UN ITALIANO IN ALBANIA III (*) Ancora in marcia. - Giunto a Laudari non vi trovai anima viva. Il vil laggio era stato completamente bruciato e le macerie fumavano ancora; le strade erano ingombre di mobili e di masserizie. Io, vagando come un cane randagio, cercavo qualcosa da mangiare: fui fortunato e trovai un cestello pieno di formaggio. Mentre, tutto raggiante, stavo prendendone un bel pezzo sentii una voce femminile che mi disse: « Capitano cosa fai qui? ». Era la moglie di un mio amico albanese che era rimasta nascosta nel vil laggio durante il passaggio dei tedeschi; mi dette un pezzo di pane di grano e del formaggio e mi avvertì che i tedeschi avevano abbandonato il villag gio soltanto da un’ora e che si trovavano in quello vicino di Dudas e che d’intorno giravano i ballisti. Allora andai per i campi : di giorno restavo nascosto fra il grano, già alto, e di notte mi recavo a Laudari dove la donna che avevo incontrata mi dava qualcosa da mangiare. Passarono così alcuni giorni e poi decisi di recarmi al villaggio vicino di Mariani, per vedere cosa era accaduto in quella zona; quivi non tutte le case erano state bruciate e gli abitanti, nella maggior parte, erano rientrati. Nessuno mi volle però dare ospitalità e dovetti arrangiarmi mangiando qualche frutto acerbo e dormendo in un cortile. All’indomani tomai a Laudari; girai nelle diverse case bruciate e in una di esse rinvenni un ciclostile, fortunatamente ancora intatto: trovai anche qualche paio di calzini ed un paio di calzettoni, che mi fecero molto comodo. Trascorse qualche giorno e, una mattina, mentre gironzolavo per il villaggio, mi sentii chiamare e con grande gioia vidi il commissario Misto Tresca con un altro commissario e con un partigiano: ci abbracciammo e baciammo secondo l’uso albanese e ci raccontammo le nostre peripezie. Anche essi avevano vagato per i diversi villaggi, senz'alcun collegamento con gli altri partigiani: soltanto in modo incerto erano stati informati che la brigata avrebbe dovuto riunirsi nel villaggio di Nice, di stante una ventina di chilometri circa da Laudari, che non era stato rastrel lato dai tedeschi ed era l’unico, nella zona, che avrebbe potuto offrire da mangiare ai partigiani. Divisi con loro quel po’ di pane e di formaggio che ancora mi restava e poi accompagnai Misto Tresca a vedere il ciclostile che (*) Le due precedenti puntate sono state pubblicate rispettivamente sui fasci coli N. 40 e N. 41 di questa Rassegna. IO Mario Fantaca avevo rinvenuto; egli baciò la macchina, come se fosse stata una persona. Gli parve, disse, di aver ritrovato sano e salvo un figlio perduto. « Non puoi comprendere come mi sia caro questo ciclostile », continuò, « giacche è molto difficile procurarsene un altro ed è indispensabile per riprodurre i bollettini di operazioni e le circolari di propaganda; specialmente in que sto particolare e delicato momento la propaganda è assolutamente neces saria ». Ponemmo il ciclostile dentro ad una cassa e la sotterrammo onde poterla riprendere al momento opportuno. Intanto alcune donne del villaggio c’informarono che gruppi di bal listi si aggiravano nei dintorni ed allora decidemmo di abbandonare Lau dari e di partire per Nice. Andai a riprendere il mio fucile che avevo nascosto vicino al molino di fondo-valle, ed all’imbrunire ci mettemmo in cammino: verso mezzanotte ci fermammo a dormire in mezzo ai cespugli che si trovavano a lato della mulattiera. All’alba ripartimmo : era il 15 giu gno 1944. Dopo alcune ore di marcia, per me particolarmente penose, per chè ero ancora debole e stentavo a tenere il passo dei miei compagni, giungemmo ad un piccolo paese e ci riposammo un po’; alcuni abitanti ci dettero da mangiare un pezzo di pane di granturco e del formaggio e men tre mangiavamo ed un contadino ci stava raccontando le vicende del ra strellamento in quella zona, passarono sopra di noi alcuni aerei, che lan ciarono dei manifestini. Da molti giorni eravamo privi di qualsiasi notizia e con grande ansietà aspettammo che qualche volantino cadesse presso di noi; ne afferrammo finalmente uno e con immensa gioia apprendemmo1 che gli Alleati erano sbarcati in Francia ed avevano ormai compiuto forti pro gressi. In un batter d’occhio sparì in noi il triste ricordo dei difficili giorni trascorsi e fece posto alla speranza di una prossima fine della guerra. Ripar timmo felici per la nostra meta e a me sembrava di non sentire nemmeno più la stanchezza. Verso sera giungemmo a Nice, luogo della presunta adunata. Vi tro vammo infatti molti partigiani che ci confermarono essere quel villaggio destinato alla riunione di tutta la brigata. Ci dissero anche che si attendeva di ora in ora l’arrivo del comandante Negip. E’ veramente straordinario come le forze partigiane, anche dopo un furioso rastrellamento che, per ragioni di tattica di guerriglia, le fa sparpagliare in tutte le direzioni, si ricongiungano insieme, pur possedendo soltanto notizie vaghe o non aven done affatto, come guidate da uno speciale senso orientativo! Stavo sdraiato in una stanzetta del capo villaggio, piena zeppa di par tigiani, ognuno dei quali aveva la sua vicenda da raccontare sul recente rastrellamento, quando arrivò la notizia che era giunto il comandante Negip. M’incontrai con lui, che si dichiarò felice di rivedermi e mi chiese come avessi trascorso i difficili giorni del rastrellamento e se mi occorresse qual cosa: « Ho urgenza di un paio di opinche », risposi, « perchè, come vedi, quelle che calzo sono ridotte in brandelli »; egli dette subito l’ordine al l’intendente di consegnarmi il più bel paio di opinche che avesse. Felice come un bambino a cui si comprano le scarpe nuove, corsi subito a far Un italiano in Albania tt mele confezionare da uno specialista in materia, il quale me le fece così bene che ogni partigiano che incontravo era costretto a dirmi : « Capitano, che belle opinche che hai! ». Il giorno appresso' arrivarono due partigiani, cui erano stati consegnati il mortaio della mia squadra, i muli e gli zaini, che avevamo nascosti du rante l’operazione di rastrellamento; i componenti della squadra mortai avevano proseguito senza i muli e i materiali per il sud dell’Albania. Con grande rischio i due partigiani erano riusciti a salvare ogni cosa. Poiché ero l’unico della squadra mortai presente al villaggio1, stavo per prendere pos sesso dell’arma, dei muli e dei materiali, quando un commissario di batta glione affermò in maniera decisa che l’arma apparteneva al suo reparto per chè suoi erano gli uomini che l’avevano riportata; insistetti che l’arma era della mia squadra e che i due partigiani l’avevano ricevuta soltanto in con segna, ma egli non voleva udire ragioni. La discussione si era fatta vivace e presto divenne violenta, perchè bisogna pensare che perdere un’arma rappresenta, nelle file partigiane, un forte disonore. Attirato da tanto bac cano intervenne il comandante Negip e riconobbe le mie giuste ragioni, dato che sia i muli che gli zaini appartenevano al mio reparto e di conse guenza anche il mortaio. Formai una nuova squadra con alcuni partigiani, ma il mio cuore era in attesa dei miei vecchi compagni e sentivo che sa rebbero presto ritornati; infatti due giorni dopo essi arrivarono e ci rive demmo e abbracciammo con la più grande commozione. Essi credevano ormai di avermi perduto per sempre e mi pensavano o prigioniero dei te deschi o morto. Ci raccontammo le nostre vicissitudini; essi, dopo che io mi fermai, durante il rastrellamento, proseguirono per altre zone verso il sud dell'Albania, sempre braccati dai tedeschi; terminato il rastrellamento ritornarono nella zona di Korja ed ora erano nuovamente alla brigata. For tunati loro, durante la fuga si rivestirono e calzarono a nuovo in un ma gazzino partigiano, che doveva essere sgombrato per non farlo cadere in mano tedesca. Intanto il Comando Generale dell’Esercito di Liberazione Nazionale impartì l’ordine di formare la I Divisione Proletaria e la mia brigata entrava a farne parte insieme alla 1 e alla V. Il comando della Divisione venne affi dato al col. Dalindreu e vice comandante fu nominato il ten. col. Mehmet Shehu, già comandante della I Brigata. Si procedette alla riorganizzazione di tutti i reparti e quando1 la Divisione fu pronta ricevette l’ordine di con quistare la città di Dibra. Ci muovemmo, così, verso la zona del Dibrano, nella valle del Drin. Il commissario della IV Brigata mi chiese, in quel periodo', se fossi stato favorevole a costituire, in seno alla I Divisione, una brigata formata da tutti italiani. Tale unità avrebbe avuto come nucleo centrale il Batta glione Gramsci a cui si sarebbero aggiunti tutti gli altri italiani che com battevano nelle varie brigate albanesi. Espressi parere contrario perchè pen sai che i partigiani italiani erano molto utili, anzi indispensabili, alle bri gate albanesi, ove fungevano da specialisti ed avevano in mano buona 12 Mario Fantacci parte delle armi pesanti; inoltre, una brigata formata da soli italiani, anche se accompagnata da commissari e da altri partigiani albanesi, avrebbe in contrato molte difficoltà per la poca conoscenza del terreno, per i riforni menti e nei rapporti con la popolazione civile. Infatti quest’ultima nutriva ancora, com’era naturale, una certa diffidenza per gli italiani, anche se di molto diminuita rispetto ai primi giorni dopo' l’armistizio. Partimmo per il Dibrano, in una notte molto buia, allo scopo di me glio attraversare la rotabile Korga-Elbassan-Tirana senza essere visti dai tedeschi. A piccoli gruppi attraversammo la strada e, mano a mano che era passato, ogni gruppo spariva nel bosco vicino: stavo per raggiungere questo bosco, ed ancora una buona metà degli uomini della Divisione erano rimasti dall’altra parte, quando udii il rombo di un’autocolonna tedesca. Questa era preceduta da due autoblinde, i cui equipaggi dovevano aver no tato qualcosa di anormale, dato che si fermarono facendo roteare i loro fari in tutte le direzioni e spararono alcune raffiche di mitragliatrice a ca saccio. Avremmo potuto attaccare l’autocolonna, ma la nostra condizione di truppa in movimento, la necessità di non far notare la presenza di forze partigiane nella zona e la fretta che avevamo di raggiungere Dibra, fecero desistere il nostro Comando da una simile tentazione. Rimanemmo, perciò, circa un’ora nella più grande immobilità e nel più assoluto silenzio, fino a quando cioè l’autocolonna tedesca non riprese il movimento. All'alba, dopo una lunga ed estenuante marcia, giungemmo sopra il lago di Pogradec, in una zona completamente brulla e priva di abitazioni. Marciammo in una mulattiera che si snodava lungo il confine jugoslavo. Eravamo tutti molto stanchi e vedendo alcuni contadini venirci incontro pensammo di essere vicini a qualche villaggio: innocente illusione! Marciammo ancora per al cune ore, non scorgendo neppure una casa isolata ed il peggio era che nessuno aveva più una goccia d’acqua nelle boracce e che non se ne trova va; col caldo soffocante, per la prima volta stavo provando veramente il morso della sete e pensavo con nostalgia ai limpidi ruscelletti delle monta gne del Korpano. Ad un tratto vidi i partigiani che mi precedevano cor rere precipitosamente verso l’interno di una caverna; avevano trovato del l’acqua? No, ma nel fondo della caverna era rimasta una buona quantità di neve; ci lanciammo tutti, come dannati, su quella neve, prendendone delle manciate con l’illusione di dissetarci. Invece, dopo un primo senso di sol lievo, la gola rimaneva più secca di prima, perchè tale è l’effetto che pro duce la neve. Fortunatamente, dopo qualche chilometro di marcia, arri vammo ad una fonte che ci permise di dissetarci e di lavarci; ma era destino che non dovessimo godere a lungo di quella insperata provvidenza, poiché mentre ci riposavamo, venimmo improvvisamente investiti da un intenso fuoco di fucileria, proveniente dalle alture vicine. Cominciò così un com battimento lungo e difficile contro i ballisti ed i pastori della zona, che vo levano ad ogni costo contrastarci il passo. Ma la nostra avanzata fu ineso rabile ed all’imbrunire giungemmo ad alcune capanne di pastori, abban donate da questi ultimi poco prima del nostro arrivo; in esse ardeva ancora Un italiano in Albania 13 il fuoco lasciato1 dai pastori e yi trovammo inoltre ingenti quantità di latte e di formaggio. Ricordo che, senza esagerare, avrò bevuto due o tre litri di latte e cosi, più o meno, fecero tutti gli altri. Poi prendemmo ognuno qualche pezzo di formaggio e ci fermammo nei pressi, per trascorrervi la notte; quando questa si fece più profonda, spinto ancora dagli stimoli deh la fame, solo solo mi avvicinai alle capanne, ma giunto a una cinquantina di metri da una di esse, venni investito da colpi di fucile e sentii le pallot tole fischiarmi molto vicine. Cosa era avvenuto? Erano ritornati i pastori o si trattava di qualche partigiano che voleva rimanere indisturbato padro ne della capanna? Non l’ho mai saputo, ma il fatto è che allora rientrai precipitosamente al mio reparto e, se non con paura, con una certa agita zione, perchè non fa molto piacere sentirsi fischiare all’improvviso delle pallottole di arma da fuoco vicino agli orecchi; e ricordo che nella corsa vidi qualche altro partigiano fuggire nella mia stessa direzione e pensai che non ero stato solo a dirigermi alle capanne per la fame. Al mattino se guente continuammo la nostra marcia, sempre ostacolata e ritardata dai nostri avversari: si trattava però di una resistenza di scarso rilievo, e, si può dire, che procedevamo con passo regolare. Finalmente, vinte le ultime e più efficaci resistenze nemiche, occupammo l’unico paese della zona, de nominato Qarishta. Tale paese doveva essere punito dai partigiani perchè alcuni mesi prima una ventina di essi erano stati barbaramente uccisi dai ballisti locali; per tale ragione vennero bruciate le case dei responsabili. Una sola famiglia aveva sempre dimostrato simpatia per i partigiani ed in seno ad essa viveva un s.tenente dell’aviazione americana, unico superstite di un aereo da bombardamento costretto ad atterrare in quella zona: gli altri suoi compagni erano stati consegnati ai tedeschi dagli abitanti del paese, mentre lui era stato nascosto dalla famiglia suddetta. Ormai per questo aviatore era terminata la parte peggiore della sua odissea, giacché il nostro comando lo prese con sè e, a quello che seppi in seguito, lo fece imbarcare per l’Italia con un sottomarino alleato. In questo paese mi ritrovai col magg. di Cavalleria Carboni, che avevo conosciuto a Panarit e che era entrato a far parte della I Brigata albanese. Egli mi confessò che non poteva più sopportare le fatiche della guerriglia, anche perchè i comandanti albanesi della brigata non erano troppo teneri con lui, sempre per quella diffidenza che gli albanesi provavano ancora per gli ufficiali italiani, specie se si trattava di ufficiali superiori; diffidenza, del resto, comprensibilissima. Ad ogni modo, egli aggiunse che sarebbe rimasto con i reparti partigiani fino all’estremo limite delle sue forze. Eravamo a corto di cibo e ricordo che divisi con lui una cipolla ed un pezzo di pane di granturco, che ero riuscito a procurarmi nella casa partigiana del paese. Conobbi, inoltre, in quell’occasione il portaordini del Battaglione Gramsci, Nepi Oscar, di Signa, bel tipo di partigiano, sempre allegro e bizzarro, come lo sono in genere i fiorentini, pieno di spirito e di coraggio; simpatiz zammo subito e mi accorsi che egli provava una forte stima e rispetto per me, forse perchè, sapendomi ufficiale, non avrebbe mai creduto che com 14 Mario Fantocci battessi come un qualsiasi soldato. Volli sapere tutto di lui e del Batta glione Gramsci e fu così che conobbi le vicende di questo glorioso reparto italiano. Il Battaglione italiano « Antonio Gramsci ». - Per iniziativa di alcuni sottufficiali e di un gruppo di graduati e soldati della Divisione Firenze, il giorno io ottobre 1943 venne costituito il Battaglione italiano Antonio Gramsci, nella zona di « Lumi Tirana » fra Qafa Stamles e Tirana. Nessun ufficiale volle far parte di questo battaglione e i soldati elessero a loro co mandante l’ex sergente maggiore Terzilio Cardinali da S. Giovanni Vai- damo (Arezzo), degradato per antifascismo, e che nella battaglia di Kruja contro i tedeschi aveva già fornito prove di grande iniziativa e di coraggio. Si trattava di un giovane molto intelligente, amato dai compagni e che godeva della più grande stima e fiducia dei comandanti albanesi; sempre primo in ogni azione rischiosa, era il vero trascinatore dei suoi uomini. Il nome del battaglione venne scelto dal comandante della I Brigata albanese, Mehmet Shehu, combattente in Spagna con la Divisione Garibaldi e grande ammiratore di Antonio Gramsci. Il battaglione era inquadrato nella I Brigata albanese e la più bella prova della stima e della considerazione in cui era tenuto dagli albanesi era fornita dal fatto che bastava che uno dicesse di appartenere al Batta glione Gramsci perchè si sentisse rispondere : « Mire, mire » cioè : « Bravo, bravo » e fosse guardato con rispetto ed ammirazione; il battaglione, in fatti, benché comandato ed inquadrato da ex sottufficiali, graduati e sol dati, aveva fornito tali prove, per cui le sue epiche gesta erano conosciute in tutta l’Albania. I tedeschi, poi, avevano uno speciale timore di questo reparto, direi, quasi, che ne provassero terrore; spesse volte essi rifiuta vano il combattimento contro « quei diavoli d’italiani », come li chiama vano loro. Fra le imprese più belle compiute sino a questo periodo dal bat taglione sono da ricordare l’occupazione di Duniga, ove vennero fatti quat trocento prigionieri (di cui ho già scritto), ed il tentativo di liberare circa cinquecento soldati italiani, prigionieri dei tedeschi. Di quest’ultimo epi sodio sappiamo che il comandante Cardinali, venuto a conoscenza che un battaglione di tedeschi si trovava accampato nella zona di Bels e che aveva con sè molti italiani prigionieri, pensò, con grande slancio di generosità, di liberare i nostri connazionali. Chiese il permesso al comandante della I Brigata, che autorizzò l’impresa a condizione che vi partecipasse il solo Battaglione Gramsci il quale, se l’azione non fosse riuscita nel termine di due ore, sarebbe dovuto rientrare alla base di partenza perchè era in corso un’operazione di rastrellamento tedesca e la brigata doveva rimanere unita. L’azione venne tentata ugualmente ed il battaglione si diresse verso l’accam pamento dei tedeschi; per disdetta, questo era stato spostato, forse per misura precauzionale, e sul luogo indicato non furono trovati che i segni dimostranti che vi era stato' un attendamento. Il tempo stringeva, ma Car dinali non si perse d’animo; bisognava liberare ad ogni costo i fratelli ita Un italiano in Albania liani. Il nuovo accampamento non doveva essere molto lontano ed infatti, dopo circa una mezz’ora di ricerche, alcuni uomini di una pattuglia di punta lo individuarono: occorreva agire con molta prudenza ed eseguire una pre cisa ricognizione per non rischiare di colpire gl’italiani. Quando tutto fu pronto il battaglione attaccò di sorpresa con un fuoco violentissimo e nu trito; i partigiani, avanzando, gridavano ai prigionieri italiani di non uscire dalle loro tende e di aspettare fiduciosi la liberazione. I tedeschi, colti al- l’improvviso, stavano ormai per essere sopraffatti dal poderoso e violento attacco del Battaglione Gramsci ed il loro comandante chiese una tregua onde parlamentare con quello italiano : Cardinali acconsentì ed’ accompa gnato dal partigiano Brunetti Bruno di Firenze (che doveva poi divenire commissario del battaglione) e dal fido portaordini Nepi Oscar s’incontrò col comandante tedesco intimandogli la resa. Quest’ultimo chiese mezz’ora per decidere: i nostri non accettarono questa condizione ed il combatti mento riprese ancora più violento di prima. Sfortunatamente le due ore erano già trascorse ed un portaordini del Comando di Brigata comunicò a Cardinali che bisognava raggiungere subito le altre forze e così, malgrado l’eroico comportamento del battaglione, l’impresa non potè essere condotta a termine. In seguito ho avuto occasione di parlare con uno dei prigionieri italiani che si trovò presente a quel combattimento e che poi riuscì a fug gire dai tedeschi ed unirsi con noi: egli non si stancava mai di ripetermi che in quell’occasione gli uomini del Battaglione Gramsci erano stati valo rosissimi. Bisogna essere orgogliosi di quel fatto d’armi che aveva costretto un tracotante ufficiale tedesco a parlamentare con un comandante partigiano italiano, considerato da lui un ribelle ed un fuori-legge. Ed in tante altre occasioni il Battaglione Gramsci si era coperto di gloria, mai secondo a nessuno. Seguitando nel suo racconto, il Nepi mi parlò anche di altri reparti italiani che combattevano nelle brigate albanesi. Nella I Divisione era in corporata una batteria di artiglieria da montagna comandata dal cap. Vito Menegazzi di Venezia e che aveva come altro ufficiale il ten. Modestini di Perugia: la batteria aveva contribuito in forte misura alle vittorie della I Brigata ed era tenuta in grande considerazione dal comandante Mehmet Shehu. Un’altra batteria da montagna, comandata dal cap. Cotta, era aggregata a brigate albanesi; il cap. Cotta si comportava valorosamente ed insieme ai propri uomini aveva reso grandi servigi ai vari reparti albanesi cui veniva distaccata la sua batteria. L’occupazione della Zona del Moti. - Ci spostammo poi nella zona del Mati i cui abitanti, in massima parte, erano zoghisti, cioè fautori di re Zog. All’inizio della guerra partigiana in Albania negli anni 1940-41 gli zoghisti erano stati alleati dei partigiani contro l’occupazione italiana, ma in seguito si erano creati dei comprensibili dissensi. Infatti gli zoghisti volevano li berare l’Albania per farvi ritornare re Zog, mentre i partigiani combatte vano per la creazione di una repubblica democratica popolare. té Mario Fantocci Gli inglesi, sempre fedeli alla loro politica di tenere i piedi in più staffe, avevano una Missione militare anche presso gli zoghisti e li riforni vano di armi, munizioni, vestiari ecc. come per i partigiani. La differenza era che mentre i partigiani combattevano sul serio contro i tedeschi e i ballisti, gli zoghisti, invece, non ne volevano sapere di combattere e trova vano sempre l’accordo, sia con i tedeschi che con i ballisti. I rifornimenti che gli zoghisti ricevevano dagli inglesi divenivano oggetto di mercato ed infatti gli abitanti della zona erano per lo più vestiti con indumenti inglesi e possedevano armi e munizioni alleate. In apparenza questi zoghi- sti ci ricevevano cordialmente e ci ospitavano nelle loro case con sorrisi e baci, ma in realtà essi provavano un odio profondo contro i partigiani; questo sentimento d’inimicizia mi si rivelò in un’occasione, quando fui ospite, insieme ad altri partigiani, di una famiglia di zoghisti, due compo nenti della quale erano stati ufficiali di re Zog, che amava circondarsi, per 10 più, di dignitari e di ufficiali della sua regione nativa. Finche fummo loro ospiti ci ricoprirono, com’è nella tradizione albanese, di grandi genti lezze e alla nostra partenza usarono espressioni di estrema cortesia, ma, quando dovetti ritornare indietro da solo, perchè avevo dimenticato una coperta, ed i miei compagni si trovavano ormai abbastanza lontani, l’at teggiamento di questa famiglia cambiò completamente: mi consegnarono la coperta, ma mi coprirono d’invettive, offendendo i partigiani, anzi, un componente della famiglia mi minacciò addirittura con la pistola. Non nascondo che mi allontanai da quella casa con la più grande fretta possibile, onde raggiungere il mio reparto. Quando la zona del Mati fu tutta sotto il nostro controllo, ci muovem mo all’attacco di Peskopia: si trattava di un’impresa molto difficile perchè 11 territorio di questa cittadella era dominato dal capo nazionalista Halie- Halia, alleato dei tedeschi, il quale disponeva di un forte numero di armati; inoltre a Peskopia era dislocata una compagnia germanica. All’imbrunire attraversammo a guado il fiume Drin, che ha una forte corrente, e non fu certamente facile raggiungere l’altra sponda: l’acqua era gelida ed arrivava quasi alle mie spalle. Giunto nel mezzo del fiume, non avevo più forze e mi attaccai alla coda di un mulo che mi trascinò per al cuni metri e dette poi uno strattone così forte che dovetti lasciare la sua coda. Meno male che non caddi nell’acqua disteso! Con un ultimo sforzo di volontà riuscii a raggiungere l’altra sponda, ma ero completamente esaurito. Durante la marcia, per la grande stanchezza, cadevo per terra anche se inciampavo in una leggera asperità del terreno. Occupammo tutti i villaggi della zona di Peskopia e poiché erano abitati per lo più da ballisti vennero date alle fiamme molte case; nella notte vedevamo questi villaggi bruciare e molti di noi pensavano alle tristi ma inevitabili conseguenze delle guerre che lanciano alla distruzione, gli uni contro gli altri, gli uomini di una stessa patria. Ed il mio pensiero correva all’Italia ove forse accadevano le stesse cose. Insieme ad un comandante di battaglione albanese stavo guar dando i villaggi in fiamme; gli feci notare come alla fine della guerra la Un italiano in Albania i7 maggior parte dell’Albania sarebbe andata distrutta, per opera dei tedeschi e dei ballisti che bruciavano le case dei partigiani e di quest’ultimi che per ritorsione bruciavano quelle dei ballisti. « Io non so spiegarmi », gli dissi, « come potete allora condannare noi italiani ed i tedeschi che abbiamo bru ciato le vostre case, quando fate altrettanto fra di voi ». « Forse siamo an che troppo buoni con i ballisti », egli mi rispose, « perchè essi sono alleati dei tedeschi, tradendo la Patria, ed hanno commesso, insieme agli invasori, le più grandi atrocità contro i partigiani ed i loro amici ». Questo era ve rissimo ed i partigiani albanesi avevano più che ragione di effettuare rap presaglie contro i ballisti, ma ciò non m’impediva di pensare che, se gli uomini volessero, anche se non riuscissero ad evitare le guerre, tra nazioni o fratricide, potrebbero, per lo meno, condurle in maniera più umana. Eravamo giunti ormai alla fine del luglio 1944. In un villaggio incon trai il commissario del Battaglione Gramsci, D’Angelo Alfredo, che mi dette la triste notizia della morte in combattimento del comandante Cardinali. Come sempre, primo fra i primi, con l’entusiasmo ed il coraggio che gli erano abituali, egli si era lanciato, alla testa di una compagnia, contro una munitissima posizione tedesca e mentre assaporava la gioia della vittoria, essendo il nemico in fuga, venne colpito alla fronte da una raffica di mi tragliatrice che lo fulminò all’istante. Il partigiano Consiglio Rocco di Roc canova (Potenza), visto cadere il proprio comandante corse verso di lui, nel tentativo di soccorrerlo o di recuperarne il cadavere, ma una nuova raffica troncò il suo gesto generoso e la sua vita. Scompariva con Cardinali il più valoroso dei partigiani italiani in Albania: le sue spoglie giacciono oggi nella natia S. Giovanni Valdarno ed il suo ricordo rimarrà indelebile nel- l’animo di quanti lo conobbero e stimarono. Il vice comandante del Battaglione Gramsci, Monti Giuseppe, già ser gente maggiore della Divisione Firenze, nativo di Montecatini Terme, pre se il comando del glorioso reparto. Anche Monti era un valoroso combat tente e durante un’azione contro i tedeschi era stato ferito gravemente da una pallottola che gli aveva perforato il polmone. In quell’occasione lo con siderarono spacciato, ma per quei miracoli che aiutano i prodi, riuscì a so pravvivere e a migliorare e, malgrado queste sue minorate condizioni fi siche, seguitava a combattere con uno stoicismo davvero ammirevole. Il commissario di battaglione D’Angelo venne sostituito dal partigiano Bru netti Bruno di Firenze; vice comandante del battaglione fu nominato il serg. magg. Cavallotto G. Battista, già comandante di una compagnia; que sti era un ottimo elemento, dotato di una grande serietà che esercitava un forte ascendente sui partigiani. L’occupazione di Peskopia. - Dopo diversi giorni di aspri com battimenti riuscimmo ad occupare Peskopia, scacciandone tedeschi e ballisti. Cercammo di spingerci verso Dibra e di conquistare un’altura che ci avrebbe facilitato il compito dell’occupazione di questa città. In tale 18 Mario Fantocci altura si erano ritirati i nostri nemici, decisi ad opporre la più strenua resi' stenza; eravamo quasi sul punto di raggiungere l’obiettivo ma, o per er- rore nostro, o per la maggior potenza di fuoco avversaria, dovemmo ripie- gare precipitosamente ed abbandonare anche Peskopia che venne rioccupata dai tedeschi e ballisti: durante la ritirata venimmo continuamente sotto posti al fuoco nemico e molti partigiani rimasero uccisi o feriti. Con la stanchezza che provavo non riuscivo a tener dietro ai miei compagni e, ri masi buon ultimo, ma, in compenso, invece di correre all’impazzata, come gli altri, che più facilmente venivano colpiti, io andavo a zig zag sfruttando le asperità del terreno, in special modo dei grossi blocchi di pietra, sparsi lungo il letto di un torrente asciutto. Potei così, non solo raggiungere in colume i miei compagni, ma essere anche elogiato dal comandante albanese, per il coraggio e per la calma dimostrati; il tutto dovuto, in verità, alla stanchezza, che non mi permetteva di correre più forte. La situazione era diventata la seguente: Peskopia e le sue immediate vicinanze erano in mano dei tedeschi e dei ballisti, tutta la zona circostante, in mano nostra. Prima di tentare nuovamente l’attacco contro Peskopia e Dibra bisognava riordinarci e rafforzarci ed infatti trascorremmo un periodo d’intensa pre parazione, durante il quale ci cibammo soltanto di pane di granturco e di frutta, in special modo susine, perchè non si trovava altro; soltanto in ra rissime occasioni mangiammo della carne. Questo genere di cibo mi pro curò una forte dissenteria che mi durò più di due mesi e ci mancò fioco che non mi conducesse alla tomba. Intanto eravamo pronti per il nuovo attacco contro Peskopia e questa volta intenzionati a conquistare e a mantenere la città in ogni modo: l’at tacco riuscì benissimo, e tanto il nemico che noi subimmo forti perdite. In questi combattimenti cadde valorosamente il ten. Finesi Pietro di Roma, inquadrato in un reparto della gloriosa I Brigata albanese, ed anche altri italiani morirono in tali azioni ed il contributo dei nostri connazionali alla vittoria fu fortissimo. Occupata Peskopia, venne presidiata dalla V Brigata, mentre la 1 e la IV, insieme ad una brigata jugoslava, furono lanciate alla conquista di Dibra. Gli jugoslavi desideravano partecipare all’occupazione di questa città, con la manifesta intenzione di riaffermare la loro sovranità su di essa, dato che il Governo italiano, durante l’occupazione, l’aveva an nessa all’Albania. Dibra era presidiata da circa quattrocento tedeschi, do tati di carri armati, autoblinde, cannoni anticarro, mitragliere da 20 mm., mortai ed altre armi modernissime ed efficaci; non era perciò un’impresa facile conquistarla, anche perchè le forze partigiane non disponevano che di qualche lancia-bombe anticarro, di una batteria di artiglieria da 65/13 e di armi automatiche e fucili. Il primo attacco venne infatti respinto con forti e dolorose perdite da parte nostra: anche il comandante del mio battaglione, Zya Kambo, ri mase ferito gravemente. Non ci scoraggiammo per questo e seguitammo ad attaccare, circondando il nemico ed assediandolo nella sua caserma. In tanto la nostra brigata, dopo circa una settimana d’assedio a Dibra, ebbe
Description: