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Tenerezza. La rivoluzione del potere gentile PDF

106 Pages·2017·0.592 MB·Italian
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Presentazione La tenerezza, quando è autentica, non sopporta facili definizioni: si insinua con delicata tenacia tra le grandi virtù civili e la retorica del potere, è ciò che ci manca per poter vivere e sentire in un mondo finalmente comune. Per questo parlarne è un’impresa ardua e bellissima. E tanto più importante, oggi, quanto più la realtà, nella sua opaca pesantezza, si rende indecifrabile, narcisistica, violenta e sentimentale al tempo stesso. Da DeLillo a papa Francesco, da Platone alla Szymborska, da Max Weber a Foster Wallace, da Recalcati a Mariangela Gualtieri, e, ancora, da Lucrezio a Žižek, da Enea alla donna senza nome del Vangelo secondo Luca alle cronache dei migranti, parlare di tenerezza significa parlare di amore, di tempo che passa, di filosofia. Significa parlare di umanità, di curiosità verso l’altro, di quella leggerezza profonda che ci permette di intercettare, fra le righe, il senso più fecondo e creativo della nostra finitezza, della nostra fragilità. Parlare di tenerezza tocca molte corde sensibili, smuove affetti ancestrali, evoca l’intensità della vita del corpo e anche dell’anima. Sfida i predatori e i prepotenti, pone domande scomode e offre nuove istruzioni, accende piccole, miracolose luci nel buio annunciando una rivoluzione gioiosa e costruttiva, politica ed esistenziale. Che ci chiama per nome e allarga lo sguardo al futuro. Isabella Guanzini, nata a Cremona, è filosofa e teologa. Dopo aver insegnato Storia della filosofia e Teologia fondamentale alla Facoltà teologica dell'Italia settentrionale di Milano ed essere stata ricercatrice alla Research Platform Religion and Transformation in Contemporary European Society dell'Università di Vienna, dal 2016 è professore ordinario di Teologia fondamentale all'università di Graz. www.ponteallegrazie.it facebook.com/PonteAlleGrazie @ponteallegrazie www.illibraio.it Ponte alle Grazie è un marchio di Adriano Salani Editore s.u.r.l. Gruppo editoriale Mauri Spagnol Art Direction: ushadesign © 2017 Adriano Salani Editore surl - Milano ISBN 978-88-6833-704-9 Prima edizione digitale 2017 Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata. A David Sii dolce con me. Sii gentile. È breve il tempo che resta. Poi saremo scie luminosissime. E quanta nostalgia avremo dell’umano. Come ora ne abbiamo dell’infinità. Ma non avremo le mani. Non potremo fare carezze con le mani. E nemmeno guance da sfiorare leggere. Una nostalgia d’imperfetto ci gonfierà i fotoni lucenti. Mariangela Gualtieri Introduzione Scrivere di tenerezza è una dura impresa. Il rischio di cadere nel patetico è fatale. Eppure, come cancellare il fatto che veniamo proprio di lì (e speriamo di ritornarci appena possibile)? Per quanto difficile sia stato il nostro venire nel mondo, almeno un gesto di tenerezza ci ha impedito di uscirne. O di esserne soffocati. Parlare di tenerezza tocca molte corde sensibili, smuove affetti ancestrali, evoca l’intensità della vita elementare del corpo e anche dell’anima. La tenerezza ha preceduto la nascita e resisterà anche alla morte: i legami più umani che conosciamo anticipano la nostra vita cosciente e durano oltre ogni nostro congedo, più o meno forzato. La tenerezza incoraggia il nostro corpo a formarsi, a nutrirsi, a riconoscersi. E poi orienta il nostro sguardo sul mondo, ci spinge a trovare le parole per dirci, ci interpella con il nostro nome proprio, forgiando e rivelando la nostra unicità insostituibile. La tenerezza riesce a dare forma a una singolarità ancora del tutto priva di forza. Questo è il suo miracolo. Nel sentire comune, tuttavia, questa forza singolare, che crea quasi dal niente un nuovo mondo, appare come svuotata dal suo uso improprio. Per non dire abuso. Il linguaggio della tenerezza appare infatti gravato da una pesante ipoteca. La sua energia vitale ha finito per stemperarsi nelle sue intonazioni sentimentali, fino a rischiare di confondersi con la mollezza di tutte le giunture dell’anima. Una faccenda per smidollati, come direbbe Kierkegaard, una morbosità persino indecente. Roland Barthes ne parla addirittura come della parte oscena dell’amore: «Ciò che rende osceno l’amore è proprio questa sua sentimentalità […]. Rovesciamento storico: ciò che è indecente non è più la sessualità, ma la sentimentalità».1 Qualcosa deve essere successo alla parola tenerezza, fra la pienezza di significato in cui nasce e l’imbarazzo che genera questa sua deriva patetica. Tanto da indurci a una sorta di ritegno persino a pronunciarla e a scriverla. L’imbarazzo, del resto, è alimentato da molti segnali – soprattutto da immagini e retoriche pubblicitarie di morbidezze e tenerezze stucchevoli che sciolgono la vita, più che darle forza. Dove si vuole pensare seriamente l’esistenza, la parola si nasconde dietro un sorriso rassegnato. Essa non occupa più il luogo sovrano in cui risplendono le passioni e gli slanci che abbelliscono il mondo, i sacrifici e le dedizioni che esaltano l’amore. La tenerezza – con il suo corredo di affezioni tenaci, che sfidano i predatori e i prepotenti, i cinici e gli insensibili, i corrotti e i gaudenti a spese altrui – sta nell’ombra delle virtù civili e dei tempi forti della comunità. È un integratore della vita privata, una tisana per il tempo libero. La sua stessa inflessione sonora induce infatti automaticamente nella mente «un’immagine come di latte annacquato, qualcosa di bianco azzurrastro, di insipido»,2 su uno sfondo indistinto dai colori pastello. Esiste un marketing della tenerezza. Esistono il racconto, l’immagine, il film della tenerezza, che danno voce e figura alla sua perfetta clandestinità e alla sua declinazione melliflua. Le rendono giustizia? Interpretano veramente la sua forza (e la nostra anima)? D’altra parte: esiste una filosofia della tenerezza? Una politica della tenerezza? Una teologia, addirittura? Parliamo di navigazioni forti e profonde del pensiero, non di adattamenti devoti del lessico pseudo-estetico e pseudo-romantico. Che cosa è successo alla tenerezza, per indurla a diventare così piccola e imbarazzante? Si può ricostruire una storia della tenerezza? Qualche indizio, per capire quello che abbiamo guadagnato e quello che ci siamo persi, per riflettere sui suoi momenti migliori e i suoi tempi grami, ci deve pur essere. L’individuo odierno – almeno nella sua versione ideale, condivisa dalla burocrazia e dal marketing – non fa una buona propaganda alla tenerezza. La include fra i suoi consumi privati, ma diffida dal considerarla una risorsa pubblica. Il vincente, l’uomo di successo, la donna in carriera devono guardarsene con cura. La tenerezza è una debolezza imperdonabile: meglio prevenire. I bambini vanno addestrati fin da piccoli a farsi valere, tenendo a freno altruismo e compassione. Là dove la tenerezza sconfina nella vulnerabilità e mette a rischio l’ego, essa rappresenta persino un pericolo. Pur sempre associata a sentimenti benevoli e umanizzanti, in questo momento storico, la tenerezza appare del tutto priva di gloria e di intensità: senz’altro non rappresenta la via regia per uscire dalla condizione precaria e inquieta dell’epoca presente. Impotente di fronte alle sfide complesse delle metropoli ipermoderne, appare del resto anche inoffensiva nei confronti delle minacce diffuse del tempo attuale e insignificante al cospetto delle apocalissi ecologiche del mondo globale a venire. Insomma, la tenerezza è del tutto inadeguata allo spirito del tempo. È una versione dell’umano superata dalle risorse dell’economia e della tecnica. Come direbbe Max Weber, uno dei grandi sociologi della modernità razionale, la tenerezza non contiene più alcuna razionalità aderente allo scopo. Se si parla di efficienza, nell’ambito delle strategie individuali o sociali, si parla ormai dell’affinamento di condotte razionali che escludono sentimentalismi romantici. Come la tenerezza, per esempio. Il viaggio lungo un giorno del giovane tycoon Eric Packer, narrato da DeLillo in Cosmopolis, ne è un’icona perfetta. È come una versione postmoderna – l’opposto speculare – dell’Ulisses di Joyce, che ha inaugurato la rappresentazione del grado di anaffettività che ormai può raggiungere il flusso quotidiano delle emozioni senza connessioni e senza direzione. Il viaggio surreale di Eric condensa ed esaspera, nella temporalità contratta di una New York affollata di schermi, i tratti di una vita smisurata e potente, ma emotivamente magmatica e umanamente implosa. Il segno della narrazione è contrario, ormai: non vacillamento e dispersione di affetti, bensì concentrazione ed esaltazione di potenza. «Sono spietatamente efficiente. Tutto questo talento. Questa grinta. Utilizzati». Informazioni fluttuanti, oscillazioni monetarie, alfabeti numerici, immagini cifrate, premonizioni visionarie in forma elettronica, imperativi digitali sono gli elementi del nuovo spirito del tardo-capitalismo virtuale. Non ci sono slanci di tenerezza, ma piuttosto lampi di eccitazione. «Lì trovava bellezza e precisione, nei ritmi nascosti, nella fluttuazione di una certa moneta». Nello stesso tempo – ecco la spina del rimosso – Eric sposa una poetessa ed è alla disperata ricerca di un quadro di Rothko e di un «sussulto vero». Vive in un presente congestionato e spinto in avanti, come in una costante attesa di uno schianto. Perché tutto questo fluttuare è meccanico, rigido, inflessibile. Si «specchia» nell’intera superficie dell’anima, ma non la «tocca» mai. Non c’è traccia di fragilità e mortalità: soltanto una circolazione costante entro una bolla virtuale, come lo spettacolo continuo di video intercambiabili senza coordinate e localizzazioni specifiche. È il loop della rete globale: Nessuno morirà. Non è questo il credo della nuova cultura? Verranno tutti assorbiti dentro flussi di informazioni. Non ne so nulla. I computer moriranno. Stanno morendo nella loro forma attuale. Sono quasi morti come unità distinte […] si stanno fondendo nel tessuto della vita quotidiana.3 In tale fantasmagoria futurista il computer stesso come oggetto fisico tradisce la sua inerzia e obsolescenza, perché l’iperrealtà dell’immaginario tecnologico tenderà a trasmutare ogni materia viva e ogni moto corporeo in un universo informatico astratto e iperconnesso («Le strade umiliano il futuro»). Dove il peso, il trauma e la contingenza dei corpi divengono un mero ingombro anacronistico. Anche le macchine devono farsi dati virtuali, fluttuare nel mondo mentale delle informazioni e delle rappresentazioni. «Quella era l’eloquenza di alfabeti e sistemi numerici, ora pienamente realizzata in forma elettronica, nel sistema binario del mondo, l’imperativo digitale che definiva ogni respiro dei miliardi di esseri viventi del pianeta. Lì c’era il palpito della biosfera. I nostri corpi e oceani erano lì, integri e conoscibili». Eric è capace di prevedere e influenzare gli algoritmi del mondo digitale («La gente mangia e dorme all’ombra di quello che facciamo»), ma resta impotente di fronte all’indecifrabilità del proprio corpo presente. La bolla di Eric ci riguarda. È una bolla di ricchezza virtuale e di miseria simbolica. E noi ci siamo dentro. Ci troviamo infatti – almeno noi occidentali – in una costellazione sociale, culturale e tecnologica povera di tracce di una vita complessiva dello spirito: la nostra anima non ha più storia, non sa più a che cosa affezionarsi. Elemento decisivo di tale mutazione psichica diffusa è la fondamentale disposizione monetaria dell’epoca, unita a una sostanziale indifferenza qualitativa nella produzione delle merci: non vale la qualità, ma la quantità di ciò che si consuma, secondo il principio capitalistico della scambiabilità dei prodotti. Tale disposizione trova espressione nella figura dell’homme blasé metropolitano, che vive in una perenne distanza di sicurezza, e la cui economia psichica interiorizza, assimila e rispecchia i meccanismi del mercato. Istintivamente, cerca zone franche di disaffezione e disinteresse, in relazione a una logica di pura sopravvivenza e autoprotezione del proprio paesaggio nervoso. È il tipo cool contemporaneo: molto trendy e fascinoso, e insieme molto algido e distaccato. Cool è una parola inglese che significa appunto «freddo»: non è un caso che sia oggi il personaggio del momento, di cui tutti sembrano avere bisogno ma che a sua volta non deve chiedere mai. Soggetto dall’alto valore economico, appare pronto a individuare prodotti e tendenze capaci di accrescere la propria immagine sociale, in modo da aumentare followers e like, senza dare l’impressione di seguire o apprezzare qualcuno. Tale indifferenza/distanza gli garantisce uno stato sufficiente di tutela dell’equilibrio soggettivo, attutendone gli stimoli e i coinvolgimenti eccessivi. I dispositivi delle nuove tecnologie del sé – fisiche, chimiche,

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