ebook img

Ucraina. La guerra che non c'era PDF

272 Pages·2022·0.41 MB·italian
Save to my drive
Quick download
Download
Most books are stored in the elastic cloud where traffic is expensive. For this reason, we have a limit on daily download.

Preview Ucraina. La guerra che non c'era

I SAGGI © 2015, 2022 Baldini&Castoldi s.r.l. - Milano ISBN 978-88-9388-999-5 Prima edizione Baldini&Castoldi - La nave di Teseo marzo 2022 www.baldinicastoldi.it     BaldiniCastoldi baldinicastoldi baldinicastoldi baldinicastoldi Andrea Sceresini    Lorenzo Giroffi Ucraina La guerra che non c’era INDICE Prefazione alla nuova edizione Introduzione Il viaggio nel Donbass Stakhanov Da Stakhanov a Donetsk L’impatto con Donetsk Andiamo alla guerra Il comandante Givi La caserma Vostok Le trincee di Pisky Dnepropetrovsk I militanti di Dnepropetrovsk Kiev Pedinati dall’Sbu Convoglio umanitario I propagandisti di Sloviansk Nella caserma ucraina Le elezioni ucraine Mariupol Di nuovo a Donetsk Le elezioni nel Donbass Lugansk Andrea il fascista I combattimenti di Spartak e la vita nei rifugi Omaggio al Donbass Cronologia della crisi tra Russia e Ucraina (2008-2022) PREFAZIONE ALLA NUOVA EDIZIONE È il 24 febbraio del 2022 e l’esercito russo ha invaso l’Ucraina. Le immagini, trasmesse a rullo da tutti i canali televisivi, mostrano città bombardate, incursioni aeree e palazzi in fiamme. Kharkiv è già caduta o sta per farlo. Un amico italiano che vive lì ci scrive che i carri armati di Putin hanno iniziato a occupare la periferia della città. Decine di migliaia di automobili si sono riversate sulle autostrade, dirette verso ovest. Ma sarà probabilmente una fuga inutile, perché nel frattempo i bielorussi sono calati da nord, hanno preso Chernobyl e puntano dritti sulla capitale. È stato conquistato l’aeroporto di Hostomel, che dista solo quindici chilometri dal Parlamento e dalla sede del governo. Lo spazio aereo ucraino è chiuso da ieri notte. Non si può né atterrare né partire, e comunque, in questo momento, coloro che desiderano entrare nel Paese devono essere veramente pochi. Noi abbiamo deciso di provarci. Ci troviamo a Budapest, da dove cercheremo di attraversare il confine per raggiungere Kiev. Sappiamo che non sarà facile, anche perché la frontiera potrebbe essere sbarrata nel giro di poche ore. Partiamo all’improvviso, perché all’improvviso è accaduto tutto. Sono trascorsi solo tre giorni da quando, la sera del 21 febbraio, Vladimir Putin ha riconosciuto in mondovisione le Repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk e l’esercito russo è entrato in forze nel Donbass. «L’Ucraina non è mai stata un vero Paese», ha detto Putin durante il suo rabbioso discorso. «L’Ucraina è stata contaminata dai virus del nazionalismo, del nazismo e dalla corruzione degli oligarchi.» Nella piazza centrale di Donetsk sono stati sparati alcuni fuochi d’artificio, ma a sventolare le bandiere c’erano solo poche decine di persone. Nel frattempo, lunghe file di blindati varcavano rombando le soglie della città. Oggi, mentre le bombe piovono su Kiev, Kharkiv e Mariupol, le parole del nuovo zar si sono fatte ancora più taglienti: «Non deve esserci alcun dubbio sul fatto che un attacco diretto contro la Russia terminerà con la sconfitta dell’aggressore», ha detto. «Chiunque minacci o interferisca con le azioni della Russia deve sapere che la nostra risposta arriverà senza ritardo e porterà conseguenze che non avete mai visto nella storia.» Così è iniziata, dopo quasi otto anni, la seconda fase della guerra in Ucraina. Che dovesse essere così lunga – e così maledettamente complessa e sanguinosa – in pochi lo avevano immaginato. Era la primavera del 2014 quando le due province dell’Est proclamarono la propria indipendenza e imbracciarono le armi contro Kiev. Erano trascorsi pochi mesi dalla rivoluzione filo-occidentale di piazza Maidan. La deposizione del governo di Viktor Yanukovich non era piaciuta a molti, specie nell’Est – ma soprattutto non era piaciuta al Cremlino. Così gli «omini verdi» avevano occupato la Crimea, che «de facto» era stata annessa alla Russia. E poi c’era stato il Donbass. «Il virus del nazionalismo» – per usare le parole di Putin – aveva rapidamente contaminato entrambi gli schieramenti. Due popoli che fino al giorno prima vivevano pacificamente sotto la stessa bandiera si erano ritrovati faccia a faccia con un bel po’ di armi in mano. Gli ucraini ucranofoni puntavano a riprendersi il proprio Paese, gli ucraini russofoni volevano fondarne uno loro. Così erano nate le due Repubbliche fantasma di Donetsk e Lugansk, circondate da trincee e campi minati e perennemente immerse nel magma di una guerra fratricida. Putin – che di grane ne aveva già abbastanza – si era sempre guardato bene dal riconoscerle ufficialmente, ma nel frattempo le riforniva sottobanco di denaro, uomini e mezzi. Washington faceva lo stesso dall’altra parte, e poco importava se qualche migliaio di poveri cristi avrebbero dovuto rimetterci la pelle. Così si è arrivati fino a oggi. Questo libro è stato scritto nel 2015 ed è la cronaca del viaggio di due giornalisti freelance e senza un soldo attraverso i confini della guerra. Dopo di allora siamo tornati nel Donbass diverse altre volte. Lo abbiamo fatto soprattutto quando i riflettori erano spenti e l’opinione pubblica internazionale sembrava guardare altrove. Abbiamo faticosamente imparato qualche parola di russo – krasivi, bello; minomet, mortaio; striliat, sparare – e ci siamo persino fatti qualche nuovo amico. Alcuni sono ancora lì, altri se ne sono andati, qualcuno purtroppo non c’è più. È morto – di un brutto male contratto nelle trincee – il miliziano Lom, uno spilungone con la faccia da Fernandel che sognava il socialismo e l’Unione Sovietica e non s’era accorto che i nuovi leader separatisti se ne fregavano dei lavoratori e andavano a braccetto con gli oligarchi. Veniva a prenderci a bordo di una Lada scassata, con la sua bella stella rossa appiccicata sul berretto. Parlava un poco di italiano, perché aveva vissuto per qualche tempo a Napoli scaricando cassette al mercato. Un giorno ci fermammo in un caffè al centro di Donetsk, dove i neo- arricchiti del Donbass facevano lo struscio tra improbabili sushi bar e file di Suv lucenti. Era l’estate del 2017, faceva caldo e le ragazze sculettavano in minigonna lungo Pushkina boulevard. Solo Lom sembrava triste. Si guardava intorno un po’ impacciato, tormentandosi la fronte con le sue grosse mani da ex minatore. Era come sempre in divisa, e aveva il braccio fasciato per via di una ferita di guerra. Gli facemmo vedere sul telefonino la scena di un vecchio film degli anni Sessanta, Italiani, brava gente, ambientato durante la campagna di Russia. Era la scena in cui i prigionieri sovietici cantano l’Internazionale assieme ai soldati dell’Armir, scatenando le ire degli aguzzini nazisti. Lom si commosse molto e gli vennero le lacrime agli occhi. Alcuni clienti del locale iniziarono a squadrarci con fastidio, perché il cellulare aveva il volume alto e le note antiche dell’inno operaio coprivano il sottofondo di musica dance. Anche le cameriere presero a fissarci. Facemmo per stoppare il filmato, ma Lom ebbe uno scatto di stizza: «No… alza, alza volume», disse in un italiano stentato. Poi si guardò attorno con aria di sfida, fiero di quella sua piccola rivoluzione. Quella sera stessa tornò in trincea e dopo di allora non lo vedemmo mai più. Il nostro Donbass è stato soprattutto questo: una terra di pazzi sognatori, disperati e criminali. A metà strada tra il pazzo e il criminale era certamente il comandante Givi, leader del battaglione separatista «Somalia», che nel 2014 rase al suolo a cannonate l’aeroporto di Donetsk. Neanche lui ha fatto una bella fine: lo hanno freddato l’8 febbraio 2017 nel suo quartier generale, buttando all’aria l’intero edificio con un missile Shmel. Fu un attentato ucraino? La vendetta di altri gruppi filorussi? Non si è mai saputo. Una sorte molto simile è toccata ad Aleksandr Zakharchenko, il presidente della Repubblica Popolare di Donetsk, ucciso con un’autobomba il 31 agosto 2018. Durante la campagna elettorale separatista del 2014 aveva promesso: «Presto tutti i cittadini di Donetsk potranno permettersi una bella vacanza in Australia e avranno la possibilità di abbattere a fucilate almeno tre o quattro canguri a testa». Le recenti mosse di Putin lo avrebbero certamente entusiasmato. Ci siamo sempre chiesti cosa spingesse questa gente a combattere e farsi ammazzare. Ce lo chiediamo a maggior ragione oggi, dopo che l’intervento di Putin ha proiettato il Paese nell’incubo della guerra totale. A Donetsk c’era di tutto: fanatici stalinisti, nostalgici dello zar, integralisti ortodossi, fascisti, ultranazionalisti. C’era chi si arruolava per costrizione e chi per dovere, esattamente come dall’altra parte del fronte. Un giorno ci trovammo a trascorrere mezzo pomeriggio in compagnia di un vecchio maestro di campagna che si era reinventato propagandista per la causa di Mosca. Ci trovavamo nella città di Yasinovataya, alcuni chilometri a est di Donetsk, e siccome eravamo senza interprete, e ci eravamo stancati di guardarci in faccia sorridendo, decidemmo di fare un gioco. Cominciammo a elencare al nostro interlocutore alcuni personaggi del presente e del passato, chiedendogli di esprimere un giudizio su di loro. Iniziammo col più scontato di tutti: «Putin?» «Karasciò!»* gridò il maestro. «Stalin?» «Karasciò!» Un «karasciò» toccò anche allo zar Nicola II, a Berlusconi e al presidente siriano Assad. Furono invece bocciati sia Lenin che Trotsky, mentre il povero Karl Marx fu addirittura bollato come «pederast», un povero finocchio. «Mussolini?» «Uhm… Ka-ra-sciò», sorrise il maestro dopo qualche attimo di esitazione birichina. Evidentemente pensava che tutti gli italiani, in quanto italiani, dovessero per forza amare il loro duce. Quando infine gli chiedemmo di Obama, il maestro scoppiò in una grossa risata, si passò la mano aperta sulle guance e squittì, come se fosse la cosa più ovvia del mondo: «Obama… Negr!» Ma a Donetsk c’erano anche tanti stranieri. C’era Texas, un cinquantenne americano figlio di un ricco imprenditore di Austin che si era fatto diseredare per abbracciare la causa del Cremlino. I separatisti se lo portavano in giro come una reliquia e lui li deliziava strimpellando arie folk all’ombra del monumento di Lenin. C’era un ragazzo di Bogotà, anche lui volontario, che una sera, ubriaco fradicio, ci aveva convinti a sfidare il coprifuoco per andare a comprare un’ultima bottiglia di vodka. Ci eravamo ritrovati pancia a terra a fare il passo del giaguaro in mezzo alle aiuole di un parco pubblico, mentre le pattuglie della milizia sfrecciavano sulla strada a pochi metri da noi. E ancora: c’era un indiano spilungone, un basco, alcuni spagnoli, qualche tedesco e diversi italiani. Nel 2015 arrivò Spartaco, un quarantenne di Brescia che sognava di combattere per Putin. In Italia era rimasto disoccupato e condivideva un appartamento con la madre. In molti, al suo posto, sarebbero finiti davanti a una slot machine con in mano un bicchiere di bianco. Lui, informandosi rigorosamente su Internet, aveva deciso che Unione Europea e Stati Uniti erano i grandi mali del mondo. Era partito per Donetsk senza parlare una parola di russo. Arrivato a Rostov, i tassisti locali lo avevano subito derubato di tutto ciò che aveva in tasca. Ma lui non si era dato per vinto e in un modo o nell’altro era riuscito ad arrivare alle porte del Donbass. Tutto ciò che sapeva sulla sua destinazione era il nome del reparto separatista presso il quale avrebbe potuto arruolarsi: il battaglione Vostok. Aveva ripetuto quel nome a chiunque, persino alle guardie di frontiera ucraine che ancora presidiavano quel tratto di confine, che lui aveva scambiato per separatisti. Giunse alla meta per puro miracolo. Gli misero un kalashnikov in mano e lo spedirono subito al fronte. Ma la guerra, come tutte le guerre, la combattono soprattutto quelli che ne farebbero volentieri a meno. Ne abbiamo conosciuti a tanti, a Kiev come a Donetsk. Chi poteva permetterselo allungava una mazzetta al medico della caserma per farsi riformare. Altri fuggivano all’estero, oppure gettavano a terra il fucile e si davano alla macchia. Ci ha confidato un disertore ucraino che nel 2014 era

See more

The list of books you might like

Most books are stored in the elastic cloud where traffic is expensive. For this reason, we have a limit on daily download.