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Un bacio alla cannella PDF

213 Pages·2010·0.85 MB·Italian
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Un bacio alla cannella Walter Mosley Traduzione di Carlo Alberto Rizzi Titolo originale Cinnamon Kiss © 2005 Walter Mosley © 2010 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino ISBN 978-88-06-19832-9 a Ossie Davis nostro splendente re 1. - Insomma, è semplice, - stava dicendo Mouse. Sorrise, e il diamante incastonato in un incisivo scintillò nella penombra. Il Cox Bar era sempre al buio, anche in quel pomeriggio assolato d'aprile. La luce fioca e le sedie vuote lo rendevano il luogo perfetto per quel genere di affari. - Noi arriviamo alle quattro e mezzo del mattino, - proseguì Mouse, - e aspettiamo. Quando si fanno vivi i pezzi di merda, tu punti la pistola alla nuca di quello che entra per ultimo. Lui è quello col fucile a pompa. Gli dici di metterlo giù poi… - E se vuol fare l'eroe? - Non lo farà. - Ma se si agita e gli parte un colpo? - Non accadrà. - Come cazzo fai a saperlo, Raymond? - chiesi al mio vecchio amico. - Che ne sai di cosa farà il polpastrello di un tizio a Palestine, Texas, fra tre settimane? - Vi va qualcosa per bagnarvi le labbra, ragazzi? - domandò la barista, Ginny Wright. La domanda suonò maliziosa. Fu sorprendente vedere sbucare quel donnone dalle tenebre della sala sgombra. Ginny aveva la pelle scura e portava una parrucca dorata. Non bionda: proprio del colore dell'oro. Stava solo chiedendo se volevamo da bere ma, quando parlava con gli uomini, Ginny riusciva a infilare un po' di sesso in ogni frase. - Una coca, - risposi a voce alta, chiedendomi se avesse sentito Mouse esporre il piano. - E per il signor Alexander, - aggiunse lei, - whiskey di segale in bicchiere ghiacciato -. Conosceva i gusti del suo miglior cliente: teneva cinque bicchieri da liquore sempre in freezer, pronti per il suo piacere. - Grazie, Gin, - disse Mouse, e le donò un riverbero di sorriso a un carato. - Non è meglio se ne parliamo in un altro posto? - azzardai, mentre Ginny andava a preparare i drink. - Che cazzo di bisogno c'è? - sbottò. - Questo è il mio ufficio, come tu hai il tuo sulla Central. Mica devi preoccuparti di Ginny: lei non sente e non dice niente. Ginny Wright aveva più di sessant'anni. Da giovane aveva fatto la prostituta a Houston, Raymond e io la conoscevamo da quei tempi. Aveva sempre avuto un debole per Mouse. Ora era la sua migliore amica. Da come lo guardava capivi che avrebbe voluto di più, ma si accontentava di fare spazio nella sua tana, perché Raymond vi conducesse i suoi affari. Quel pomeriggio aveva appeso all'ingresso un cartello: CHIUSO PER FESTA PRIVATA. La scritta sarebbe rimasta là finché non avessi venduto l'anima per una sacca di quattrini rubati. Ginny ci portò da bere e tornò all'alto tavolo che faceva da bancone. Mouse stava ancora sorridendo. Al buio, la pelle chiara e gli occhi grigi gli davano un'aria spettrale. - Non preoccuparti, Ease, - disse. - Fidati, perché il coglione è una garanzia. - Dico solo che non puoi prevedere come reagirà uno con un fucile se gli arrivi alle spalle e gli appoggi una canna fredda alla nuca. - Tanto per cominciare, - fece Mouse, - quel giorno Rayford non avrà pallettoni nella spingarda, e penserà solo a te che gli arrivi da dietro. Perché Rayford sa già come deve andare: a quel punto il suo compare Jack Minor si gira per vedere che cazzo succede, e appena lo fa io lo stendo, e a quel punto io e te avremo un po' di peso da portare. In quel portavalori non ci saranno meno di duecentocinquantamila, e metà sarà tua. - A te sembra una gran cosa che conosci i nomi di quei tizi, - dissi, alzando la voce più di quanto avrei voluto. - Ma se tu conosci loro, loro conoscono te. - No che non mi conoscono, Easy, - disse Mouse. Mise il braccio dietro lo schienale della sedia. - E metti caso che mi conoscano, di certo non conoscono te. - Mi conosci tu, però. La frase cancellò dalle sue labbra il ghigno compiaciuto. Si chinò in avanti e giunse le mani. Quel gesto avrebbe intimidito molti conoscenti del mio amico ammazzasette, ma io non avevo paura. Non che non mi spaventasse la morte certa, né c'era dubbio che Raymond «Mouse» Alexander fosse la morte personificata, ma in quel frangente avevo problemi che andavano oltre me stesso e la mia mortalità. - So che non faresti il mio nome, Ray - gli dissi. - Ma gli sbirri sanno che ci frequentiamo. Se vado fino in Texas con te e rapiniamo un portavalori, e se poi Rayford fa il tuo nome, quelli mi vengono a cercare. E questo il punto. Ricordo che le sue sopracciglia si alzarono, forse di un quinto di pollice. Di fronte a certi pericoli, ti accorgi pure dei gesti più piccoli. Lo avevo visto in azione, Raymond: poteva uccidere un uomo e subito dopo farsi una pennichella, senza il minimo turbamento. L'alzata di sopracciglia voleva dire che si era calmato, che non c'era bisogno di perdere le staffe. - Rayford non mi ha mai visto, - disse, riappoggiando la schiena alla sedia. - Non sa come mi chiamo né da dove vengo, e nemmeno dove andrò dopo aver fregato i soldi. - Com'è che si fida di te, allora? - domandai. Mi accorsi che stavo parlando come quando ero un giovane duro nel ghetto di Fifth Ward, a Houston. Forse sentivo il bisogno di proteggermi con la spavalderia. - Ti ricordi di quand'ero dentro per quella storia di omicidio preterintenzionale? - mi chiese. Mouse si era fatto cinque anni in un carcere di massima sicurezza. - Gran brutta storia, quella, - proseguì. - Lo sai che non voglio finirci ancora. Voglio dire che gli sbirri devono proprio ammazzarmi, prima che io torni al gabbio Ma anche dalle storie brutte può venire qualcosa di buono. Mouse tracannò il whiskey triplo e alzò il bicchiere. Sentii Ginny scattare per portargliene subito un altro. - Quand'ero dietro le sbarre, ho saputo di un gruppo molto speciale. Era quello che chiameresti un «sindacato». - Tipo la mafia? - chiesi. - Nah, uomo. Al confronto quello è un circoletto. Questi sono affari seri. C'è un fratello, a Chicago, che manda uomini in giro per il paese a scovare occasioni. Banche, portavalori, partite di poker segrete, qualunque situazione dove girino grosse somme in contanti, duecentocinquantamila o anche di più. 'Sto figaccione manda i suoi ragazzi a prendere i contatti, poi dà il lavoro a qualcuno fidato -. Mouse sorrise ancora. Si diceva che il diamante fosse un regalo di un bianco ricco, una star del cinema che aveva tirato fuori da certi casini. - Eccoti servito, baby, - disse Ginny, appoggiando il bicchiere ghiacciato sul tavolino. - Tu vuoi qualcos'altro, Easy? - No, ti ringrazio, - dissi, e lei se ne andò. I suoi passi non facevano rumore, sentivi solo il fruscio dei pantaloni neri di cotone. - Allora è questo tizio che ti conosce, - dissi. - Eeeeasyii, - cantilenò Mouse in un tono d'esasperazione. - Sei tu che sei venuto da me perché ti servono cinquantamila dollari, giusto? Bene, qui li trovi, e forse pure di più. Io stendo Jack Minor, Rayford si lascia picchiare in testa, noi prendiamo i soldi ed è fatta. La tua parte te la do subito. Avevo la lingua asciutta. Ingollai il bicchiere di coca, ma non servì a niente. Misi in bocca un cubetto di ghiaccio, ma era come se lo leccassi con una striscia di cuoio secco. - Rayford come viene pagato? - gli chiesi, senza smettere di ciucciare il ghiaccio. - E a te che te ne frega? - Voglio sapere perché ci fidiamo di lui. Mouse scosse il capo e si mise a ridere. Una risata vera, divertita e amichevole. Per un istante sembrò una persona normale, non il cattivone super- cool del ghetto, tanto duro da non scomporsi mai e non sembrare nemmeno umano. - Il tizio di Chicago sceglie sempre gente che ha qualcosa da nascondere. Trova un po' di merda sul loro conto, poi li paga in anticipo e gli fa capire che se cantano sono morti. Un puzzle perfetto, ogni pezzo al suo posto. Mouse aveva una risposta per ogni mia domanda. Del resto, c'era da aspettarselo: era il criminale perfetto. Un killer privo di coscienza, un guerriero senza paura. Il suo QI poteva essere stratosferico, per quel che ne sapevo, ma anche in caso contrario, aveva una tale dedizione per il suo lavoro che, quando si trattava di violare la legge, ben pochi avrebbero potuto far meglio. - Non voglio che qualcuno ci lasci la pelle, Raymond. - Non morirà nessuno, Ease. Due persone con un po' di emicrania, niente di più. - E se Rayford fa il coglione e spende subito tutti i soldi? - chiesi. - Metti che gli sbirri pensano che sia coinvolto… - Metti che i Russi sganciano l'atomica su L.A. - ribatté Mouse. - Metti che stai guidando sulla Pacific Coast Highway, ti viene un infarto e vai giù dal burrone. Cazzo, Easy, potrei andare avanti così finché non tiriamo le cuoia, ma devi avere un po' di fede, fratello. E anche se Rayford facesse il coglione e si tirasse addosso gli sbirri, non c'entra niente con quello che devi fare tu. Ovviamente, aveva ragione. Quello che dovevo fare io era il motivo per cui mi trovavo lì. Non volevo essere preso e non volevo che morisse nessuno, ma erano rischi che dovevo correre. - Fammici pensare, Ray, - gli dissi. - Ti chiamo domattina, è la prima cosa che farò. 2. Uscito dal Cox Bar, percorsi il vicoletto e girai a sinistra sulla Hooper. Vista la natura dell'incontro, avevo parcheggiato tre isolati più in là. Non era come fare la spesa, o parcheggiare di fronte alla scuola in cui lavoravo: quella era roba seria, del genere che ti fa sbattere al fresco e quando esci tua figlia è adulta. Il sole batteva, ma un refolo di vento tagliava il caldo. Era una bella giornata, se non guardavi i negozi bruciati o con assi inchiodate alla porta, eredità della rivolta di Watts. Era passato meno di un anno. Per strada c'era poca gente, e avevano tutti un'aria triste e amareggiata. Erano perlopiù poveri, disoccupati oppure sposati con qualcuno che lo era, e si stavano accorgendo che California e Mississippi erano due stati fratelli nella stessa Unione, membri del medesimo clan. Sapevo cosa provavano: per più di quarant'anni ero stato come loro. Sì, forse nella vita avevo combinato un poco di più: me n'ero andato da Watts, avevo un impiego fisso, la mia compagna e convivente era una hostess dell'Air France e mio figlio aveva una barca tutta sua. Avevo avuto successo, se pensavo a com'ero partito, ma adesso era cambiato tutto. Non ero che uno spettro, e mi aggiravo per le strade che un tempo erano state casa mia. Mi sentivo come morto, e i passi che facevo erano l'ultima, inevitabile, inalterabile camminata verso l'inferno. Ero un nero in un paese che pareva sull'orlo di una guerra razziale, ma colore e razza non c'entravano niente col mio dolore. «Ogni uomo ha un posto prenotato all'inferno», diceva mio padre quand'ero bambino. «Per questo, quando vedo tutti quei bianchi che mi disprezzano, sorrido sempre e dico: "Certo, capo, come dice lei, capo"». Sapeva che la mazza sarebbe calata anche su di loro. Ma si era scordato di dire che, un giorno, avrebbe colpito pure me. Mi diressi verso ovest facendo solo vie secondarie. A ogni incrocio mi tornavano in mente persone che avevo conosciuto lì a Los Angeles. Molti di loro li avevo frequentati già in Texas. Ci eravamo trasferiti in massa, dal Profondo Sud ci eravamo rifugiati in California. Joppy il barista, morto da anni, e Jackson il bugiardo; EttaMae, il mio primo vero amore, e Mouse, il suo uomo e mio migliore amico. Eravamo arrivati lì in cerca di una vita migliore - lo stesso motivo di tutti gli altri - e molti di noi credevano di averla trovata. …tu punti la pistola alla nuca di quello che entra per ultimo. Mi immaginai con una pistola in mano, non visto da nessuno, pronto a rubare le paghe di una grande impresa petrolifera. Quasi vent'anni di sforzi per essere un cittadino onesto con un lavoro onesto, e adesso tutto svaniva, per colpa di pochi litri di sangue cattivo. Pensavo a tutto questo, quando alzai lo sguardo e vidi una donna che spingeva un passeggino, con due bambini al suo fianco. Stava attraversando la via a meno di tre metri dal mio paraurti. Schiacciai il freno e sterzai sulla sinistra, tagliando la strada a una station wagon del '48. Frenò anche l'altro conducente. I clacson suonarono. - Oddio! - strillò la donna. Mi figurai uno dei suoi bimbi schiacciati sotto una ruota della mia Ford. Saltai giù, quasi prima che l'auto si fermasse del tutto, e corsi dall'altra parte, verso il bimbo morto che temevo di vedere. Trovai la donna in ginocchio, che abbracciava e stringeva i figli. Piangevano, mentre lei invocava il Signore. Dalla station wagon scese un uomo anziano. Era nero, con capelli grigi e spalle larghe. Zoppicava e aveva occhiali con montatura in metallo. A calmarmi fu l'apprensione nei suoi occhi. - Figlio di puttana! - gridò la piccola donna dalla pelle nocciola. - Che cazzo hai nella testa? Non hai visto che avevo i bambini? L'uomo anziano, che prima era diretto verso di me, deviò verso di lei. Si chinò su un solo ginocchio, con una certa difficoltà vista la gamba malata. - Stanno bene, figliola, - disse. - I tuoi bambini stanno bene. Ma portiamoli via dal mezzo della strada, prima che arrivi qualcun altro e li metta sotto. L'uomo accompagnò i bambini e la madre fino al marciapiede tra Florence e San Pedro. Rimasi fermo a guardarli, incapace di muovermi. Le macchine erano incolonnate su entrambe le corsie. Alcuni scendevano per vedere che stava succedendo. Nessuno più suonava il clacson, perché pensavano fosse morto qualcuno. L'uomo dai capelli d'argento tornò da me con un'espressione severa in volto. Pensai che mi avrebbe sgridato per la mia guida irresponsabile, e sono certo che avrebbe voluto farlo, ma quando mi fu vicino guardò bene e vide qualcosa. - Sta bene, signore? - domandò. Aprii la bocca per rispondere, ma le parole non uscirono. Guardai la donna, stava baciando sua figlia. Notai che tutti loro - la madre, il figlio piccolo e la figlia di sei o sette anni - portavano pantaloni uguali, dello stesso marrone. - Meglio che stia attento, signore, - stava dicendo l'uomo anziano. - A volte lei ti prende, ma non glielo lasci fare. Annuii, forse bofonchiai qualcosa. Poi, barcollando, mi avviai verso la mia macchina. Il motore era ancora acceso. Era in folle, e non avevo tirato il freno a mano. Ero un incidente in attesa di accadere. Per il resto del tragitto verso casa, mi attanagliò l'immagine di quella donna che Stringeva la sua bambina. Quando Feather aveva cinque anni, un giorno eravamo sulla spiaggia, vicino a Redondo, e lei era rotolata giù da una collina piena di rovi. Aveva pianto, mentre Jesus la teneva stretta e le baciava la fronte. L'avevo raggiunta e, mentre la prendevo in braccio, mi aveva detto: «Non arrabbiarti con Juice, papà. Non è stato lui a farmi cadere». Accostai, per non causare un altro incidente. Per un po' rimasi seduto, con in testa quel monito. A volte lei ti prende, ma non glielo lasci fare.

Description:
La rivolta razziale che ha sconvolto Los Angeles è ormai un ricordo, anche se vivo e doloroso, ma per Easy Rawlins la vita non è mai stata facile. Sua figlia Feather si è ammalata, e per poterla curare servono 35.000 dollari, da reperire in fretta. Easy sta per accettare la proposta del suo amico
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