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Storici Latini - Cesare - Nepote - Sallustio - Svetonio - Tacito PDF

4359 Pages·2013·14.237 MB·Italian
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440 2 Titoli originali: De bello gallico – De bello civili, trad. di Maria Pia Vigoriti; De viris illustribus, trad. di Cipriano Conti; De coniuratione Catilinae, trad. di Silvia Perezzani e Sandro Usai; Bellum Iugurthinum – Historiae, trad. di Francesco Casorati; De vita Caesarum, trad. di Francesco Casorati, Dorotea Medici, Roberto Pagan, Claudia Valerio; Historiae – Fragmenta Historiarum, trad. di Gian Domenico Mazzocato; Annales, trad. di Lidia Storoni Mazzolani; De origine et situ Germanorum liber – De vita Iulii Agricolae liber – Dialogus de oratoribus, trad. di Gian Domenico Mazzocato Prima edizione ebook: aprile 2013 © 2011 Newton Compton editori s.r.l. Roma, Casella postale 6214 ISBN 978-88-541-5525-1 www.newtoncompton.com Edizione elettronica realizzata da Gag srl 3 Storici latini Gaio Giulio Cesare • Cornelio Nepote Gaio Sallustio Crispo • Gaio Svetonio Tranquillo Publio Cornelio Tacito A cura di Francesco Casorati, Cipriano Conti, Gian Domenico Mazzocato, Lidia Storoni Mazzolani, Maria Pia Vigoriti Introduzioni di Lietta De Salvo, Enzo Mandruzzato, Lidia Storoni Mazzolani Edizioni integrali con testo latino a fronte Newton Compton editori 4 Gaio Giulio Cesare La guerra gallica – La guerra civile A cura di Maria Pia Vigoriti 5 Introduzione L’eredità di Giulio Cesare Abbondano i nomi antonomastici, ma solo uno, quello di Cesare – singolare e di etimologia problematica anche per i contemporanei – è divenuto istituzionale; presto fu «il Cesare». Il cognomen non era a rigore ereditario, e già per Ottaviano, anche se figlio di Cesare, rappresentava soprattutto un’eredità politica e morale, sottolineata dai suoi seguaci e dai suoi poeti; molto di più dopo l’estinzione della dinastia Giulio-Claudia, del 69 d.C. Con Cesare e con Ottaviano antiche espressioni repubblicane, imperium e imperator, si fecero autocratiche. La radicale rivoluzione istituzionale si accompagnò a una piccola rivoluzione sintattica: da Ottaviano il Caesar imperator – uno dei «generali» – divenne l’imperator Caesar. L’epiteto restò immobile. Molto tempo dopo, divenuto più che un’istituzione, un concetto – il Sacro Romano Impero «di nazione germanica», il Reich – primo, secondo iposteri – ebbe a capo, al di sopra di tutti i Könige, un Kaiser, che conservò traccia della grafia e della pronuncia originaria. Unico per definizione non meno del papato, l’Impero durò un millennio dopo la restaurazione ufficiale di Carlo Magno, dell’800, cioè fino alla pace di Presburgo del 1806, quando Napoleone l’abolì. Disegnava un nuovo Impero di nazione francese, e incoronandosi con le proprie mani simboleggiò lo spirito laico e teista di tempi che non sentivano più imperi di legittimazione sacra. Dopo la caduta dell’ordo Napoleonica l’unicità era spezzata, eppure la 6 moltiplicazione del titolo restò eccezionale e legata al concetto d’una sovranità superiore e comune a popoli diversi. Ci fu lo Zar (da Czar, ancora Caesar) di tutte le Russie o un Impero inglese delle Indie, all’interno di un Commonwealth. Inseparabile da tutto questo è l’idea di Europa, di cui l’opera di Cesare pose le basi. Pensò a un imperium massimo e perciò sicuro, cui Augusto sancì i limiti del Reno e del Danubio come invalicabili, restando aperto il problema dell’impero dei Parti. Esattamente gli spazi previsti da Cesare. La conquista, cioè la romanizzazione della Gallia, ha fatto d’un Impero mediterraneo uno Stato che comprendeva di fatto i popoli assimilabili del continente. Inoltre, impedendo una Gallia germanizzata, improntò per sempre l’Europa a una civiltà prevalentemente greco-romana. Tutto il nostro mondo è impensabile senza l’opera di Cesare. Questo in sé non ne dice la grandezza, e forse è impossibile che gli uomini del libro capiscano la grandezza dell’uomo d’azione; e resta in parte confusa con i suoi risultati. Si può però intuirne la forza, l’originalità, la personalità. C’è da domandarsi quanto dei risultati dell’azione siano stati coscientemente voluti. Nel caso di Cesare si può dire che se ne rendeva oscuramente conto. Cesare voleva dare un senso alla storia eccezionalmente intensa e drammatica del suo tempo e lo vedeva in una monarchia, che naturalmente salvasse la sostanza dello Stato romano, la sua dialettica di «democrazia» e «aristocrazia», e dove il nome di rex era giudicato mostruoso e barbarico. Questo, dopo il suo assassinio, fu continuato e realizzato da Ottaviano. Le premesse 7 Gaio Giulio Cesare nacque a Roma il 13 luglio dal 102 al 100 a.C. La gens Iulia era di antica aristocrazia e si faceva risalire a Iulo, figlio di Enea, e perciò, Omero alla mano, a Venere; la zia paterna aveva sposato l’eroe nazionale, Gaio Mario, ed era già madre di quel Mario omonimo che ne continuerà l’opera, più anziano e autorevole cugino di Cesare. La nascita segnava già molto del suo destino. Mario era un plebeo di Arpino, incolto, nemico viscerale della nobiltà, d’un patriottismo elementare e guerriero nato; un’edizione molto rozza di Catone il Vecchio. Verso i quarant’anni ebbe il tribunato, la potente magistratura popolare, e continuò il cursus honorum, ma dovette la sua ascesa alla guerra contro Giugurta (107/105). Risolvendola con energia confermò la convinzione popolare che la condotta lenta della guerra fosse dovuta alla corruzione della nobiltà: la tesi di Sallustio nel suo Bellum Iugurthinum. Certo era necessaria la gloria per un matrimonio con una Iulia. Ma al tempo della nascita di Cesare avvenne l’apoteosi. Si profilò all’improvviso un pericolo terribile, che poteva essere l’inizio delle invasioni barbariche, o della Völkerwanderung, come le chiamano i tedeschi. Le tribù germaniche dei Cimbri (i favolosi Cimmeri?), e dei Teutoni si mossero verso occidente in cerca di nuovi stanziamenti; secondo dati di Plutarco potevano avvicinarsi al milione di persone; non solo erano popoli agguerriti, ma disperatamente decisi a trovarsi una terra. Il terrore trovò l’uomo giusto in Gaio Mario, nominato console per quattro volte consecutive dal 104 al 100. La fortuna volle che i migratori non osassero varcare le Alpi e vagarono fino alla Spagna, come i futuri Vandali; ma l’anno dopo ricomparvero decisi a penetrare con una manovra a tenaglia; i Teutoni da ovest e i Cimbri da nord, dal Brennero. A Mario fu affidato il fronte occidentale e a Lutazio Catulo quello settentrionale. Il primo scontro avvenne ad 8 Aquae Sextiae (Ave) e si risolse con una spaventosa carneficina dei barbari, che lasciarono almeno centomila morti sul terreno. Catulo non riuscì a bloccare i Cimbri, che si spostarono verso occidente per ricongiungersi con i loro «fratelli», di cui non sapevano il destino. Si batterono presso Vercelli con disperato coraggio, ma la strage fu di poco minore. Portavano elmi con draghi, armature e spade pesanti. Durante la fuga le donne, vestite di nero, li accolsero massacrandoli, poi uccisero i figli e se stesse. È lecito pensare che l’opera di Mario abbia ritardato di secoli le migrazioni germaniche, e si capisce perché la fantasia popolare ne restò catturata. E anche quella del nipote Gaio Cesare, allora in fasce. Ma aveva ragione Plutarco: Mario «non era fatto per la pace e la vita civile». Era un popolare che amava il popolo solo in divisa. Nella «contesa civile era vile», aggiunge Plutarco; e finì per recitare la parte peggiore della brutale demagogia di un Saturnino o di un Sulpicio Rufo; il generoso populismo dei Gracchi era scomparso e la dialettica tra le due grandi classi, già ammirata da Polibio, pareva impossibile. Da parte loro i Patres, il Senato, cercavano un difensore; le individualità e le personalità prevalevano sulle istituzioni, cioè sulla legalità. La cosiddetta guerra civile tra Mario e Silla, non poco paradossale, ne è il primo esempio. L’uomo dell’aristocrazia era Cornelio Silla; eppure tra lui e Mario non ci fu mai uno scontro diretto. Anzi, Silla era stato agli ordini di Mario durante la guerra giugurtina e avevano collaborato bene, nonostante le gelosie e le rivalità; Mario ne aveva ancora favorito la carriera militare e lo ebbe a fianco durante l’invasione germanica. Poi un’altra guerra interna, la cosiddetta guerra «sociale» contro le città italiche che non godevano dei pieni diritti, portò Silla molto in alto, fino al consolato dell’88, quando si profilava uno scontro molto grave 9 in Asia, dove Mitridate si costituiva un impero e preparava la liberazione della Grecia. Il comando della guerra spettava a Silla. Mario non lo sopportò. Non voleva onori, voleva battersi. Frequentava ogni giorno il Campo Marzio provandosi nelle armi, tra i sorrisi pietosi dei giovani. Era quasi settantenne, obeso, malato, ma non poteva lasciare ad altri quel grandioso duello mitridatico che si sarebbe svolto nelle terre più ricche e civili del mondo. Plutarco non lo capiva: Mario era un uomo smisurato, shakespeariano; Cicerone lo farà l’eroe d’un’epopea. Intanto veniva coinvolto nei delitti dei popolari contro gli aristocratici e i sillani; si arrivò a distruggere il palazzo e le ville del generale in guerra; la moglie e i parenti si salvarono a stento e lo raggiunsero al fronte con molti altri fuggiaschi. Silla s’affrettò a comporre una pace difensiva con Mitridate e tornò a Roma, dove si trovò «nemico pubblico». Con la sua solita fredda energia travolse le resistenze e ristabilì l’ordine; Mario dovette fuggire. Vagò per mare, fino al Circeo, fu più volte riconosciuto e salvato, migrò fino alle rovine di Cartagine, fu respinto, ammirato e commiserato. Mitridate riprese la guerra e Silla tornò in oriente. Alle sue spalle Mario, con l’aiuto di Cinna, ricostituì la sua fazione, installandosi a Roma come un satrapo selvaggio. Ci fu una vera orgia di sangue. Aveva covato fin dalla giovinezza una profezia che gli prometteva sette consolati: il settimo, per pochi giorni, l’ottenne. Morì nell’86, tra orrori e incubi. Intanto Silla si batteva bene in Grecia, dove Atene si era svegliata a un’anacronistica passione di libertà; la espugnò e l’abbandonò al saccheggio, ma ne risparmiò i monumenti, disse, in omaggio ai grandi morti. Fece una seconda pace con Mitridate e tornò a Roma nell’82. Non fu il ritorno del generale vincitore; dovette farsi strada tra le resistenze dei mariani «usando della golpe e del lione», avrebbe detto 10

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