ebook img

Storia europea della letteratura italiana - III. La letteratura della Nazione PDF

661 Pages·2009·2.79 MB·Italian
Save to my drive
Quick download
Download
Most books are stored in the elastic cloud where traffic is expensive. For this reason, we have a limit on daily download.

Preview Storia europea della letteratura italiana - III. La letteratura della Nazione

Alberto Asor Rosa Storia europea della letteratura italiana III. La letteratura della Nazione Einaudi A Caterina, Giovanni, Francesca, Elena, Eleonora. Le schede a cura di Sabine Koesters Gensini inserite nei box (e nell’indice generale indicate in corsivo) non sono il sostituto di un organico profilo di storia linguistica italiana, bensí «medaglioni» utili a integrare con fondamentali nozioni di storia della lingua l’ampia narrazione dei fatti e dei movimenti letterari compiuta nel volume. Nel testo, i rimandi al vol. I o al vol. II si riferiscono a: A. ASOR ROSA, Storia europea della letteratura italiana, I. Le origini e il Rinascimento e II. Dalla decadenza al Risorgimento, Einaudi, Torino 2009. Capitolo primo L’Italia unita. Classicismo, positivismo, verismo (1870-1900) 1. Nascita di una Nazione. Cosí, alla metà della seconda metà del secolo XIX, nasce in Europa una nuova Nazione: l’Italia. Se Nazione è una sintesi complessa di identità antropologiche, comunanza storica e unità linguistica, non si può dire certo che esser nati a Nazione nel corso dei secoli che vanno dall’VIII al XV dopo Cristo, com’era accaduto (con rilevanti differenze fra l’uno e l’altro caso, ovviamente, sulle quali non siamo in grado di soffermarci) al Portogallo, alla Spagna, alla Francia e all’Inghilterra, e diventarlo quando la storia moderna europea era iniziata da un pezzo, fosse esattamente la stessa cosa, anche se qualcuno allora s’illuse che cosí potesse essere. Formalmente e istituzionalmente l’Italia fu dal 1861, e poi, con maggiore pienezza, dal 1870, quel che era già la maggior parte degli Stati europei di allora: una struttura dotata ovunque sul proprio territorio delle medesime funzioni e leggi e istituzioni, vocata a organizzare in maniera unitaria la stragrande maggioranza di quelli che parlavano italiano, con un esercito, una scuola, un sovrano e un Parlamento, che tutti li rappresentavano in modo passabilmente omogeneo. In pratica, grandi problemi proprio allora si aprirono. Altre due grandi etnie europee avevano conseguito piú o meno nello stesso periodo il medesimo obiettivo dell’unità politico-istituzionale nazionale: la Grecia e la Germania. Dalle differenze con questi due altri processi paralleli e quasi analoghi al nostro, si può forse meglio intendere la peculiarità del caso italiano (che, del resto, attraversa tutta la nostra storia, da allora a oggi). La Grecia era stata tutta per secoli sottoposta alla potenza ottomana: aveva cioè conosciuto molto meno dell’Italia frammentazioni particolaristiche. Essa, inoltre, era contraddistinta da due potenti fattori unitari: la lingua e la religione (greco-ortodossa), che durante il predominio turco erano stati tutte e due linee di resistenza e stimoli permanenti di identità nazionale. Quando, qualche decennio prima dell’Italia (1830), fu, con l’aiuto delle grandi potenze (Francia, Inghilterra e Russia), proclamata l’indipendenza della Grecia, essa generò un paese fragile, politicamente incerto, ed economicamente debole, ma senza gravi problemi d’identità nazionale. L’unità tedesca era nata, come abbiamo visto, sotto il segno dell’egemonismo prussiano. Ciò avrebbe provocato gravi e laceranti ricadute piú avanti. Ma, nell’immediato, sortí l’effetto di cementare in un blocco unico di potere l’aristocrazia terriera e militarista e la borghesia imprenditoriale e finanziaria, allora in piena ascesa. Inoltre, nelle viscere della cultura tedesca fermentava ancora l’eredità della riforma protestante, che aveva avvicinato, come in Italia sarebbe accaduto, e in maniera sempre imperfetta e vacillante, solo molto piú tardi, classi alte e classi basse della popolazione. I tedeschi leggevano i libri sacri in tedesco, gli italiani in latino; e il tedesco dei libri sacri – cioè il tedesco di Lutero – era stato all’origine della lingua letteraria tedesca moderna. In Italia, invece, c’era stata la «rivoluzione petrarchesca» di Bembo, che aveva riguardato ovviamente una piccolissima parte della popolazione. Perciò in Germania l’unità politico-istituzionale, per quanto conseguita piú o meno nei medesimi anni, produsse effetti di coesione nazionale e culturale piú estesi e immediati che da noi. C’entrava, certo, anche il piú elevato grado di alfabetizzazione delle popolazioni di lingua tedesca – dato non irrilevante, come si può capire, quando si parla di fatti culturali e letterari. La nascita della «nazione Italia» faceva parte di quel grande processo di reazione alle logiche e ai sistemi della Santa Alleanza, che, come abbiamo visto (cfr. vol. II, pp. 403 sgg.), cercavano d’imporre ai popoli principî estranei alla loro piú profonda identità (l’indiscutibile legittimità dei Sovrani, il rispetto assoluto della Religione, il carattere sacrale, inappellabile, delle Istituzioni). Il processo, quando Italia e Germania rientrarono sulla scena europea alla pari con Francia, Inghilterra, Spagna, ecc., cambiando con la loro presenza gli equilibri di potere nel continente, non fu ancora totalmente compiuto in Europa: ne rimanevano fuori, ad esempio, tutte le numerose etnie inglobate nell’ancora gigantesco e vitale Impero austro-ungarico (gli ungheresi stessi, innanzi tutto, a lungo associati tuttavia al dominante elemento tedesco nella gestione comune del potere; i cechi, gli slovacchi, i croati, gli italiani del Trentino e della Venezia Giulia; i polacchi, ancora divisi, peraltro, fra Austria, Russia e Germania): formidabili elementi scatenanti del futuro conflitto mondiale (1914-18). All’orgoglio, innegabile, per la riconquistata unità e indipendenza, e per essere entrati, per la prima volta da secoli, con pari dignità nel concerto delle grandi potenze europee, s’accompagnò presto in Italia la percezione acuta – che intellettuali e scrittori subito raccolsero e amplificarono – della gravità dei problemi con cui misurarsi. Fu un problema, persino, la scelta della capitale. 1.1. Roma capitale. In uno splendido capitolo d’un libro che resiste perfettamente allo scorrere del tempo (Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, 1962), Federico Chabod descrisse i vari modi e le diverse posizioni che caratterizzarono la «questione romana», dopo che Roma fu presa. Non poche furono le voci contrarie a farne la capitale del nuovo regno, ivi compresa quella d’una personalità autorevole come Massimo d’Azeglio, il quale sosteneva che un ambiente come quello romano, «impregnato di miasmi di 2500 anni di violenze materiali e di pressioni morali esercitate dai suoi successivi governi nel mondo», non era il piú adatto per un’Italia giovane, nuova, che avrebbe fatto meglio a riconoscersi nel proprio futuro che nel proprio passato. Allo stesso D’Azeglio, del resto, si dovette allora la frase destinata a diventare famosa, secondo cui, «fatta l’Italia, bisognava fare gli Italiani». E cioè: l’unità politico-istituzionale non comportava di per sé che i cittadini di quel nuovo regno fossero all’altezza della situazione che s’era creata (in base ai nostri ragionamenti, si potrebbe addirittura osservare che l’unità politico-istituzionale non comportava di per sé che il «paese reale» fosse veramente unito). Altri rilevavano che, tra le città italiane, Roma, a eccezione del luminoso episodio della repubblica del ’48, non aveva certo brillato per la sua adesione alla causa nazionale. Altri ancora osservavano che Roma, nella sua realtà pratica, non era neanche una città europea vera e propria, ma un grosso borgo, dove la maggior parte della popolazione o era vissuta in miseria o era dipesa quasi esclusivamente dalle attività ecclesiastiche e dalle gerarchie clericali. Prevalse tuttavia la tesi opposta. Non tanto per le infuocate, alquanto retoriche, e comunque per molti ancora assai suggestive, parole di Giuseppe Mazzini, il quale rivendicava a Roma una precisa «missione» nell’evoluzione storica e ideale del mondo moderno: quella di civilizzare e unificare nel segno del Progresso l’intera Umanità. Dunque, nella visione quasi profetica del politico ligure, «la terza Roma, la Roma del Popolo, dopo quella dei Cesari e dei Papi» (F. Chabod). Quanto per il parere, piú modesto e meditato, e piú serio, degli uomini della vecchia Destra storica (Cavour, Lanza, Sella, dietro i quali s’indovinava l’ombra di Gioberti), secondo cui non c’era altra città italiana che potesse reggere il confronto con altre capitali europee, come Londra o Parigi o Vienna o Berlino; o che, comunque, per la sua posizione geografica e la sua storia, potesse fungere da baricentro del nuovo, fragile organismo nazionale: collocandosi in maniera equilibrata tra le diverse tradizioni politiche (il neoguelfismo moderato giobertiano e il rivoluzionarismo mazziniano del ’48) e tra le diverse parti del paese e, in modo particolare, tra Nord e Sud. Cosí, attuando i deliberati del governo e del Parlamento, il 1° luglio 1871 furono trasferiti da Firenze a Roma i Ministeri e il giorno dopo entrò solennemente in città il re Vittorio Emanuele II. Il 1° settembre si tenne in Roma la prima seduta del Parlamento nazionale, rinnovato per l’occasione. Roma capitale non raggiunse mai gli effetti di centralizzazione conseguiti da Parigi e, sia pure in maniera diversa, da Londra, nella vita culturale nazionale. Tuttavia – anche in conseguenza del fatto che i gangli vitali delle attività politico-istituzionali, dal Parlamento al governo, vi furono da allora concentrati – una diversa trama di rapporti fra i diversi centri culturali italiani cominciò a crearsi e Roma vi esercitò una funzione crescente. Già nei decenni tra il 1880 e la fine del secolo questa funzione, come vedremo, cominciò a espletarsi (cfr. infra, cap. I, par. 8.1. sgg.). 2. I problemi reali. Gli italiani, dunque, si accorsero presto che, nonostante tutto il sangue versato, era piú facile unire e liberare l’Italia che amministrarla e governarla. Per meglio capire tutto ciò, ovviamente, bisogna chiederne conto ai libri di storia. Noi ci limitiamo a riassumere schematicamente alcuni dati, senza i quali anche la comprensione dei fenomeni culturali e letterari (si pensi, ad esempio, al Verismo) può risultare compromessa. L’unione politico-istituzionale, compiuta attraverso tutte le guerre e le lotte del Risorgimento, urtava contro innumerevoli e perduranti motivi di divisione e di particolarismo. L’Italia era ancora, marcatamente, un paese agricolo e conseguentemente contadino (al momento dell’unità, il 56,7 per cento del prodotto privato lordo annuale proveniva da questo settore, il quale assorbiva ben il 70 per cento della popolazione attiva; per giunta, in conseguenza dei forti squilibri e delle enormi arretratezze tecnologiche, scarsa era la competitività di questo settore sui mercati europei piú avanzati). Quelle che oggi vengono comunemente definite le infrastrutture (strade, ferrovie, porti numerosi e attrezzati), praticamente non esistevano, oppure erano anch’esse mal distribuite fra le diverse zone del paese. 2.1. La «questione meridionale». Quest’ultimo problema apparve subito uno dei piú rilevanti. Esistevano forti disomogeneità e squilibri sul territorio nazionale, che rendevano difficile l’adozione di misure politiche ed economiche universalmente valide. Al momento dell’unità era già sensibile una differenza, economica e sociale, tra un Centro-Nord, dove esisteva qualche notevole insediamento industriale e un’agricoltura in vaste zone già razionalizzata, come nella pianura padana, e un Sud, quasi esclusivamente agricolo, dove per di piú il territorio era in gran parte diviso tra proprietà contadine troppo piccole per essere produttive e l’immenso latifondo, dove non era possibile praticare colture intensive e pregiate. In seguito al decollo industriale del Nord, destinato a intensificarsi nei successivi trenta- quarant’anni, il divario fra le due zone del paese tende ad aumentare, invece che a diminuire. Nasce precocemente (nei fatti; ma la storia dell’intera cultura italiana fino ai nostri giorni ne fu influenzata) una «questione meridionale»: di cui in quei primi anni furono protagonisti e interpreti alcuni illuminati rappresentanti della borghesia colta e proprietaria italiana (non necessariamente meridionali anche loro), come i toscani Leopoldo Franchetti (1847-1917) e Giorgio Sidney Sonnino (1847-1922), autori di una fondamentale inchiesta sulle condizioni economiche e sociali della Sicilia, e il molisano Giustino Fortunato (1848-1932), autore di una moltitudine di discorsi, saggi e interventi parlamentari, raccolti piú tardi ne Il Mezzogiorno e lo Stato unitario (1911). Intendiamoci (per non suscitare equivoci): il pensiero meridionalista «classico» si mantenne tutto entro i parametri della ideologia risorgimentale dominante e i Franchetti, i Sonnino e i Fortunato e, accanto a loro, gli altri protagonisti di tale vicenda (fra i quali spicca il nome di Pasquale Villari: cfr. infra, cap. I, par. 10.), furono rigorosamente unitaristi e monarchici. Questo non escluse da parte loro la denuncia dei mali endemici del Sud (aggravati persino dalle misure prese dal governo nazionale, come il «protezionismo», che favoriva l’industria, e quindi il Nord, e svantaggiava i tipici prodotti meridionali, grano, frutta e verdura) e la richiesta di interventi atti a risollevare le condizioni davvero miserabili delle plebi meridionali.

Description:
Per la prima volta una storia della letteratura dell'Italia unita arriva fino ai giorni nostri, fino ai romanzi di Camilleri, di Ammaniti, di Melania Mazzucco, di Aldo Nove e di Simona Vinci. In questo volume, infatti, Asor Rosa non si limita a ripercorrere le ultime fasi di quella modernità inizia
See more

The list of books you might like

Most books are stored in the elastic cloud where traffic is expensive. For this reason, we have a limit on daily download.