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Taccuini 1922-1943 PDF

497 Pages·1984·41.625 MB·Italian
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Alberto Pirelli TACCUINI 1922/1943 PIRELLI, Alberto. Taccuini 1922/1943. A cura di Donato Barbone. Prefazione di Egi­ dio Ortona. Bologna, Il Mulino, 1984. 500 p. 21 cm. (Storia/memoria). ISBN 88-15-00566-8 1. Pirelli, Alberto - Memorie - 1922-1943 2. Politica internazio­ nale - 1922-1943 - Storia - Fonti I. Barbone, Donato IL Ortona, Egidio. 327.409’04 Copyright © 1984 by Società editrice il Mulino, Bologna. È vietata la ripro­ duzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, se non autorizzata. Prefazione Prefazione Incontrai per la prima volta Alberto Pirelli a Londra in occa­ sione della Conferenza economica mondiale nel 1933. Egli faceva parte della Delegazione italiana che era capeggiata da Guido Jung, ed io ero il fanalino di coda della segreteria della Delega­ zione, appena ventiduenne agli esordi della mia carriera. Seguivo i lavori della Conferenza con l’attenzione del neofita. Pirelli mi apparve subito, nella mezza dozzina dei delegati, quello che re­ cava in sé la maggiore dovizia di qualità. Si imponeva nelle di­ scussioni per la sua conoscenza dei problemi economico-finan- ziari, per il suo eloquio vivace e quasi mordente in lingua inglese, per le sue opinioni maturate da una lunga milizia in conferenze ed organizzazioni internazionali, e per la sua impareggiabile ur­ banità e cortesia. Ho un vivido ricordo di un suo intervento in una delle commissioni della Conferenza, quella incaricata dei problemi commerciali. Egli improvvisò una lunga e persuasiva di­ chiarazione sulla libertà dei commerci internazionali e invocò ad appoggio delle sue tesi la sua particolare posizione di industriale che traeva i suoi insegnamenti, nel campo degli scambi interna­ zionali, dal dover amministrare l’attività di fabbriche situate in otto diversi Paesi del mondo. Eravamo nel 1933. Quando egli si congedò dall’azienda dopo sessant’anni di lavoro al vertice del Gruppo lasciò dietro di sé 88 stabilimenti sparsi in Italia, Spa­ gna, Inghilterra, Francia, Germania, Belgio, Grecia, Turchia, Ar­ gentina, Brasile, Messico, Canada, con 80.000 tra dirigenti, tec­ nici, ricercatori, impiegati, operai. Ebbi comunque da quel di­ scorso di Alberto Pirelli una premonizione di quello che, allora agli albori, sarebbe divenuto il fenomeno più pregnante dei no­ stri tempi di interdipendenza economica tra i Paesi del mondo: quello delle società multinazionali. Su quella Conferenza e sul suo fallimento il lettore potrà trovare, nelle pagine dei Taccuini 8 Prefazione relative all’anno in cui la Conferenza ebbe luogo, una serie di considerazioni che testimoniano l’acume delle percezioni, la ric­ chezza di nozioni, la profonda conoscenza dei problemi interna­ zionali di cui Alberto Pirelli si era andato arricchendo nel corso di oltre cinquant’anni di vita spesi in una variegata attività in cui la dedizione civile del patriota, la passione modernizzatrice e l’e­ sperienza dell’imprenditore si erano congiunte nell’ideale della più ampia, e insieme equilibrata, libertà di scambi tra i popoli. Alberto Pirelli era allora «nel mezzo del cammino» della sua vita intellettiva. Mai avrei pensato conoscendolo allora, nel 1933, che avrei avuto il privilegio, cinquant’anni dopo, di scri­ vere la prefazione ai suoi Taccuini di memorie, ridondanti di an­ notazioni d’inestimabile valore storico, di pulsante dinamismo operativo, di ineguagliabile saggezza e carica umana. Dopo l’epi­ sodio di quell’incontro cui ho sopra accennato, ebbi contatti, sia pur saltuari, con lui in molte occasioni successive, o durante il mio lungo mandato presso ΓAmbasciata a Washington o quando ricoprivo la carica di direttore generale al Ministero degli Esteri o, da ultimo, nei tempi più procellosi per il nostro Paese quando, come capo della segreteria al Ministero degli Esteri, mi trovai ad assistere allo sfaldamento del regime e al triste epilogo di una guerra che Alberto Pirelli aveva deprecato e che il popolo italiano non avrebbe voluto combattere. Ho cosi avuto modo, attraverso vari incontri, e ora attra­ verso un’attenta lettura degli appassionanti Taccuini, di coltivare e approfondire la conoscenza di un uomo che non esito a definire di fibra mentale eccezionale. Ed è di questa esperienza che mi avvarrò nel cercare di tracciare un quadro di presentazione dei suoi scritti, sapendo che potrò solo inadeguatamente riflettere l’abbondanza, l’acutezza, la passione di quanto in essi contenuto. Alberto Pirelli nasceva a Milano il 28 aprile 1882 da una fa­ miglia originariamente di Varenna sul lago di Como, che nel suo libro La Pirelli. Vita di un’azienda industriale pubblicato nel 1946 egli descriveva come «non povera, ma modesta». Suo padre, Gio­ vanni Battista, nato nel dicembre 1848, era stato a 17 anni vo­ lontario garibaldino e aveva partecipato alla campagna nel Tren­ tino nel 1866 e ai combattimenti a Mentana nell’anno succes­ sivo. Nello slesso libro Alberto Pirelli lo descrive come uomo «di mente quadrata e incline alle discipline severe e precise della scienza e della tecnica», «grande di ingegno e di cuore». Egli era Prefazione 9 .iato il fondatore e l’instancabile animatore di un’azienda che si inscriva nel quadro di un’industria nazionale appena agli albori e per di più in un ramo di attività fino allora inesistente in Italia. A sessantanni, quando l’industria da lui avviata trentasette anni prima, nel 1872, aveva compiuto enormi progressi, Giovanni Bat- lista Pirelli era stato nominato senatore del Regno. Di suo padre, nella pubblicazione che ho sopra citato, Alberto Pirelli scriveva: Sia consentito anche ad un figlio di indugiare nell’elogio del proprio padre. Lo faccio con la commozione di chi al Padre è debitore dell’e- scinpio e del consiglio quotidiano, di chi ha avuto, e con me mio fra­ tello Piero, quale maggiore ambizione nella vita quella di rendersi de­ gno della fiducia che a noi egli aveva largito quando eravamo ancora giovanissimi. Nessun premio al mondo mai mi fu più caro dello sguardo di approvazione e qualche volta di compiacimento di mio Padre. Questi sentimenti dovevano costantemente emergere quando, costretto dai suoi impegni in conferenze internazionali ad assen­ tarsi per lunghi lassi di tempo, egli scriveva al padre o al fratello dettagliate lettere in cui riferiva sul suo lavoro nella diplomazia economica. Una lettera del 2 marzo 1919, dalla Conferenza della Pace di Parigi, cosi iniziava: Sono in uno stato d’animo veramente turbato tra il desiderio di ve­ nire a sollevarvi un po’ dal vostro lavoro che so intenso e in parte in­ grato (e insieme il desiderio di stare un po’ di più con i miei) e d’altra parte il sentimento che qui si stanno facendo cose d’importanza vitale per il nostro Paese. D’altro canto è una constatazione facile a farsi che gli impe­ gni diplomatici a cui ci riferiamo, cosi come l’attività in genere documentata dai Taccuini, mediamente non assorbirono che una piccola parte della vita di Alberto Pirelli, l’impresa industriale avendo sempre rappresentato per lui l’occupazione primaria, quella di gran lunga prevalente e alla quale egli era indissolubil­ mente legato. Nell’introduzione al libro sopra citato egli tra l’al­ tro scriveva: Nessuno vorrà stupirsi di questo mio attaccamento [all’Azienda]: sono nato tra le mura della prima vecchia fabbrica del Sevesetto. Mia Madre nel 1882 si salvò da un incendio dello stabilimento poche setti­ mane prima della mia nascita portando al collo mio fratello Piero che 10 Prefazione aveva appena un anno. Mio fratello ed io sentivamo da bambini pul­ sare le macchine al di là della parete della nostra camera da letto. Già a 10-12 anni, poiché si abitava ancora in fabbrica, facevamo frequenti giri nelle officine accompagnati da nostro Padre... Siamo dunque nati e cresciuti in mezzo agli operai, alle macchine e agli sviluppi dell’im­ presa, e abbiamo imparato ben presto ad amare il lavoro, i lavoratori e questa Azienda che non è mai stata «nostra» per alcun privilegio eredi­ tario od alcuna prevalenza azionaria, ma a cui è legato il meglio della nostra vita. Mi è sembrato utile e doveroso prima di intraprendere l’enu­ merazione di tante realizzazioni, e anche di tante incarnazioni, di Alberto Pirelli soffermarmi su questa fondamentale dovizia di af­ fetti e su tanta dedizione ai valori fondamentali della famiglia e del lavoro da lui cosi profondamente sentiti. In fondo quanto ho cercato di far emergere finora è che Alberto Pirelli era, nella migliore delle accezioni, un prodotto di quella sana civiltà bor­ ghese che ha trovato il suo humus migliore nell’Italia post-risorgi­ mentale e che ha dato spinte determinanti all’inserimento dell’I­ talia unita nel sistema delle più importanti nazioni industriali. Per Pirelli vi era però anche un credo ideologico, che doveva ispi­ rare non soltanto le mozioni dei suoi intimi affetti, ma pure la concezione dei rapporti tra uomini e nazioni. E a tale riguardo vorrei citare due tra le carte che ho consultato per redigere questi miei commenti: - la parte di un articolo di Emilio Cecchi del 25 agosto 1955 che Alberto Pirelli evidentemente molto meditò e segnò per me­ moria, articolo riguardante un libro su Thomas Mann. Trascrivo qui di seguito una citazione da Mann riportata nell’articolo, sulla quale Pirelli soprattutto indugiò per assorbirne la linfa e condivi­ derne l’esortazione: Io sono nato molto più per la conciliazione che per la tragedia. Ogni mia attività non è forse conciliazione e compenso, mio compito non è accettare, mettere in luce e rendere fecondo l’uno quanto l’altro: non è forse equilibrio e armonia? Solo tutte le forze riunite compon­ gono il mondo, e ciascuna di esse è importante, ciascuna meritevole di sviluppo... Individualità e società, coscienza e ingenuità: bisogna sem­ pre accogliere e inserire le due cose, con pari completezza: sempre es­ sere un tutto, mortificando i partigiani di ciascun principio col portare quello a perfezione e poi anche l’altro... Umanesimo quale ubiquità universale. Prefazione 11 - È quasi parafrasando tali concetti che Alberto Pirelli, par­ lando alla Camera di commercio di Derby il 28 febbraio 1939 (erano passati pochi mesi dalla conclusione degli accordi italo-in- glesi, alla cui elaborazione io attivamente partecipai nell’Amba- sciata allora diretta da Dino Grandi), disse: Questa sera più che soffermarmi sulle differenze che naturalmente esistono nelle situazioni e nelle tendenze dei vari Paesi, vorrei invece mettere in luce alcuni aspetti comuni che mi sembrano interessanti. Lo studio e l’esperienza insegnano agli uomini ad essere cauti nei loro giudizi, tanto tutto è relativo... Di fronte a eventi e tendenze manife­ stamente legati a processi storici di grande lena, l’unico atteggiamento giusto e utile è quello di cercare con scrupolosa coscienza le armonie contingenti e di conformare ad esse la nostra condotta in modo da trarne ogni possibile vantaggio sociale e ridurre al minimo gli svantaggi che inevitabilmente accompagnano ogni sistema. Forse era stato per I’istintiva consapevolezza di tali valori e dell’importanza della ricerca di conciliazioni che egli, come per vocazione naturale, dopo aver seguito corsi del Politecnico di Mi­ lano e della Bocconi, si era laureato in legge (1904) all’Università di Genova (ricevendo pieni voti e lode) con una tesi su «L’arbi­ trato obbligatorio nelle controversie tra capitale e lavoro». La tesi è tutta volta alla necessità di conciliare con giustizia le oppo­ ste posizioni e sanare le lacerazioni dei conflitti di lavoro. Nella trattazione (ripeto, del 1904) egli lumeggiava l’opportunità di dare riconoscimento legale ai sindacati operai, di promuovere con ogni sforzo e facilitare con un adeguato riordinamento delle leggi il ricorso alle forme della conciliazione e dell’arbitrato, di affron­ tare la questione del riconoscimento giuridico delle associazioni operaie avendo speciale riguardo alla creazione di fondi sociali e ai problemi della rappresentanza e della tutela della minoranza. Nell’avviarmi ora ad esaminare le fasi salienti dell’attività di Alberto Pirelli nella diplomazia economica (che è pur sempre di­ plomazia, non meno importante di quella strettamente politica), nella funzione di consigliere e consulente a livello dei massimi vertici direttivi su tanti temi della vita del nostro paese, vorrei per un momento indugiarmi a esporre alcune prime osservazioni sul carattere dell’uomo quali mi sono emerse man mano che ne ho approfondito la conoscenza. Direi che la carica di carisma che Alberto Pirelli indubbiamente possedeva era da attribuirsi so- 12 Prefazione prattutto alla «trasparenza» del suo carattere — il che non signi­ fica certo ingenuità, ma chiarezza nel fondamento etico delle proprie azioni e assoluta coerenza nel proprio comportamento, ispirato a saggezza ed equilibrio. Un’altra componente fonda­ mentale di tanto carisma era la «completezza» di capacità nel trattare le questioni affidate alla sua cura, e cioè la versatilità delle sue conoscenze in campo economico, politico, sociale e fi­ nanziario. A tutto ciò si aggiunga un accorto senso dei limiti en­ tro i quali operare, sia pure sotto la spinta di legittime ambizioni, evitando sempre di travalicare i confini del «possibile». Carattere trasparente, mente completa, ma aggiungerei senza nodi o com­ plessità foriere di esitazioni o di ricerca di compromessi. Quindi uomo nitido e sereno. A questo carattere egli era giunto ancora nel pieno della giovi­ nezza, per una congiunzione di circostanze che erano state per lui altamente educative. Innanzitutto, una notevole parte delle re­ sponsabilità di gerenza dell’azienda che già gli venivano affidate dal padre nel 1904 e cioè all’età di ventidue anni. A ciò aggiun­ gaci viaggi frequenti, a cominciare da quelli compiuti intorno alla stessa età nell’America del Nord e in Brasile, dov’era stato incari­ cato di studiare il mercato della gomma greggia per l’approvvigio­ namento dell’azienda che stava in quel torno di tempo moltipli­ cando le proprie esportazioni. Da allora fino al 1916 era stata ap­ punto l’azienda ad assorbire totalmente la sua attività. Nel 1917 fu incaricato di esporre a Londra il punto di vista del Comitato nazionale per le Tariffe e i Trattati di commercio, di cui faceva parte, dinanzi al Committee on Commercial and In­ dustriai Policy della Camera dei Lords. Ma già dall’anno prece­ dente, dapprima di propria iniziativa e con mezzi propri, poi in­ sieme ad altri cinque membri (uno dei quali era Giuseppe Volpi) dell’Associazione tra le società per azioni, aveva organizzato e di­ retto un Ufficio per lo studio dei problemi del dopoguerra. Fu in tale qualità che egli prese a frequentare uomini di governo, a co­ minciare da Vittorio Emanuele Orlando. Nel 1918 venne poi la nomina a capo degli acquisti all’estero del Ministero Armi e Mu­ nizioni. Conseguenza di tutti questi contatti fu, nel 1919, la sua inclusione nella Delegazione italiana alla Conferenza della Pace a Parigi, come membro del Consiglio Supremo Economico di Ver­ sailles e della Commissione Economica e Finanziaria. Da qui, non fu che un logico sviluppo il ruolo di negoziatore per l’Italia che Alberto Pirelli ricopri in tutte le conferenze del dopoguerra

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