono, disposti ad accettare i voti comunisti, ma disposti piuttosto ad essere sconfitti in parlamento che a pagarli troppo cari. Bisogna che facciano intendere al paese che se la Francia vuole un effettivo governo deve accettare i necessari sacrifici per averlo e che se non li accetta non lo avrà. Bisogna riconoscere che, per ora, i vincitori, sia pure vincitori di misura, delle elezioni del 2 gennaio, hanno capito quale è l’interesse loro e l’interesse del paese. Che dire invece di tutti i commentatori più o meno officiosi della politica occidentale? Che dire dei giudizi americani, inglesi, e, da noi, si capisce, di organi come "Il Corriere della Sera" dove Panfilo Gentile ha dichiarato che la divisione fra Mendès-France e Faure non aveva ragione di essere ed era in sostanza contraria agli interessi dei paese? Questi commenti, queste opinioni, questi incitamenti sono l’esempio di quella mentalità che ha generato la politica a cui si debbono così clamorosi insuccessi sia in Asia che in Europa. La politica che si contenta di un tipo di governo piuttosto che di un tipo di paese, che crede che, alla lunga, se c’è un governo diplomaticamente favorevole agli occidentali, si avrà un paese schierato nel campo delle democrazie. Un governo di tutto il centro francese non potrebbe portare un minimo contributo a quella evoluzione e trasformazione della Il Ponte rivista di politica, economia e cultura fondata da Piero Calamandrei Numero 1 - 1956
Description: