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Un Capitano Di 15 Anni PDF

245 Pages·1949·1.25 MB·Italian
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Traduzioni telematiche a cura di Rosaria Biondi, Nadia Ponti, Giulio Cacciotti, Vincenzo Guagliardo (Casa di Reclusione - Opera) Jules Verne. UN CAPITANO DI 15 ANNI. Terza edizione 1991. Titolo originale dell'opera: "Un capitaine de quinze ans". Traduzione dal francese di Giacinta De Dominicis Jorio. Introduzione di Luigi Giovannini. Copyright 1986 EDIZIONI PAOLINE. Su concessione EDIZIONI PAOLINE. INDICE. Introduzione: pagina 5. PARTE PRIMA: pagina 16. 1. Il brigantino-goletta "Pilgrim". 2. Dick Sand. 3. Il relitto. 4. I superstiti del "Waldeck". 5. S.V. 6. Una balena in vista! 7. Preparativi. 8. La «jubarte». 9. Il capitano Sand. 10. I quattro giorni successivi. 11. Tempesta. 12. All'orizzonte. 13. Terra! Terra! 14. Che cosa è meglio fare. 15. Harris. 16. In cammino. 17. Cento miglia in dieci giorni. 18. La parola terribile! Note alla prima parte: pagina 279. PARTE SECONDA: pagina 280. 1. La tratta. 2. Harris e Negoro. 3. In cammino. 4. I pericolosi sentieri dell'Angola. 5. Lezione sulle formiche in un formicaio. 6. La campana del palombaro. 7. Un accampamento sulle rive della Cuanza. 8. Alcune annotazioni di Dick Sand. 9. Kazonndé. 10. Un giorno di grande mercato. 11. Un punch offerto al re di Kazonndé. 12. Seppellimento regale. 13. L'interno di uno stabilimento. 14. Alcune notizie sul dottor Livingstone. 15. Dove può condurre una manticora. 16. Un «mgannga». 17. Alla deriva. 18. Incidenti vari. 19. S. V. 20. Conclusione. Vocabolarietto (a cura della Traduttrice): pagina 563. Note alla seconda parte: pagina 567. INTRODUZIONE. Jules Verne: una vita per le lettere. Jules Verne nacque a Nantes, in Francia, l'8 febbraio 1828. Il padre era avvocato; la madre proveniva da una famiglia di armatori e navigatori e trasmise al figlio l'amore per i viaggi. Sognatore per indole e amante dell'avventura, a soli undici anni Jules cercò di imbarcarsi come mozzo su una nave diretta in India per potervi acquistare una collana di coralli da regalare alla cugina Carolina, il suo primo amore. Scoperto in "extremis" dal padre, e riacciuffato all'ultimo scalo della nave prima di affrontare l'Oceano, fu ricondotto a casa e costretto a promettere che da allora in poi avrebbe viaggiato solo con la fantasia. Ma la passione per il mare doveva essergli rimasta nel sangue, se molti anni dopo, quando era ormai uno scrittore affermato e percepiva lauti guadagni dai propri libri, compì lunghi viaggi a bordo dei suoi battelli, i "Saint-Michel primo", secondo e poi terzo. Nel 1848 Jules si iscrisse alla facoltà di diritto e si trasferì a Parigi; lì cominciò a scrivere per il teatro e nel 1850 riuscì a far mettere in scena un suo lavoro teatrale, "Les pailles rompues" (Le paglie rotte), che ebbe un discreto successo. Dopo aver sposato nel 1856 una vedova ventiseienne madre di due bambine, che cinque anni dopo gli avrebbe dato Michel, Verne continuò a scrivere con varia fortuna soprattutto per il teatro. L'anno decisivo per la sua vocazione di scrittore fu il 1862, quando presentò all'editore Hetzel il romanzo "Cinque settimane in pallone", con il quale ha inizio la serie de "Les voyages extraordinaires", destinati ad avere un immenso successo presso il pubblico giovanile. A questo libro ne seguiranno numerosi altri: "Le avventure del capitano Hatteras", "Viaggio al centro della Terra", "Dalla Terra alla Luna", "I figli del capitano Grant", "Ventimila leghe sotto i mari", "L'isola misteriosa", "Il giro del mondo in 80 giorni", "Michele Strogoff", ognuno dei quali è ancor oggi letto e amato da milioni di ragazzi in tutto il mondo. Verne scrisse ininterrottamente, con vena inesauribile e immutata curiosità verso i casi della vita e le scoperte della scienza, fino agli ultimi giorni della sua esistenza. «Quando non lavoro, non mi sento più vivere», confidò a Edmondo De Amicis (l'autore di quel capolavoro che è "Cuore"), andato a trovarlo poco prima che Jules si spegnesse, ad Amiens, il 24 marzo 1905. Un figlio quindicenne niente affatto «modello». Jules Verne cominciò a scrivere "Un capitano di quindici anni" nel 1876 e lo pubblicò nel 1878. A quell'epoca, quindi, suo figlio Michel, nato il 3 agosto 1861, stava doppiando la boa dei quindici anni. Si potrebbe dunque pensare che, nel delineare il personaggio di Dick Sand (così si chiama il protagonista di questo romanzo), Verne si sia ispirato al figlio. In realtà sembra vero il contrario, cioè che lo scrittore abbia costruito il suo personaggio per fornire a Michel e ai suoi coetanei un «modello» di coraggio, fermezza e lealtà da seguire e cercare di imitare. Michel infatti aveva proprio bisogno di essere richiamato all'ordine, se pensiamo agli infiniti grattacapi che diede ai genitori praticamente per tutta la vita. Figlio unico di Jules e di Honorine- Anne-Hébé Morel, già a tredici anni aveva dovuto essere collocato in un istituto di correzione. Ma anche dopo questa brutta esperienza e la «lezione» impartitagli dal padre attraverso il personaggio Dick Sand, Michel continuò a comportarsi come uno scavezzacollo. Nel 1878 il padre, illudendosi di riuscire a educarlo con una dura disciplina, lo fece imbarcare a Bordeaux su un mercantile come allievo ufficiale. Ma già l'anno dopo Michel, innamoratosi di un'attrice del "Théatre municipal", chiese al padre di essere dichiarato maggiorenne per poterla sposare. L'unione durò poco e si risolse in un divorzio quando nella vita del giovane comparve Jeanne, che gli diede tre figli e riuscì a mettere ordine nella sua esistenza. Per questo Jules Verne nutrì un tenero e lungo affetto per la giovanissima nuora, e lo dimostrò anche dando il suo nome all'eroina del romanzo che stava scrivendo in quegli anni, "Famille sans nom". Ma le sventure non erano ancora finite. Proprio mentre il padre stava dando gli ultimi tocchi a questo libro, Michel scrisse in inglese il romanzo fantascientifico "Un giornalista americano del 2889", che pubblicò con il nome del padre sul giornale newyorkese "The Forum". Nel 1892 dovette ancora ricorrere al padre - e non era la prima volta - per poter far fronte ai debiti che aveva contratto... Insomma, Michel non fu mai, né a quindici anni né dopo, quello che si suol definire un «figlio modello». Dick Sand, frutto della fantasia di Jules Verne, ha invece tutte le qualità per essere un esempio concreto per un adolescente. La sua prestanza fisica, le sue capacità di intuizione e di volontà e la sua intelligenza sono certamente notevoli, come si conviene all'eroe di tante appassionanti avventure, ma non sono sproporzionate né inverosimili. Lo stesso Dick, anzi, dovrà riconoscere, nel corso della vicenda narrata in questo romanzo, di avere una notevole responsabilità per i guai che lui e i suoi compagni hanno dovuto affrontare. Da un mare all'altro. Dick Sand deve riconoscere di non essere stato, nonostante tutto, un buon «capitano», soprattutto perché ha commesso due grossi errori. Il primo è un errore tecnico e il secondo è un errore di valutazione delle persone. Il primo, quello tecnico, è consistito nell'incapacità di valutare la direzione e la velocità del "Pilgrim", la sua goletta, dopo che il solcometro e la bussola di verifica erano andati fuori uso. Per quanto la cosa possa parere strana, il "Pilgrim", in un grande balzo causato dall'imperversare di una tremenda bufera, passa senza che il «capitano» se ne avveda dall'Oceano Pacifico all'Atlantico e va a naufragare non sulle coste dell'America Meridionale, come era prevedibile, ma su quelle dell'Angola, in un'Africa ben più pericolosa per tutti gli ospiti della goletta e particolarmente per i negri che hanno ottenuto un passaggio dopo un drammatico naufragio. La seconda colpa che Dick Sand deve confessare è quella di non essersi subito reso conto della malizia che albergava nel cuore di Negoro, il personaggio che i drammaturghi chiamerebbero il «deuteragonista», l'oppositore del protagonista. Questi è infatti come l'esatto rovescio del buon Dick Sand, è l'incarnazione del male e della perfidia che viene scoperta solo molto tardi, quando ha già causato danni infiniti, ma ancora in tempo tuttavia per essere severamente punita. Questa punizione si realizza poi con il concorso determinante di una creatura che abitualmente viene considerata priva di intelligenza, e che tuttavia appare nelle pagine del Verne dotata di buona memoria visiva e di un cuore delicatissimo, oltre che naturalmente, come i suoi «colleghi», di un olfatto sensibilissimo: il cane Dingo. Non vogliamo anticipare in queste pagine introduttive la vicenda raccontata dal Verne, perché uno dei pregi di questo romanzo è certamente il clima di suspense che vi si respira a più riprese. Diciamo solo che "Un capitano di quindici anni" è diviso molto nettamente in due parti. La prima parte è di carattere marinaresco, mentre la seconda ci fa rivivere con immediatezza uno dei principali drammi della storia: quello della tratta degli schiavi. Ecco qualche annotazione che consentirà di leggere con maggior gusto e frutto il romanzo verniano. A proposito della prima parte, si può osservare che il mare è stato certamente uno dei grandi amori del Verne. Un amore che cominciò molto presto, anche perché Jules era nativo di una città di mare: Nantes, dalla quale a quell'epoca salpavano i bastimenti diretti alle Antille francesi. Per la verità, Nantes non è bagnata direttamente dall'Oceano Atlantico, da cui è separata da una sessantina di chilometri. Tanti, infatti, sono i chilometri che la separano dal suo avamporto Saint- Nazaire. Fra l'una e l'altra città si distende un largo specchio d'acqua, la foce della Loira, da cui prende nome anche il dipartimento di cui Nantes è il capoluogo: Loire-Atlantique. A mezza strada tra Nantes e Saint-Nazaire vi è una località molto importante per la vita di Verne: fu a Paimboeuf infatti che l'undicenne Jules venne fermato giusto in tempo da suo padre, mentre si stava imbarcando come mozzo sul transatlantico "Coralie". I marinai, si sa, oltre ad avere avventure loro caratteristiche, hanno anche tutto un vocabolario speciale. Per questo la traduttrice di questo romanzo ha messo alla fine del libro un «vocabolarietto» che aiuterà coloro che non hanno molta consuetudine con quegli strani termini. Il problema degli schiavi. In questo nostro tempo, mentre ci avviamo rapidamente alla conclusione del secolo ventesimo, quando si parla di nero o «negro» (ma questo termine è carico di una sfumatura negativa), si affaccia subito un problema che è ben lungi dall'essere risolto. La diversità di razza è ancora troppo spesso connessa con l'idea di superiorità e di inferiorità. La colpa è stata anche di noi bianchi, perché la diversità del colore della pelle è stata presa a pretesto per ridurre degli uomini simili a noi a strumenti, servi, schiavi di altri uomini. Ci sono state nella storia almeno due grandi «ondate» di schiavismo. La prima è quella dell'epoca «classica», greco-romana; la seconda, che qui ci interessa più da vicino, è quella che prende avvio dalla scoperta dell'America, in modo speciale dalla metà del secolo sedicesimo, e viene definita «tratta atlantica». La schiavitù nel mondo antico era causata soprattutto da esigenze di carattere economico. Gli schiavi erano una forza-lavoro in qualche caso difficilmente sostituibile. Ma era fin troppo facile passare dallo «sfruttamento» al disprezzo. Eppure c'erano stati anche in campo pagano degli spiriti nobilissimi, che avevano contestato la schiavitù. Seneca, ad esempio (che ebbe la sventura di essere l'inascoltato pedagogo di Nerone), dichiarava nella sua "Epistola morale numero 47 a Lucilio": «"Sono schiavi". Sì, certo, ma sono anche uomini. "Sono schiavi". Sì, certo, ma abitano sotto il medesimo tetto. "Sono schiavi". Sì, certo, ma sono anche umili amici. "Sono schiavi". Sì, certo, ma sono anche compagni di schiavitù, se vuoi riflettere che il destino può su di te quanto su di loro». Ma è stato soprattutto il cristianesimo che dapprima ha svuotato l'istituzione della schiavitù del suo aspetto disumanizzante e poi ha avviato un diverso modo di gestire i rapporti fra gli uomini in forza di una fraternità che si basa sull'unicità e la paternità di Dio. Stranamente, l'inizio della schiavitù nei tempi moderni va attribuito proprio al senso di umanità di un domenicano spagnolo, Bartolomeo Las Casas. Questi aveva assistito in America Meridionale alla tragedia degli indios, che venivano sfruttati al di là di ogni sopportazione e costretti a lavorare in maniera disumana. Di qui il suggerimento, foriero di quali tragedie, di trapiantare nelle sconfinate piantagioni sudamericane dei negri africani, che apparivano più resistenti al calore e al ritmo del lavoro. Questa era del resto l'esperienza fatta ripetutamente dai musulmani dell'Africa Settentrionale. Quanti sono stati i negri africani che hanno perso così la loro patria e in moltissimi casi anche la vita? Non abbiamo ovviamente delle statistiche al riguardo, e perciò i vari studiosi hanno dato indicazioni diverse. La cifra più bassa, ma è davvero il minimo che si possa suggerire, è quella proposta dal Wiedner nel 1965: tre milioni e mezzo di individui. Il Coupland parla di un massimo di venti milioni, mentre altri calcoli attendibili parlano di circa dodici milioni di persone. Uno studioso americano, Philip Curtin, nel 1969 ipotizzava le seguenti cifre: dal 1450 al 1600, 274000 individui, con una media annua di 1800, senza calcolare quelli morti in viaggio; dal 1601 al 1700, vennero «sradicati» 1341100 individui, con una media annua di 13400; nel secolo diciottesimo, vennero strappati dalla loro terra, in Africa, almeno 6960000 individui e la media annuale fu perciò di 55000 persone. Le cifre non possono essere più precise nel secolo diciannovesimo, perché in concomitanza con l'avvio di un movimento di contestazione della schiavitù, che venne progressivamente soppressa in tutte le nazioni civili, ci fu un dilagare della tratta clandestina ancor più disumana, se possibile, e un intensificarsi della «tratta musulmana» nell'Africa Orientale. Uno degli studi più attendibili, "Storia della tratta dei negri" di Hubert Deschamps, pur riducendo a «soli» dieci milioni circa gli schiavi «accertati» della cosiddetta «tratta atlantica», parla di almeno venti milioni di individui trasformati in schiavi negli ultimi venti secoli. Una cifra davvero impressionante! E si trattava di creature umane, proprio come ciascuno di noi. Domandiamoci «di che lacrime grondi e di che sangue» la nostra storia, e particolarmente il nostro cosiddetto «progresso». "Un capitano di quindici anni" è di poco posteriore all'abolizione della schiavitù negli Stati Uniti (avvenuta in date diverse, a seconda degli Stati dell'Unione, tra il 1787 e il 1863, a conclusione della Guerra di secessione); in questo romanzo però Verne non si propone tanto di descrivere la condizione sociale degli schiavi, quanto piuttosto di raccontare una bella storia d'avventure fitta di colpi di scena e piena di suspense. L'autore vi delinea un personaggio credibile e coraggioso, che sa vincere le avversità grazie alla sua intelligenza, alla sua lealtà, alla sua forza d'animo e alla sua volontà. Un personaggio, insomma, in cui ci si possa identificare pienamente, per capire che le grandi mete, nella vita, si conquistano solo dando il meglio di se stessi. E' una lezione che potrà aiutare ogni ragazzo a diventare, se non lo è già, e anche se non ha esattamente quindici anni, un «capitano» capace di portare in salvo se stesso e gli altri nella difficile navigazione della vita. LUIGI GIOVANNINI. PARTE PRIMA. IL BRIGANTINO-GOLETTA PILGRIM. Il 2 febbraio 1873, il brigantino-goletta "Pilgrim" navigava a 43 gradi 57 primi di latitudine sud e a 165 gradi 19 primi di longitudine ovest del meridiano di Greenwich. Il "Pilgrim", di quattrocento tonnellate, costruito a San Francisco per la pesca oceanica nei mari australi, apparteneva al ricco armatore californiano James W. Weldon, il quale, già da parecchi anni, ne aveva affidato il comando al capitano Hull. Il "Pilgrim" era una delle più piccole, ma migliori navi della flottiglia che James W. Weldon inviava ogni anno, tanto oltre lo Stretto di Bering sino ai mari boreali, quanto nella Tasmania e al Capo Horn sino all'Oceano Antartico. Esso navigava in modo eccellente: la sua attrezzatura assai maneggevole gli permetteva di avventurarsi con pochi uomini sino alle impenetrabili banchise dell'emisfero australe. Il capitano Hull sapeva «cavarsela a meraviglia», come dicono i marinai, in mezzo ai ghiacci che durante l'estate vanno alla deriva presso la Nuova Zelanda e il Capo di Buona Speranza, a una latitudine molto più bassa di quella che essi raggiungono nei mari settentrionali del globo. Vero è che là si tratta di "icebergs" di non molto grandi dimensioni, consumati dagli urti e in parte fusi dalle acque calde, che vanno a sciogliersi definitivamente nel Pacifico o nell'Atlantico. Agli ordini del capitano Hull, ottimo marinaio e uno dei più abili fiocinieri della flottiglia, stava un equipaggio composto di cinque marinai e di un mozzo, equipaggio certo insufficiente per la pesca alle balene, che richiede un personale piuttosto numeroso: sono necessari, infatti, parecchi uomini, sia per la manovra delle imbarcazioni d'attacco, sia per squartare gli animali catturati; ma, seguendo l'esempio di taluni armatori, James W. Weldon riteneva molto più economico imbarcare a San Francisco soltanto i marinai indispensabili a condurre il bastimento, poiché la Nuova Zelanda non mancava certamente né di fiocinieri, né di marinai di ogni paese, né di disertori, né di disoccupati in cerca di un lavoro stagionale e che esercitavano il mestiere di pescatori con una certa abilità. Terminato il periodo di pesca, essi venivano pagati e licenziati, e attendevano sul luogo che le baleniere tornassero a richiedere i loro servizi. Con questo sistema si otteneva un migliore impiego dei marinai disponibili e un maggiore profitto dal loro lavoro. E così si era fatto sul "Pilgrim". Il brigantino-goletta aveva trascorso la stagione di pesca sui confini del Circolo Polare Antartico, ma non era riuscito a fare il pieno di barili d'olio, di fanoni grezzi e di fanoni tagliati, giacché la pesca era diventata difficile: i cetacei cominciavano a farsi rari a causa dell'eccessiva caccia che si dava loro. La balena franca, che porta il nome di «nord caper» nell'Oceano Boreale e quello di «salpherboltone» nei Mari del Sud, tendeva a scomparire. I pescatori avevano dovuto accontentarsi della «fin-back» o «jubarte», gigantesco mammifero, i cui assalti non sono privi di pericoli. Così aveva deciso di fare, durante l'ultimo viaggio, il capitano Hull, che però contava, per il prossimo, di raggiungere una più alta latitudine e, se occorreva, di portarsi sino in vista di quelle Terre di Claire e Adelia, la cui scoperta, rivendicata dall'americano Wilkes, appartiene ormai, senza alcun dubbio, all'illustre comandante dell'"Astrolabe" e della "Zélée", il francese Dumont d'Urville. In conclusione, la stagione non aveva avuto esito felice per il Pilgrim. All'inizio di gennaio, ossia verso la metà dell'estate australe, e benché non fosse ancora giunta per le baleniere l'epoca del ritorno, il capitano Hull era stato costretto ad abbandonare i luoghi di pesca poiché il suo equipaggio avventizio era costituito da un complesso di cattivi soggetti che gli avevano dato, come si dice, «del filo da torcere», e dei quali aveva deciso di liberarsi. Il "Pilgrim" fece quindi rotta verso nord-ovest, e il 15 gennaio si trovò in vista delle terre della Nuova Zelanda. Giunse a Waitemata, porto di Auckland, situata in fondo al golfo di Hauraki, sulla costa est dell'isola settentrionale, e qui sbarcò i pescatori che aveva ingaggiati per la stagione. L'equipaggio effettivo, però, non era soddisfatto: mancavano almeno duecento barili d'olio al carico completo della nave. Una pesca peggiore non era stata fatta mai! Il capitano Hull rientrava dunque deluso, come un bravo cacciatore che, per la prima volta, torna con il carniere vuoto... o quasi. Era in gioco il suo vivo amor proprio, ed egli non perdonava a quei facinorosi, la cui insubordinazione aveva compromesso il risultato della pesca. Invano cercò di reclutare ad Auckland un nuovo equipaggio: poiché tutti i marinai disponibili erano già stati imbarcati su altre baleniere, il capitano Hull dovette rinunziare alla speranza di completare il carico del "Pilgrim", e si disponeva già ad abbandonare definitivamente Auckland, allorché gli fu richiesto un passaggio sulla sua nave, passaggio che non poté rifiutare. La signora Weldon, moglie dell'armatore del "Pilgrim", con il figlio Jack, un bimbo di cinque anni, e un parente che tutti chiamavano «cugino Bénédict», si trovava allora ad Auckland. James W. Weldon, che il suo commercio costringeva talvolta a recarsi nella Nuova Zelanda, li aveva condotti tutti e tre con sé, contando di riportarli a San Francisco, ma, al momento in cui la famiglia doveva partire, il piccolo Jack si era ammalato gravemente e il padre, richiamato d'urgenza in patria dai suoi affari, era stato costretto ad abbandonare Auckland, lasciando in quella città la moglie, il figlio e il cugino Bénédict. Tre mesi erano trascorsi da allora, tre lunghi mesi di separazione estremamente dolorosa per la signora Weldon; il fanciullo, però, si era fortunatamente ristabilito del tutto, ed ella era ormai in condizioni di mettersi in viaggio, quando le fu segnalato l'arrivo del "Pilgrim". In quell'epoca, per ritornare a San Francisco, la signora Weldon avrebbe dovuto recarsi sino in Australia per potersi imbarcare su uno dei bastimenti della «Compagnia transoceanica del "Golden Age"» che fanno il servizio da Melbourne all'istmo di Panama attraverso Papeete e, giunta a Panama, attendervi la partenza della nave americana che fa regolare servizio tra l'istmo e la California. Tutto ciò comportava ritardi e trasbordi, sempre spiacevoli per una donna e un bambino. Fu proprio allora che il "Pilgrim" fece scalo ad Auckland, e la signora Weldon non esitò a pregare il capitano Hull di prenderla a bordo per ricondurla a San Francisco con il figlio, il cugino Bénédict e Nan, una vecchia negra che aveva al suo servizio sin da quando era bambina. Tremila leghe da percorrere su un veliero! Ma il bastimento del capitano Hull era ben attrezzato e la stagione ancora tanto bella dalle due parti dell'equatore! Il capitano Hull acconsentì alla richiesta e mise la propria cabina a disposizione della passeggera poiché voleva che, durante la traversata che poteva durare dai quaranta ai cinquanta giorni, la signora Weldon si trovasse il più possibile a suo agio a bordo della baleniera. La signora Weldon aveva senza dubbio molti vantaggi a effettuare la traversata in simili condizioni, salvo l'inconveniente che il "Pilgrim" doveva fare scalo nel Cile, a Valparaiso, per consegnare il suo carico, il che prolungava la durata del viaggio. Dopo questo, però, non avrebbe dovuto far altro che risalire la costa americana, spinto dal vento di terra che rendeva la navigazione molto piacevole. Del resto, la signora Weldon, donna coraggiosa sulla trentina, che non temeva affatto il mare, che godeva di un'eccellente salute e che era abituata ai viaggi di lungo corso, avendo spesso condiviso con il marito le fatiche di parecchie traversate, non si preoccupava delle possibili avventure a bordo di una nave di medio tonnellaggio; inoltre conosceva il capitano Hull come abilissimo uomo di mare, nel quale il signor Weldon aveva piena fiducia. Il Pilgrim era una nave solida, bene attrezzata, veloce e ritenuta una delle migliori baleniere della flottiglia americana. L'occasione si presentava: bisognava approfittarne, e la signora Weldon ne approfittò. Il cugino Bénédict, naturalmente, doveva accompagnarla. Questo cugino era una brava persona che però, nonostante i suoi cinquant'anni, non sarebbe stato prudente lasciare uscire da solo. Lungo più che alto, stretto più che magro, il viso ossuto, l'enorme cranio ricoperto da una folta chioma, richiamava subito al pensiero la figura di uno di quegli scienziati dagli occhiali d'oro, buoni e inoffensivi, destinati a rimanere bambini per tutta la vita e a raggiungere una tarda vecchiaia: centenari bambini, insomma! Il cugino Bénédict, come lo si chiamava invariabilmente anche al di fuori della famiglia, era in verità uno di quegli uomini che hanno l'aria di essere nati cugini di tutti! Impacciato dalle sue lunghe braccia, egli sarebbe stato incapace di cavarsela da solo anche nelle circostanze più semplici della vita. Non era fastidioso, no davvero, ma piuttosto imbarazzante per gli altri e imbarazzato per se stesso. Non aveva pretese, si accontentava di tutto e si dimenticava addirittura di mangiare e di bere, se non gli si portavano cibo e bevande; insensibile al freddo e al caldo, pareva appartenere al mondo vegetale più che a quello animale. Immaginate un albero perfettamente inutile, senza frutti e quasi senza foglie, incapace di dare nutrimento e di offrire ombra, ma con un grande cuore. Così era il cugino Bénédict... Volentieri si sarebbe reso utile al prossimo se, come direbbe il signor Prudhomme, fosse stato capace di farlo! In conclusione, gli si voleva bene proprio per la sua debolezza... La signora Weldon lo considerava un figliuolo... un fratello maggiore del piccolo Jack. A questo punto, tuttavia, occorre aggiungere che il cugino Bénédict non era un ozioso, né un disoccupato: al contrario, era un lavoratore, assorbito completamente dalla storia naturale, sua unica passione. Dire «storia naturale» è forse troppo! Sappiamo che le diverse parti che compongono questa scienza sono la zoologia, la botanica, la mineralogia e la geologia, e il cugino Bénédict non era, ad alcun livello, né zoologo, né botanico, né mineralogista, né geologo; era dunque uno zoologo in tutto il significato della parola, una specie di Cuvier del Nuovo Mondo che scomponesse l'animale con l'analisi e lo ricomponesse con la sintesi, uno di quei profondi conoscitori, versatissimi nello studio dei quattro tipi ai quali la scienza moderna riconduce tutto il mondo animale: vertebrati, molluschi, articolati e radianti? Di questi quattro tipi l'ingenuo, ma studioso scienziato aveva forse osservato le diverse classi e studiato ordini, famiglie, tribù, generi, specie, varietà che li distinguono? Assolutamente no! Il cugino Bénédict si era dedicato allo studio dei vertebrati dei mammiferi, degli uccelli, dei rettili e dei pesci? Nemmeno per sogno! Era dunque nello studio dei radianti, degli echinodermi, degli acalefi, dei polipi, degli spingiari, degli infusori, che egli aveva bruciato l'olio della sua lampada? Dobbiamo confessare che non erano i radianti! E ora, poiché non ci rimane che citare, in zoologia, la classe degli

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