STORIA E FONDAMENTI DELLA MATEMATICA Luigi Borzacchini (Dip. di Matematica, Università di Bari) Parte I. Dalle origini alla matematica moderna Perché un corso di storia e fondamenti della matematica nella formazione dei futuri docenti di matematica? Non basta che conoscano la matematica stessa? Cambia qualcosa nell’insegnamento della matematica se ne conosciamo la storia? Ma partiamo dalle inchieste sull’insegnamento che in passato hanno delineato una situazione abbastanza paradossale: gli studenti in genere ritengono i loro docenti di matematica abbastanza preparati, ma incapaci di insegnarla, tanto da fare della matematica la materia meno amata dagli adolescenti. Incidentalmente: la materia più detestata è la matematica, seconda, la storia. Quindi la ‘storia della matematica’ è per uno studente quanto di peggio si possa immaginare! Perché accade questo disastro didattico nella matematica? Certo lo studio di tecniche didattiche e pedagogiche può migliorare la tecnica del docente di matematica, ma c’è una questione più radicale: diversamente dalle altre discipline in cui si impara progressivamente, l’apprendimento della matematica è qualcosa che procede per improvvise ‘illuminazioni’, per passaggi dalle tenebre alla luce. E’ normale l’esperienza di ritenere qualche idea matematica astrusa e incomprensibile per molto tempo, e poi, improvvisamente, capirla chiaramente una volta per tutte. In questo modo di apprendere normalmente le difficoltà precedenti vengono rimosse, considerate quasi un momento di cecità di fronte a qualcosa di evidente. Così lo studente di matematica e futuro docente della stessa materia ritiene ovvio quello che prima gli era astruso e ‘rimuove’ le passata difficoltà, considerandole quasi un peccato di giovinezza, e quando deve insegnare si stupisce che i suoi studenti non trovino ovvio quello che per lui è da tanti anni diventato ovvio, pur essendo stato precedentemente incomprensibile. Il maestro irlandese fra le due guerre descritto da Frank Mc Court nel Le ceneri di Angela faceva ripetere ai suoi studenti ogni mattina <chi non capisce Euclide è scemo>. In realtà la matematica non è ovvia, non è naturale, non è logica, è una conquista complessa, un faticoso processo di maturazione concettuale e mentale, non capirla è ovvio, è naturale, è logico. Per questo può aiutare la storia della matematica: può rendere chiaro questo faticoso processo, esplicitare le difficoltà, relativizzare le certezze acquisite. Occorre che un professore guardi la matematica con un doppio sguardo, uno che ne veda la certezza e la perfetta struttura architettonica, e un altro che ne veda la faticosa e incerta costruzione. Esiste la necessità di ‘fondare’ la matematica? Si potrebbe tranquillamente rispondere di no. Se consideriamo infatti gli ultimi quattro secoli davanti ai nostri occhi si presenta uno scenario segnato da una sequenza continua di stupefacenti trionfi della applicazione della matematica al mondo reale nella meccanica, ottica, elettromagnetismo, termodinamica, fisica atomica, astrofisica, biologia, etc. Ma forse proprio questo stupefacente trionfo rende ancora più affascinante il problema del trovarne le ragioni: che cosa rende il mondo ‘matematico’? Un’altra caratteristica che distingue la matematica anche dalle altre scienze è il suo rapporto con la verità e la certezza. E’ indubbio che un ‘fatto’ matematico (ad esempio che 261 non è un numero primo) anche se verificato una sola volta appare molto più certo di qualsiasi regolarità naturale, anche se verificata miliardi di volte (ad esempio che domani sorgerà il sole). Anche questa ‘certezza’ che contraddistingue il ‘fatto’ matematico non può non renderci almeno curiosi sulla sua origine. 1 E la matematica è la più antica delle discipline: uno scriba mesopotamico di quattromila anni fa potrebbe fare il suo corso di matematica elementare anche oggi: sembrerebbe solo un po’ ‘sperimentale’. Di nessuna altra disciplina si può dire lo stesso. Cioè, diversamente da tutte le altre discipline il problema filosofico in matematica non nasce tanto dalle sue incertezze o mutabilità, ma proprio invece dai suoi successi e dalla sua immutabilità. E forse per questo motivo i fondamenti della matematica non sono oggi una disciplina di natura filosofica come i fondamenti della fisica, ma si presentano come una specifica branca della matematica. In questo distingueremo il problema dei fondamenti della matematica dalla filosofia della matematica, che invece conserva un impianto filosofico. Storicamente il problema dei fondamenti sembra apparire verso la fine dell’ottocento, emergendo dalla filosofia della matematica ma diventando parte integrante del pensiero matematico. Tipicamente due problemi sono centrali nel dibattito sui fondamenti della matematica. In primo luogo il problema ontologico: quale è la natura degli enti matematici. Sono realmente esistenti? sono creazioni della mente umana? O che altro? In secondo luogo il problema epistemologico: come conosciamo la matematica? La scopriamo empiricamente? La creiamo? La intuiamo? Corollario a questi due interrogativi appare un terzo problema filosofico: perché le tecniche matematiche funzionano così bene nel mondo reale? Questo problema appare chiaro quando riflettiamo sulla profonda diversità tra ciò che vediamo intorno a noi, la realtà e quello che manipoliamo quando facciamo matematica, essenzialmente segni. Da qui possiamo far partire la nostra indagine: che cosa significa conoscere tramite segni? I SEGNI E LA RAPPRESENTAZIONE SINTATTICA La rappresentazione sintattica connette due mondi: l'essere, il mondo reale (brevemente: la semantica) e il linguaggio, il mondo dei segni (la sintassi), ogni segno ‘sta per’ qualcosa, aliquid stat pro aliquo. Ma che cosa intendiamo qui per segno? Una 'traccia' (scritta sulla carta, scolpita nella roccia, incisa sulla argilla) scelta da un insieme finito, un alfabeto, di tracce. Importante sottolineare che i nostri 'segni' sono anfibi: hanno qualcosa di astratto e ideale, in quanto li riteniamo infinitamente riproducibili in modo identico e perfettamente distinguibili tra di loro: anzi sono gli unici enti dei quali si possa realmente predicare la assoluta uguaglianza e diversità, i segni sono gli 'apriori' del concetto moderno di "uguaglianza" a partire almeno da Platone: si possono creare infiniti 5 e tutti identici fra di loro per quanto diversi possano essere dimensioni, materiali, stili di scrittura, e un 5 e un 4 sono totalmente diversi per quanto somiglianti possano apparire. Essi hanno tuttavia anche qualcosa di materiale e concreto, in quanto li riteniamo costruibili e manipolabili tecnicamente. Dal punto di vista della funzione di 'rappresentazione', vengono ritenuti convenzionali nella forma e intersoggettivi nel significato e nell'uso (secondo "regole"). Sono insomma i nostri segni logici, numerici, algebrici, ma anche quelli alfabetici nella misura in cui il linguaggio naturale viene usato come 'protocollo di comunicazione' di fatti. La linguistica contrappone spesso questo tipo di rappresentazione 'sintattica' ad una rappresentazione 'iconica', in cui gli elementi del mondo reale sono rappresentati da loro 'immagini' più o meno stilizzate (ad esempio le silhouettes di uomini e donne sulle porte delle toilettes). I segni e la loro funzione di rappresentazione sintattica sono la base di ciò che qui intendiamo per pensiero formale. Qualcosa che fa parte integrante della nostra vita, al punto da apparire del tutto ovvia. Ma è davvero tale? Ma che cosa è il ‘pensiero formale’? Può avere diversi significati, ma noi lo intendiamo come ragionare senza comprendere. E’ qualcosa di comune in logica e matematica. Confrontiamo queste due deduzioni: <ogni barese è pugliese, Giovanni è barese, quindi Giovanni è pugliese> e 2 <ogni sarchiapone è sesquipedale, Joe è un sarchiapone, quindi Joe è sesquipedale>: quale è la differenza? Le deduzioni sono identichea, ma la prima deduzione ha un ‘senso’, possiamo addirittura conoscere un tale Giovanni barese, la seconda è puramente formale, non ha alcun ‘senso’. Oppure consideriamo questi due problemi: <ogni cartone contiene 6 uova, la mamma compra 4 cartoni, quante uova compra? 24> e <ogni brik contiene 6 stuk, abbiamo 4 brik, quanti stuk abbiamo? 24>. Le operazioni sono le stesse, ma la prima è qualcosa di assolutamente comune, la seconda non significa niente, è puramente ‘formale’. Consideriamo ad esempio un astronomo (caldeo, rinascimentale o contemporaneo) che guarda la luna e ne rappresenta la posizione attraverso coordinate astronomiche (figura 1): è questo l'aspetto 'statico' della rappresentazione (descrive il regno della realtà, ed è erede della 'characteristica universalis' di Leibniz). | 27°N | rappresentazione 12°E | | moto calcolo | divenire deduzione | mutamento regola | | | | | 31°N | 28°E | interpretazione figura 1 Ma l'astronomo può anche prevedere, 'calcolare', attraverso tavole, operazioni, calcoli, equazioni, ecc., la posizione che la luna assumerà più tardi e verificare il risultato. Se la posizione così prevista e quella reale coincidono, la rappresentazione si dice corretta (matematicamente diremmo che il diagramma 'commuta'). Questo è l'aspetto 'dinamico' della rappresentazione (descrive il divenire, il mutamento, ed è erede del 'calculus ratiocinator' di Leibniz). I due 'mondi', sintassi e semantica, appaiono del tutto eterogenei e quindi si pone immediatamente il problema del come faccia questa "tecnica rappresentativa" a 'funzionare' (e che 'funzioni' è provato dalla sequenza praticamente ininterrotta di trionfi della nostra conoscenza 'sintattica', la matematica applicata soprattutto alla fisica, negli ultimi quattro secoli), non solo come 'ricetta' empirica di registrazione di fatti, ma addirittura come fondamento della stessa idea di "verità". Proviamo a delineare più precisamente le difficoltà connesse con l'idea di rappresentare la realtà tramite "segni". In primo luogo consideriamo la doppia caratterizzazione della rappresentazione sintattica, allo stesso tempo convenzionale e intersoggettiva. A pensarci bene la intersoggettività sarebbe meglio garantita da una rappresentazione iconica (e del resto la prima idea di 'rappresentazione' che troviamo nella cultura greca è mimēsis, "imitazione"), che da una sintattica, la quale invece, in quanto convenzionale, si presenta essenzialmente soggettiva. In parole povere: sulla porta della toilette, scrivere 'uomini' e 'donne' invece di usare le 'silhouettes' rende la rappresentazione più 'soggettiva' (ad esempio la rende incomprensibile a chi non capisce l'italiano). Le due caratterizzazioni del 'segno' appaiono così curiosamente contraddittorie: le ragioni della 3 "convenzionalità", legate soprattutto alla diffusione della scrittura, paradossalmente ne minano la "intersoggettività" . In secondo luogo confrontiamo, nell'esempio astronomico fatto più sopra, il moto reale della luna durante la notte, continuo, quasi uniforme e rettilineo, con le operazioni sintattiche fatte dagli astronomi, col moto delle palline sull'abaco o con gli scarabocchi delle operazioni aritmetiche o con le transizioni di stato in un calcolatore. Non solo questi sono processi discreti, ma presentano un carattere apparentemente caotico del tutto inconfrontabile col moto regolare della luna. Questa differenza continuo/discreto (regolare/caotico) si traduce in diverse difficoltà della rappresentazione: la 'rappresentazione sintattica' richiede simboli 'elementari' mentre quella 'iconica' no, le parti della rappresentazione di un oggetto non sono rappresentazioni delle parti dell'oggetto stesso (a quale parte di Socrate corrisponde la 'o' del suo nome?), mentre invece questo accade nella rappresentazione iconica (la mano nella immagine di Socrate è l'immagine della mano di Socrate), ed infine la relazione non è biunivoca: un predicato corrisponde a molti oggetti e un oggetto possiede molti predicati. In terzo luogo l’immagine reale è istantanea, distribuita su una superficie bidimensionale, mentre invece la rappresentazione simbolica si sviluppa nel tempo (nel caso della oralità) o lungo una linea da seguire con la mano o con lo sguardo (nella scrittura). In quarto luogo la corrispondenza è abbastanza semplice per termini osservativi (come "casa" o "giallo"), più complessa per termini astratti (come "bellezza" o "giustizia") o costrutti teorici (come "carica elettrica"), ma esistono parole per le quali la corrispondenza è del tutto impossibile, quali "essere", "verità", "negazione", ecc. Addirittura nella realtà rappresentata dalla proposizione "non c'è niente di rosso" non solo non troviamo qualcosa corrispondente a "non", a "niente" o a "c'è", ma neanche qualcosa corrispondente a "rosso". Un'ape forse può trasmettere informazioni sulla presenza di polline semplicemente 'mimando' direzione e distanza, ma può in tal caso 'mentire' o 'riconoscere un errore', in generale tematizzare il falso? Esistono poi i termini matematici, quali numeri o relazioni ("uguale" o "più/meno"), i quali non ammettono corrispondenze 'analitiche', ma solo 'olistiche', relative cioè alla 'totalità' della immagine, non sono ‘attributi’ ma ‘relazioni’ tra cose: in "ci sono due stelle" o "i pianeti hanno uguale luminostità" il 'due' o l''uguale' non possono essere predicati di nessun oggetto singolo, ma solo del fatto complessivo. Alla periferia della scienza europea troviamo zone dove, del pensiero formale, si perdono le tracce. Il bambino di Piaget arriva al pensiero formale lentamente tra i 6 e gli 11 anni, ed in modo in fondo abbastanza misterioso anche se la scuola sembra giocarvi un ruolo decisivo. Qualcosa di analogo si trova nelle indagini antropologiche, quali quelle di Levi-Strauss. Negli | idee | | mente | | | | oggetti parole | | | realtà rappresentazione linguaggio figura 2 anni ’30 Luria e Vigotskij approfittarono della politica stalinista di imposizione della scuola di massa per studiare la transizione in tempi rapidi da ‘culture orali’ a ‘culture della scrittura’. In Uzbekistan trovarono una popolazione di antica cultura, ma del tutto analfabeta, che fu costretta nel giro di pochi anni a passare ad una scolarizzazione integrale. Fratelli più grandi analfabeti e fratelli più piccoli secolarizzati. Impressionante il cambiamento per quanto riguardava il ‘pensiero 4 formale’, che sembrava quasi assente nei primi e ‘normale’ nei secondi. Ad esempio di fronte a questioni del tipo “Nei boschi qui intorno tutti gli orsi sono marroni. Se incontri un orso, di che colore è?” Entrambi rispondevano “ovviamente, marrone”. Ma di fronte alla stessa questione riferita però agli orsi bianchi (mai visti dagli uzbechi) dell’estremo nord, mentre il secondo rispondeva “ovviamente bianchi”, il primo mostrava difficoltà a fare una inferenza riguardo fatti di cui non aveva esperienza. Il Bororo di Levi-Strauss o l'uzbeco di Luria appaiono fuori del pensiero formale, ma Levi- Strauss insiste che non si tratta di 'illogicità' ma di una logica "concreta" al posto di una logica "formale", e Luria sottolinea l'apparire del pensiero formale al seguito della scolarizzazione di massa. Il pensiero formale è nato 'una volta sola', intorno al V sec. A.C. in Grecia. Quali forze segnano questo emergere? Sono i secoli che segnano l'affermazione definitiva di una economia basata sulla moneta, della città e della sua scuola, l'emergere degli intellettuali come ceto laico, il crollo della famiglia allargata, la diffusione di massa della scrittura alfabetica. Di questa specie di 'melting pot' forse l'aspetto che ci interessa sottolineare, visto che dobbiamo studiare i 'segni', è il ruolo pervasivo della tecnologia alfabetica. Del resto diversi autori hanno sottolineato il ruolo decisivo delle forme linguistiche e del medium comunicativo nella stessa 'forma' di una civiltà: da von Humboldt all’inizio del XIX secolo sino, in tempi più recenti, a Whorf, Sapir, Havelock, MacLuhan. La idea di rappresentazione ha un ruolo cruciale nella 'novità' del pensiero greco, non solo nella astronomia geometrica e nel pensiero formale: si pensi alle carte geografiche che la tradizione ascrive ad Anassimandro, Ecateo, fino ad Aristagora, tiranno di Mileto, che porterà in Grecia "una tavola di bronzo su cui erano incisi i contorni di tutta la terra, con tutti i mari e tutti i fiumi". Ed anche l'alfabeto è nato 'una volta sola': tutti gli alfabeti sembrano essere derivati direttamente o indirettamente da un proto-alfabeto nato tra il Sinai e la Fenicia nella seconda metà del II millennio a.C. e poi perfezionato dai Greci. Nella cultura greca classica l'intera struttura del ceto e della funzione intellettuale viene stravolta dal ruolo sempre più rilevante assunto dalla scrittura. Di questo cambiamento epocale si sente l'eco nelle parole di Platone, nel Phaedrus 274b-275c, ove narra il mito sulla nascita della scrittura (oltre che della matematica e dei giochi combinatori) da parte del dio greco Theuth. Il dio mostra a re Thamus di Tebe le sue invenzioni e ne vanta l'utilità. Ma quando giunse alla scrittura, Theuth disse "Questa dottrina, o re, renderà gli egiziani più sapienti e più capaci di ricordare, perché con essa si è ritrovato il farmaco della memoria e della sapienza." E il re rispose: "O ingegnosissimo Theuth, c'è chi è capace di creare le arti e chi invece è capace di giudicare quale danno o quale vantaggio ne ricaveranno coloro che le adopereranno. Ora tu, padre delle lettere, per affetto hai detto proprio il contrario di quello che essa vale. Infatti la scoperta della scrittura avrà per effetto di produrre la dimenticanza delle anime di coloro che la impareranno, perché, fidandosi della scrittura, si abitueranno a ricordare dal di fuori mediante segni estranei, e non dal di dentro e da se medesimi: dunque tu hai trovato non il farmaco della memoria, ma del richiamare alla memoria. Della sapienza poi tu procuri ai tuoi discepoli l'apparenza, non la verità: infatti essi divenendo per mezzo tuo uditori di molte cose senza 5 insegnamento, crederanno di essere conoscitori di molte cose, mentre, come accade per lo più, in realtà non le sapranno; e sarà ben difficile discorrere con essi, perché sono diventati portatori di opinioni invece che sapienti." Paradossale la 'paura' espressa da Platone, quando si pensi che grande scrittore egli sia stato, quanto dovette alla sua opera il pensiero formale e quanto debba il suo ruolo nella storia della filosofia al fatto di essere stato il primo filosofo i cui testi sono arrivati, grazie alla scrittura, sino a noi quasi integralmente. In mille e mille passi Platone ed Aristotele ci mostrano che è l'alfabeto la metafora di quella forma europea del sapere, centrata sulla rappresentazione sintattica. Un sapere fatto di enti discreti complessi costituiti di elementi irriducibili ad altro da sé e la cui conoscenza è fuori della dialettica. La dialettica compare al di là degli elementi, laddove essi si compongono e pongono le basi dell'idea gerarchica, composizionale e funzionale della conoscenza (sia la realtà che il linguaggio scientifico sono costituiti di oggetti complessi composti a partire da oggetti più semplici, ed il funzionamento e significato di questi si ricavano univocamente a partire dal funzionamento e significato di quelli), che resta l'impronta digitale della nostra civiltà. La matematica viene dall’Oriente e fino a quasi tutto il medioevo è sempre stata un ‘prodotto’ orientale: la Grecia antica in fondo era la ‘periferia’ dell’Oriente. Archimede di Siracusa è il più ‘occidentale’ matematico antico, ma i suoi riferimenti culturali erano tutti orientali. Si può considerare Leonardo da Pisa, detto ‘il fibonacci’, vissuto nella prima metà del XIII secolo, il primo matematico ‘occidentale’. E prima dei Greci la matematica era patrimonio degli ‘scribi’, quei sacerdoti del tempio e del palazzo che avevano il monopolio della cultura, della scrittura e della matematica, così che, pur apparendo negli antichi miti e rituali, aveva un aspetto essenzialmente pratico: calcoli relativi ad aree, a quantità di beni, a problemi amministrativi. Harpenodaptai (tenditori di corde) erano detti gli scribi egizi che dopo ogni inondazione del Nilo rimisuravano con corde e paletti i campi a fini fiscali. Probabilmente la matematica si svolgeva soprattutto sull’abaco che all’origine era solo una superficie piana coperta di sabbia sulla quale si potevano tracciare linee e poggiare sassolini. Era l’antenato del nostro pallottoliere ma serviva probabilmente anche a fare costruzioni geometriche, ad esempio per scoprire come calcolare le aree delle figure geometriche (la fig.2 bis mostra come si poteva scoprire sull’abaco la regola per il calcolo dell’area del rettangolo). Del resto lo stesso Archimede fu ucciso sulla spiaggia mentre faceva geometria sulla sabbia. I ‘sassolini’ finivano con l’essere nel contempo punti, quadratini unitari e unità, antenati di quelle che i Greci chiameranno monadi, così che tanto un intervallo di lunghezza n quanto il numero intero n saranno da essi considerati una sequenza lineare di n ‘monadi’ (fig.1, destra). FIG.2 BIS Non si trova traccia di ‘dimostrazioni’, ma non si deve credere che si trattasse di una matematica rozza. Ad esempio, gli egiziani avevano un algoritmo per la moltiplicazione tra interi, rapido e facile, che usava non le tabelline ma di fatto la scrittura binaria dei numeri. Supponiamo 6 ad esempio di voler moltiplicare 27 per 13. Iteriamo il raddoppio di 27 fino ad ottenere il suo multiplo 2n-esimo con 2n minima potenza di 2 maggiore di 13, e scriviamo 13 come somma di multipli di 2: otteniamo 13 = 8 + 4 + 1, contrassegniamo con una × i termini di tale somma: × × × 1 2 4 8 16 27 54 108 216 432 Ora sommiamo i multipli contrassegnati dalla ×: 27 + 108 + 216 = 351, che è il risultato cercato, senza tabelline. I NUMERI E L’INFINITO. I PITAGORICI E GLI ELEATI In realtà la storia della matematica fino al Rinascimento mostra lo sviluppo di due tradizioni, tra di loro talora comunicanti, ma nettamente distinte. Vi è una tradizione pratica, fondata sull’uso dell’abaco, senza dimostrazioni ma sviluppata solo con esempi, appresa oralmente per apprendistato, diffusa nella pratica di agrimensori, commercianti, architetti in maniera uniforme in tutto il Mediterraneo fino in Oriente. Non vi è una distinzione tra continuo e discreto, sull’abaco con l’uso di linee e pietroline tanto si svolgono calcoli aritmetici quanto si misurano superfici geometriche. Non vale il ‘principio di omogeneità’ (per il quale si possono sommare e confrontare solo grandezze della stessa dimensionalità). Questa matematica sopravviverà nei secoli più bui del Medioevo e crescerà con lo sviluppo economico della nuova civiltà europea. L’aritmetica pratica era legata al calcolo e alla misura. Inoltre apparirà organicamente legata alla filosofia e alla teologia, dominata da un clima pitagorico e platonico fino alla fine dell’antichità: il testo più importante dell’aritmetica greca fu quello di Nicomaco, vissuto ad Alessandria tra I e II sec. d.C., il più noto di una serie di testi in cui l’aritmetica veniva descritta all’interno della tradizione neoplatonica dominante, senza nessuna parentela con la grande tradizione dei geometri teorici e nella quale ogni numero era figurato, caratterizzato filosoficamente ed entrava direttamente nella costituzione stessa della realtà. Gli Elementi di Euclide includeranno anche tre libri aritmetici, il VII, VIII, IX, in cui l’aritmetica verrà trattata teoreticamente rappresentando i numeri come segmenti: una aritmetica basata su postulati e dimostrazioni, e sui concetti di rapporto e di proporzione, ma potremmo dire in un certo qual modo ‘adottata’ dalla geometria. I numeri erano interi, cardinali e finiti. Non esistevano i numeri reali ma anche i razionali non c’erano (eccetto le ‘parti’, le frazioni unitarie 1/n, molto usate già in Egitto). Ovviamente al mercato esistevano dei modi pratici per trattare le frazioni, ma questo non aveva nessuna eco nella aritmetica greca. L’altra tradizione è molto più effimera, è quella teorica dei grandi geometri greci, Archita, Eudosso, Euclide, Apollonio, Archimede, fiorita tra il IV e l’inizio del II secolo a.C., con alcuni epigoni successivi, come Pappo. E’ solo geometria non metrica, era puramente teorica e centrata sulla teoria delle proporzioni, e sui concetti di uguaglianza e similitudine, con dimostrazioni rigorose e principio di omogeneità, senza calcoli, esposta in libri e praticamente quasi del tutto inutile, scomparsa nella tarda antichità e riapparsa solo con le traduzioni dei classici greci alla fine del Medioevo. Appariva netta in essa, contrariamente alla tradizione pratica, la opposizione tra numeri e grandezze, tra aritmetica e geometria che durerà fino al Rinascimento. E proprio tale opposizione spiega la assoluta centralità della teoria dei rapporti e delle proporzioni nella matematica premoderna, come unico linguaggio per estendere alla geometria teorica concetti di natura aritmogeometrica. La tradizione teorica si tramandava attraverso la scrittura e nelle scuole, che nelle città greche andava assumendo i caratteri moderni: relativamente di massa, spesso pubblica e fondata ai livelli 7 elementari sul leggere, scrivere e far di conto, le fondamentali capacità della manipolazione dei segni, l’insegnare. Certo, ci furono matematici in cui si leggono entrambe le tradizioni: il ‘teorico’ Archimede fu anche grande ingegnere ed il ‘pratico’ Erone fu anche ottimo geometra: non causalmente ad essi si attribuisce la ‘formula’ per il calcolo dell’area del triangolo a partire dalla lunghezza dei lati, una regola che per il suo carattere metrico sarebbe stata impensabile in Euclide. Tuttavia la distinzione tra queste due tradizioni era molto più netta di quella attuale tra matematica pura ed applicata, le quali per noi in fondo condividono metodi, concetti, linguaggi, istituzioni formative e tecniche didattiche. Sono due tradizioni che si fonderanno all’epoca di Descartes per creare la matematica europea. Nelle tradizione pratica i numeri erano da un lato parole del linguaggio orale dall'altro segni scritti. Questi ultimi sembrano essere stati costruiti secondo lo schema generale di costruzione della scrittura più antica, come icone degli oggetti di calcolo, dita, pietroline, cerchi, bastoncini, mani etc., con tracce probabili di prestiti fonetici, cioè dell'uso di segni rappresentanti parole di uguale pronuncia. Come parole i numeri erano credibilmente sempre "numeri di…", potremmo dire aggettivi o determinativi, ed anche in greco 1, 2, 3, 4, 100, 1000 erano declinati per genere e caso. Il numero aveva cioè da un lato un carattere semantico-computazionale, dall'altro la natura di attributo cardinale di un insieme di oggetti concreti. Le operazioni venivano spesso effettuate su 'tavole' la cui natura può variare: semplici ripiani, ripiani in qualche modo quadrettati, abaci, sui quali vengono mossi 'pezzi' quali gettoni, pietroline, bastoncini, etc. Più complesso appare il ruolo della geometria. Sicuramente sembra svolgere un ruolo minore: appare uno dei tanti settori pratici in cui si applicano le tecniche su accennate. Occorre così ricordare quanto descritto da Erodoto ne Le Storie: quando il Nilo asportava pezzi di terra il Faraone mandava degli specialisti a computare l'area di quanto rimasto ai fini fiscali: era una funzione cruciale, ma era sempre una geometria puramente metrica. Tra le relazioni particolari messe in gioco nei problemi geometrici appaiono diverse proprietà concernenti l'area ed il perimetro di figure geometriche, volumi, similitudini e rapporti, e altre proprietà di natura metrica. Appare l'idea di calcolare l'area tramite dissezione della figura in questione (in Cina si trovano esempi di un simile calcolo anche per volumi), ed è largamente usato il "teorema di Pitagora". Ma credo sia possibile una valutazione più articolata. La geometria appare, sicuramente in Cina e presumibilmente in Mesopotamia, sotto un altro aspetto: come tecnica di dimostrazione e anche di memorizzazione di proprietà che noi diremmo algebriche: nel seguito ne daremo alcuni esempi (per il calcolo delle radici, per il teorema di Pitagora, etc.). Si comprenderebbe così perché la terminologia 'algebrica' sia di natura 'geometrica'. Questo ruolo 'metodologico' e 'algebrico' della geometria deriva verosimilmente da tecniche quali l'uso dell'abaco o strumenti analoghi in cui la disposizione geometrica di oggetti era alla base sia di calcoli geometrici che di tecniche aritmetiche ed algebriche. Forse di qui derivava la prassi pitagorica della rappresentazione figurata dei numeri (triangolari, quadrati, rettangolari, gnomone, etc.: vedi fig.3). Le pietroline sono quindi nel contempo unità, punti, quadrati unitari, monadi: una vera aritmogeometria. La risoluzione di problemi matematici basata in gran parte sull'uso di 'tabelle'. Così le frazioni vengono trattate nella matematica egiziana usando tabelle della decomposizione di una frazione generica in frazioni unitarie, e nella matematica babilonese la divisione si basa su tabelle degli "inversi". Questo aspetto porterà alla cosiddetta algebra geometrica che costituisce II libro degli Elementi di Euclide (vedi fig. 3bis, nella quale vi sono le dimostrazioni geometriche delle nostre formule algebriche ( a + b )2 = a2 + 2 a b + b2 e ( a + b ) ( a - b ) = a2 - b2, ed anche 8 Neugebauer osserva che "i contenuti dell'algebra geometrica utilizzano risultati che erano noti in Mesopotamia". fig.3 a b a-b a b b fig.3bis In fig 3ter una costruzione che appare come teorema nel II libro degli Elementi (le due figure nella parte superiore) e potrebbe essere la base della tecnica babilonesi di risoluzione delle equazioni di II grado. Siano date la somma s di due grandezze e il rettangolo P, BCEH in figura, che ha tali grandezze come lati. Prolunghiamo il lato CB di P per farlo diventare AB uguale ad s e tracciamo la diagonale AO (figura in basso a destra). Sia D il punto medio di AB e costruiamo il quadrato BDLN: se calcoliamo d, lunghezza di FG e quindi differenza tra s/2 e uno dei lati, possiamo calcolare i due lati. Sia MN = CE, allora i due rettangoli quadrettati sono uguali e il quadratino di lato d si può calcolare come differenza tra il quadrato di lato s/2 e lo gnomone DFGMNB, la cui area è proprio P. Ma s e P sono noti e quindi è noto il quadratino e di conseguenza anche d. La figura a sinistra era anche la base della procedura pratica per calcolare la √A (il lato del quadrato A). Se infatti a è una buona prima approssimazione di √A, allora √A= a+b, con b molto minore di a, e di conseguenza nel quadrato A il quadratino di lato b si può trascurare, ottenendo A ~ a2+ 2ab (corrispondente ad una figura ad L, differenza tra un quadrato e un quadratino in esso contenuto come in figura, detta uno gnomone). Così la seconda approssimazione si ottiene aggiungendo ad a il valore approssimato b ~ (A-a2)/2a. A tale nuova approssimazione si può riapplicare la stessa procedura per trovare una terza approssimazione, e così via. 9 a b a b s/2 b s/2 s / 2 - b d / 2 O P L M N S E F G H d fig.3 ter A C D B L’idea di infinito e l’opposizione continuo/discreto sono parte cruciale sin dall’origine della prima caratterizzazione e del punto di distacco della tradizione teorica greca dai modelli orientali. Di quelli egiziani e mesopotamici è rimasto molto poco, così che la mancanza di riferimenti all’infinito o al continuo/discreto potrebbe sembrare accidentale, dovuta alla mancanza di fonti. Considerando però la cultura cinese, possiamo analizzare una grande tradizione matematica che nel finito è stata fino a pochi secoli fa almeno confrontabile con quella occidentale, ed alla quale probabilmente dobbiamo la nostra notazione numerica, gli algoritmi numerici, e diverse tecniche combinatorie, oltre che le scoperte che hanno segnato l'inizio del 'moderno' in Europa: la bussola, la stampa, la polvere da sparo. Eppure in tale cultura l’infinito (ed il continuo) gioca un ruolo minore (potremmo dire nullo): rimane l’indefinitezza del tao ma niente di più. La nostra attuale idea di continuo e discreto è quella delineata oltre duemila anni fa da Aristotele, ma espressa in forma numerica solo con la nascita della scienza moderna, nel 'programma' di Descartes, ove il discreto è visto come un ‘campionamento’ del continuo (i numeri interi sono particolari numeri reali), e il continuo è ‘esprimibile’ tramite il discreto (i numeri reali sono rappresentati da una sequenza infinita di cifre). In maniera più formale i numeri reali si considerano una estensione (come i relativi e i razionali e poi i complessi) a partire dai naturali allo scopo di trovare soluzioni ad equazioni a coefficienti interi. Noi siamo così abituati a scrivere un numero reale come due sequenze di cifre separate da un ‘punto’: ... a a a . a a a .... 3 2 1 -1 -2 -3 che non ci accorgiamo del fatto che quel piccolo ‘punto’ separa due universi radicalmente differenti in tutta la storia della matematica e del pensiero, che solo saltuariamente e provvisoriamente (come appunto nella rappresentazione del numero reale, nei secoli segnati dal trionfo della fisica matematica) hanno trovato un punto di raccordo. La prima sequenza sempre finita, a sinistra del punto, appartiene al dominio dei numeri interi, contabili, alla numerazione, per contare uomini e pecore, ed origine dei segni numerici. Al di là del punto, come al di là di uno specchio, la seconda sequenza appartiene all’universo delle grandezze, alla misurazione, legata alla realtà esterna, in primo luogo sociale ed economica, ma segnata anche dai fenomeni astronomici. Ed inoltre, mentre la prima sequenza è sempre finita, e solo ‘potenzialmente’ infinita (“esiste sempre qualcosa oltre” nella definizione aristotelica), la 10
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