GIOVANNI ARPINO orie dell’Italia minore ORIGINALS Digitized by the Internet Archive in 2022 with funding from Kahle/Austin Foundation https://archive.org/details/storiedellitalia0000arpi GIOVANNI ARPINO STORIE DELL'ITALIA MINORE Introduzione di Giovanni Tesio ARNOLDO MONDADORI EDITORE © 1990 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano I edizione Oscar Originals giugno 1990 ISBN 88-04-33443-6 Questo volume è stato stampato presso Arnoldo Mondadori Editore S.p.A. Stabilimento Nuova Stampa - Cles (TN) Stampato in ltalia - Printed in Italy Redazione: Maria Agrati Introduzione Dal 19 febbraio 1949 all’8 marzo 1966: diciassette anni di vita, ottocentonovanta numeri. Sono le scarne cifre del «Mondo», il settimanale fondato e diretto da Mario Pannunzio (1910-1968), “a cui Arpino comincia a collaborare il 4 aprile 1953, quando ha già alle spalle alcune esperienze di vita e di scrittura. Nel ‘50 è partito per Genova, imbucandosi in una pensioncina di via Prè, «classicamente lurida, umida, toposa, con vaste macchie ambigue lungo le pareti, un lavandino di fronte al letto da ga- lera, una finestruccia sghemba che dava su un vicolo, una te- nutaria in bigodini e vestaglia, arcigna come la notte dei lupi mannari», e ne è emerso come un gabbiano appesantito dal li- quame con un romanzo di pìcari e di anime innocenti che Vit- torini gli ha pubblicato nei «Gettoni», Sei stato felice, Giovanni (1952), la laurea vera che viene dopo l’altra guadagnata l’anno prima con una tesi su Esenin. Ora, volendo sposarsi, è in cer- ca di soldi e di lavoro. Matrimonio e «Mondo» vengono ad un punto; il distacco dalla cittadina di provincia in cui finora è vissuto, salvo le pause di Genova e della vita militare a Lecce e a Napoli, completano il momento cruciale. Il primo articolo s'intitola Il contratto di marzo e parla di mercato delle braccia sulle piazze di piccole città piemontesi, Mondovì Carmagnola Bra Alba Saluzzo, perfettamente e obli- quamente in tema con l'urgenza elusa dei patti agrari. La col- laborazione dura sei anni ed è la prima — la maestra — di una militanza giornalistica, che non è mai venuta meno. Nell'ulti- mo articolo, I due carabinieri, apparso sul «Mondo» il 10 feb- braio 1959, la cronaca viene quasi ad essere il frammento di un possibile film felliniano: un night club visto nei passi di due carabinieri incatenati al servizio. Tra il primo e l’ultimo articolo corrono fatti nazionali e in- ternazionali di enorme importanza: la legge truffa, la morte di Stalin, le elezioni politiche del 7 giugno, la conferenza di Gi- nevra, la morte di De Gasperi, il tramonto del centrismo, la sconfitta della Fiom alla Fiat, il XX Congresso del PCUS e l'Ungheria, l'accordo di Pralognan, il Mercato Comune, il crollo delle destre, la morte di Pio XII e l'elezione di Giovanni XXIII. Ma lo sguardo del giornalista-scrittore è più intento alle pieghe di una realtà piccola: quella che cade ferialmente sotto gli occhi, la porzione quotidiana degli eventi che non abitano il teatro maggiore della storia; briciole tuttavia di un mondo che - se ben investigato — spiegano «tutto» il mondo. Non è diverso l'atteggiamento che contraddistingue il narratore di storie; implica la stessa fiducia, presuppone lo stesso scatto dello sguardo, include la stessa attitudine a rico- minciare ogni volta umilmente, secondo le parole dell'autore, «in lieta e attenta disposizione verso la realtà che lo circonda». Il trasferimento da Bra a Torino lega lo scrittore da giovane al- l'oscillazione di tutti: all'Italia in transito dalla campagna alla città, dalla provincia all'Europa, dal mondo al Mondo. Vale ancora per Arpino la gobettiana sollecitudine dell’«autobio- grafia come problema» e varrà almeno, per segnare all’ingros- so dei confini, fino a L'ombra delle colline (1964), vero e proprio libro dei conti. Ancora recentemente Arpino sosteneva che ri- spetto a scrittori indigeni come Augusto Monti, Pavese, Feno- glio, il suo fosse un diverso destino: testimoniare la contem- poraneità più bruciante, «addirittura con qualche anticipazio- ne». Da quale altro imperativo morale sarebbero mai potuti venire romanzi come Il fratello italiano e, ancora più flagrante- mente, Passo d'addio? In questa prospettiva, anche Un delitto d'onore diventa un romanzo tutt'altro che extra-vagante. Bra non è stata, come accade per il paese di qualche altro scrittore, l’umbilicus mundi o un amnio protettivo, ma una sor- ta di vizio impunito, un luogo che, come nel gioco dei bambi- ni quando chiudono gli occhi per sognare (immagine già di Pavese e così tipica in Arpino), nidifica utopie e speranze, ri- scaldando i progetti più sfrenati: non si resta a morirvi come mosche nel vino. Qui si è formato il giovane rampollo di una famiglia di «semplice gente provinciale», come registra la poe- sia Cronaca piemontese; è cresciuto all'ombra di una madre di radice contadina e di un padre colonnello di rigidi princìpi e di «errori condotti con stile». Qui ha sentito gli odori del cuoio e del tannino, dei concimi chimici e del guano che «costringo- no la gente a fare in fretta per le strade o, se si è d'estate, a sa- lire nelle vigne di collina, per darsi respiro e stappare la botti- glia vecchia». Tutte parole che oggi fanno parte di un libro di racconti, Regina di cuoi, pubblicato a cura di Cetta Bernardo e presentato da Lorenzo Mondo, il quale discorre giustamente dell’«anima indulgente di Arpino», del suo lavoro che nasce «da un abbandono di amicizia con gli uomini e con le cose». Ne viene una summa paesana raccontata in modi a tratti gonfi.di pietà: notti, amici, caffè dove si gioca a carte e a bi- liardo, madonne pellegrine e pendolari che vanno e vengono dalla grande città su treni da Far West. Scompartimenti di ter- za classe in cui è stata fatta la storia degli anni Cinquanta; l’T- talia minore delle partenze antelucane e degli arrivi notturni, degli impasti d’aglio e dialetto, di sonno e di vino, di caldo e di freddo, di vite quotidianamente itineranti per sfuggire a più amari destini: il campo o la vigna dai frutti stentati o il pa- drone della piccola fabbrica locale, che è peggio del castigo di io. Ce n'è un bel resoconto nell'articolo Operai di campagna, che «Il Mondo» pubblica il 25 settembre 1956, antivigilia di un romanzo-tappa come Gli anni del giudizio (1958). La fine dell'adolescenza e i nuovi doveri, la giovane com- pagna e il matrimonio portano Arpino in città. Ma anche qui la transizione è in atto e la prima casa è appunto in bilico tra vecchia frontiera e nuova società, in una borgata che si chia- ma Leumann e che può entrare tanto in una poesia d'amore coniugale quanto in un flash, in un’istantanea esemplare che «Il Mondo» pubblica il 4 luglio 1953 con il titolo Terra corta: «Questa di Leumann è detta Terra Corta, dal nome della ca- scina che fino ai tempi della guerra era l’unico caseggiato vivo nella pianura. Veneti e siciliani e tedeschi e muratori e profu- ghi e qualche provinciale che volle venire a stare a Torino abi- tano oggi le case nuove a un piano, colorate di azzurro e di verde, e da ogni parte d’Italia la gente ha portato le sue abitu- dini, i suoi vecchi letti di ferro, le sue madonne e gli stracci e i bambini in stanze chiare come ospedali, che non hanno l’aria adatta ad accettare una vita antica e familiare. Queste costru- zioni che sanno di cartone e di mare, come paesaggi e fondali finti cinematografici, non reggono un chiodo: in alcune di es- se, d'inverno, la muffa cresce sui risvolti dei lenzuoli dalla se- ra al mattino, pure l'aspetto è bello e pulito, e fa effetto vede- re i panni del bucato, fuori di quei balconi e il colore dei mate- rassi, e le donne sedute sui gradini a chiacchierare e a fare il cucito». La larghezza della citazione è motivata. In un'intervista rilasciata a Claudio Marabini, Arpino dirà una volta, parlando dei suoi racconti: «La vita è fatta di una piramide di particola- ri». Lo stesso — e a maggior ragione — si potrebbe dire per que- sta prosa e per tutte le altre comparse sul «Mondo». Rispetto ai racconti, la differenza è piuttosto nella pulizia dello stile, che contrasta con l’immagine vulgata di un Arpino scultore di figure e di parole. Testimoniava lui stesso: «Per me scrivere non è dipingere, affrescare, ma scalpellare. Non sono un pit- tore, ma uno scultore. È fatica sì, ma anche felicità: a volte vi sono passaggi, in una pagina, che mi costringono a dieci rifa- cimenti (la sintesi è la mia mania) ma alla fine mi sento libero come un uccello. C'est mon métier». Ecco riconosciuto il biso- gno agonistico e drammatico di affrontare la materia. Ma il giornalista non consente con l’autoritratto dello scrittore, che a qualcuno, come tale, è potuto apparire «troppo artificioso e monotono». In parte è la lezione delle cose, la realtà che ad Arpino piace d'istinto e che gli si impone con icastica evidenza; in parte è il canone di un'educazione lette- raria che, se non può dirsi affatto neorealista, prende però dalla realtà il suo principio; in parte è la vigilanza rigorosa di Pannunzio, quell’uniformità di tono che nel giornale s’impo- neva a prima vista e che presiedeva a ogni pagina. Né è ne- cessario pensare a lezioni dirette, poiché si imparava anche per corrispondenza: bastando l'esempio di nitidezza e di so-