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Storia europea della letteratura italiana - II. Dalla decadenza al Risorgimento PDF

668 Pages·2009·2.85 MB·Italian
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Alberto Asor Rosa Storia europea della letteratura italiana II. Dalla decadenza al Risorgimento Einaudi A Caterina, Giovanni, Francesca, Elena, Eleonora. Le schede a cura di Sabine Koesters Gensini inserite nei box (e nell’indice generale indicate in corsivo) non sono il sostituto di un organico profilo di storia linguistica italiana, bensí «medaglioni» utili a integrare con fondamentali nozioni di storia della lingua l’ampia narrazione dei fatti e dei movimenti letterari compiuta nel volume. Nel testo, i rimandi al vol. I o al vol. III si riferiscono a: A. ASOR ROSA, Storia europea della letteratura italiana, I. Le origini e il Rinascimento e III. La letteratura della Nazione, Einaudi, Torino 2009. Capitolo primo L’età del Barocco e della Nuova Scienza (1595-1640) 1. La crisi del predominio spagnolo e la situazione politico-economica italiana. Alla fase di relativa tranquillità e benessere, seguita alla pace di Cateau Cambrésis, subentra, a partire dal secondo decennio del XVII secolo, una nuova serie di guerre e di atrocità devastanti. In Europa si riaccende violentissima la lotta per il predominio tra Francia e Spagna, che però a un certo punto coinvolse gli Stati di quasi tutto il continente (Impero, Stati tedeschi, Svezia, Olanda, Inghilterra, ecc.). Motivi religiosi e motivi politici e di potere s’intrecciano strettamente nel corso della lunga contesa (guerra dei Trent’anni, 1618-48): ma a poco a poco, e soprattutto nella seconda metà del secolo, con il regno in Francia di Luigi XIV (il cosiddetto Re Sole), i secondi tendono nettamente a prevalere sui primi. All’Italia questo periodo di turbamenti europei interessa soprattutto per gli aspetti catastrofici che imprese militari, assedi e saccheggi produssero sul suo territorio. Due, soprattutto, le guerre che vi si combatterono: la cosiddetta impresa della Valtellina, con cui la Spagna tentò di strappare alla Confederazione svizzera questo cantone cattolico (1620-26), e le due guerre per la successione al ducato di Monferrato (1613-18 e 1627-31: della seconda diede un quadro vivido e impressionante Alessandro Manzoni nei Promessi sposi, descrivendo la terribile calata dei lanzichenecchi in Lombardia nell’anno 1628). In ambedue i casi le mire spagnole furono rese vane dalla sempre piú dominante potenza francese. Nel 1630 un brutale saccheggio ridusse in condizioni pietose la città di Mantova, uno dei principali centri della cultura e dell’arte rinascimentali, che non se ne sarebbe mai piú pienamente riavuta. Si può dire cosí che, se fino alla pace dei Pirenei (1659) si assiste alla crisi della potenza spagnola in Italia, dopo quella data, e fino agli inizi del secolo successivo, essa entra in piena decadenza, senza che, contemporaneamente, si assista a qualche segno di ripresa della vitalità italiana. Anzi, la situazione tende ad aggravarsi. Piú in generale parlando, il rapido sviluppo delle vie di commercio transcontinentali e il decollo impetuoso di alcune economie nazionali europee (soprattutto Francia, Inghilterra e Olanda) relegavano l’Italia in un ruolo economico sempre piú secondario. Dal punto di vista politico, gli Stati italiani accentuano ancor di piú la loro curva discendente. Venezia, premuta dagli Ottomani nel Mediterraneo (perdita dell’isola di Candia nel 1669), subisce nel corso della guerra della Valtellina la bruciante umiliazione dell’abbandono da parte dell’alleato francese (pace di Monzon, 1626) ed è indotta perciò a ritirarsi ancor piú prudentemente nei propri confini. Il ducato di Savoia subisce pesantemente le conseguenze delle guerre del Monferrato, che si svolgono prevalentemente sul suo territorio, e, anche in conseguenza di conflitti intestini, rientra pressoché integralmente nell’orbita francese. La Toscana prosegue stancamente il proprio percorso sotto il dominio ereditario della dinastia dei Medici, i cui meriti maggiori furono le bonifiche delle zone paludose interne e la creazione di un nuovo, grande porto, quello di Livorno. A Roma i papi amministrano per quanto possono strumenti e indirizzi della Controriforma, ma subiscono anche loro i contraccolpi (talvolta umilianti) dei grandi conflitti europei. Fra il 1592 e il 1700 si susseguono ben undici pontefici, tutti provenienti dalle grandi famiglie nobiliari romane e italiane (Aldobrandini, Ludovisi, Odescalchi, Chigi, Pignatelli, ecc.). Fra le personalità piú rilevanti di questa lunga serie, Paolo V Borghese (1605-21) e Urbano VIII Barberini (1623- 44). Nonostante il messaggio moralizzatore della Controriforma, l’intreccio permanente fra il soglio pontificio e la casta nobiliare italiana favorí il perdurare di favoritismi e cariche nell’ambito delle rispettive famiglie («piccolo nepotismo»). Tra gli effetti positivi di questo non brillante periodo, la continuazione della politica di urbanizzazione e abbellimento della città di Roma, nella quale spiccano il completamento della fabbrica di San Pietro (facciata del Maderno, 1607-14) e la creazione dell’immenso colonnato antistante, opera di Gian Lorenzo Bernini (1656-67). I domini spagnoli del Mezzogiorno d’Italia sono meno travagliati da guerre esterne, ma, a causa del malgoverno, lí peggiore che altrove, conoscono rivolte interne, talvolta di grandi proporzioni, e tuttavia non destinate a produrre effetti duraturi, se non di ulteriore turbamento e degrado. Sono ben note quelle di Napoli del 1647 (legata al nome del capopopolo Masaniello), di Palermo, pure del 1647, e di Messina, del 1672-78. Alle notizie riguardanti piú direttamente l’Europa continentale e l’Italia, appare non del tutto superfluo aggiungerne alcune di altri paesi e realtà piú lontani. L’Inghilterra, ad esempio, dopo la morte di Elisabetta I (1603), attraversa un periodo di grandi turbamenti e talvolta di vera e propria guerra civile, provocati in buona parte dal tentativo di sovrani di casa Stuart (discendenti della decapitata Maria Stuarda), ora tornati sul trono, di reintrodurre la preminenza della religione cattolica, attraverso una politica rigidamente assolutistica. Non importa qui seguire tutte le vicende di questa storia travagliata. Basti ricordare che, quando Guglielmo III d’Orange, che proveniva da una delle piú nobili famiglie riformate d’Olanda, sbarca in Inghilterra il 5 novembre 1688 e ne diventa re al posto dell’ultimo degli Stuart (Giacomo II), è aperta la porta alla storia costituzionale dell’Inghilterra moderna, fondata sul rispetto dei diritti dei cittadini («Dichiarazione dei diritti», 13 febbraio 1689), e sulla tolleranza religiosa («Atto di tolleranza»: concedeva libertà di culto a tutti i dissidenti, esclusi i seguaci del papa, considerati nemici dello Stato, e i liberi pensatori). Nel frattempo, però, proprio in conseguenza della politica filo-cattolica di Carlo I Stuart, un gruppo consistente di puritani, passati alla storia come i «padri pellegrini», lasciarono l’Inghilterra e si stabilirono sulle coste occidentali del Nord America (a nord del fiume Hudson), fondando (1620) il nucleo di colonie noto poi con il nome di Nuova Inghilterra. Insieme con altre colonie inglesi piú a sud (Virginia, Maryland, Carolina), esse costituirono il germe originario degli Stati Uniti d’America. È ovvio che si tratta di situazioni che solo dopo due o tre secoli intersecarono il cammino della politica e della cultura italiane. Tuttavia, segnalare l’inizio di questo lungo e poderoso processo serve ad avere fin d’ora il senso delle proporzioni: per quanto allora non consapevole da parte di nessuno, esso ci dà oggi il senso di come andassero mutando, e in maniera ciclopica, la fisionomia dei diversi centri culturali nazionali e il ruolo giocato da ognuno di loro nel concerto mondiale, sempre piú ampio. 2. Il grande tema della «decadenza italiana». Non dovrebbero esserci dubbi (come abbiamo già detto) che in questo periodo l’Italia conosca una fase di acuta decadenza politico-economica. I parametri di misurazione in questo campo sono piú facilmente e rigorosamente determinabili. È incontestabile, ad esempio, la contrazione pesante dell’industria, del commercio e della finanza, i tre campi in cui l’Italia aveva avuto il primato fra il XIV secolo e la metà del XVI. Ne discendono conseguenze strutturali su cui ci soffermeremo piú avanti. Anche dal punto di vista politico e militare il divario fra gli Stati italiani e quelli europei tende a farsi abissale. La nozione di «decadenza» in campo culturale e letterario è invece piú difficile da misurare. Bisognerebbe avere criteri certi per stabilire qual è il «meglio», per arrivare a capire, e giudicare qual è «il peggio», e come e quando si passi dal primo al secondo (o anche dal secondo al primo). L’incertezza dei criteri in questo campo non può indurci però ad accantonare il problema come inesistente (come qualcuno ha fatto, e fa). Qualche chiarimento può venirci dall’analisi di quelle posizioni che in passato non hanno esitato a definire un’«età di decadenza» il Seicento italiano. La varietà e diversità delle critiche rivolte a questo secolo si possono ridurre sostanzialmente a due (ovvero, a due tipi di ragionamento storico-culturale e/o ideologico). Quando, nei primi decenni del Settecento, e in modo particolare a metà di quel secolo, critici e storici ispirati al nuovo movimento dell’Arcadia esaminarono e giudicarono il periodo precedente (cfr. Girolamo Tiraboschi, infra, cap. II, par. 7.1.), non ebbero dubbi nel condannare le cadute di stile e di gusto, che si sarebbero verificate nei poeti e nei letterati secenteschi, a causa del loro preteso allontanamento dai grandi canoni della tradizione classica del passato (da considerarsi, come al solito, sia nella sua variante antica sia in quella moderna). Tratterebbesi dunque di una letteratura in cui il gioco formale spinto avrebbe prevaricato a tal punto sulle regole del «buon gusto» e della giusta misura, da produrre risultati abnormi e inaccettabili. Questa è la decadenza seicentesca per gli Arcadi e i loro fiancheggiatori (e piú in generale per i classicisti di stretta osservanza): è un punto di vista, come si può capire, fortemente discutibile. È espresso, infatti, da quella che potrebbe essere definita una «parte in causa», come meglio vedremo studiando il periodo successivo. Poco piú di cinquant’anni dopo, e poi durante tutto il corso del secolo XIX, nella letteratura italiana del Seicento venne individuata, da parte degli uomini del nostro Risorgimento, da Foscolo a De Sanctis, un caso esemplare di dissociazione fra creazione letteraria e vita morale, fra invenzione formale e consistenza e qualità dei contenuti. Cioè: secondo i loro critici, i poeti e i letterati del Seicento spingevano fino all’esasperazione quella tendenza tipica degli intellettuali italiani anche dei secoli precedenti a non voler prendere posizione sulle grandi questioni politiche, morali e religiose della propria nazione e del proprio tempo. Da ciò una creazione letteraria fatua, inconsistente, sempre piú lontana dai grandi temi morali e ideologici della contemporaneità. Questa è la decadenza seicentesca per gli storici e i critici del Risorgimento italiano, e per gli storici e i critici che nel secolo successivo (fino ad Antonio Gramsci) ne condivisero le opinioni e ne seguirono l’esempio. La seconda spiegazione è senza ombra di dubbio piú complessa e ricca della prima (di cui in taluno di quegli storici e critici si tiene comunque conto). Ma forse abbisogna anch’essa di ulteriori specificazioni, e di un quadro piú complessivo e piú storico dei fenomeni. Per esempio, non c’è dubbio che, accanto allo snervamento del senso morale (il quale, tuttavia, se preso sul serio, dovrebbe esser fatto risalire a tutti i letterati e politici delle generazioni umanistico-rinascimentali, da Machiavelli ad Ariosto), andrebbe affiancato un impoverimento altrettanto drastico delle facoltà immaginative e fantastiche. Questo, a sua volta, può accadere per una quantità di motivi, sia interni che esterni: la descrizione del passaggio da un’opera come l’Orlando furioso a una come la Gerusalemme liberata ci ha consentito di descriverne alcuni. Insomma: restringimento degli orizzonti ideali, calo di tensione creativa, debole vita morale, interventi censori e repressivi; tutto contribuiva a orientare la ricerca letteraria italiana entro canali piú risaputi e scontati, meno innovativi (se non in superficie, dove invece le acque apparivano piuttosto mosse). Ma, appunto: la ricerca letteraria. Possiamo noi però ridurre la vita culturale di una nazione alla sua ricerca letteraria, intesa nel senso piú stretto del termine? Su questo interrogativo s’apre un altro nodo di problemi. 3. Le diseguaglianze di sviluppo delle forme espressive e di pensiero. Si potrebbe enunciare a questo proposito una teoria delle diseguaglianze di sviluppo delle forme espressive e di pensiero. E cioè: non è detto che letteratura, arti, filosofia, storiografia, ricerca scientifica, ecc., procedano sempre con lo stesso passo e con i medesimi criteri (se non, forse, in alcuni momenti straordinari della storia umana). E questo, naturalmente, costituisce un ulteriore motivo di prudenza nei confronti di un’applicazione rigida e generalizzata della categoria di «decadenza». Si direbbe, tenendo conto di questo nuovo criterio, che gli anni fra Cinquecento e Seicento s’aprano in Italia nel segno del pensiero e della ricerca

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Le storie della letteratura italiana hanno a lungo riprodotto l'impostazione desanctisiana, di origine risorgimentale, unitaria e nazionale. Questa di Asor Rosa, che viene dopo la lunga e variegata esperienza della Letteratura italiana Einaudi, supera definitivamente quel modello modificandolo in du
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