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Storia dei Greci PDF

226 Pages·2011·1.46 MB·Italian
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INDRO MONTANELLI STORIA DEI GRECI Rizzoli PARTE PRIMA. FRA STORIA E LEGGENDA CAPITOLO PRIMO. MINOSSE CAPITOLO SECONDO. SCHLIEMANN CAPITOLO TERZO. GLI ACHEI CAPITOLO QUARTO. OMERO CAPITOLO QUINTO. GLI ERACLEIDI PARTE SECONDA. LE ORIGINI CAPITOLO SESTO. LA «POLIS» CAPITOLO SETTIMO. ZEUS E FAMIGLIA. CAPITOLO OTTAVO. ESIODO CAPITOLO NONO. PITAGORA CAPITOLO DECIMO. TALETE CAPITOLO UNDICESIMO. ERACLITO CAPITOLO DODICESIMO. SAFFO CAPITOLO TREDICESIMO. LICURGO CAPITOLO QUATTORDICESIMO. SOLONE CAPITOLO QUINDICESIMO. PISISTRATO CAPITOLO SEDICESIMO. I PERSIANI ALLE VISTE CAPITOLO DICIASSETTESIMO. MILZIADE E ARISTIDE CAPITOLO DICIOTTESIMO. TEMISTOCLE ED EFIALTE PARTE TERZA. L'ETA DI PERICLE CAPITOLO DICIANNOVESIMO. PERICLE. CAPITOLO VENTESIMO. LA BATTAGLIA DELLA DRACMA CAPITOLO VENTUNESIMO. LA LOTTA SOCIALE CAPITOLO VENTIDUESIMO. UN TEOFILO QUALUNQUE CAPITOLO VENTITREESIMO. UNA NIKE QUALSIASI CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO. GLI ARTISTI CAPITOLO VENTICINQUESIMO. FIDIA SUL PARTENONE CAPITOLO VENTISEIESIMO. LA RIVOLUZIONE DEI FILOSOFI CAPITOLO VENTISETTESIMO. SOCRATE CAPITOLO VENTOTTESIMO. ANASSAGORA E LA «FANTASCIENZA» CAPITOLO VENTINOVESIMO. LE OLIMPIADI CAPITOLO TRENTESIMO. IL TEATRO CAPITOLO TRENTUNESIMO. I «TRE GRANDI» DELLA TRAGEDIA CAPITOLO TRENTADUESIMO. ARISTOFANE E LA SATIRA POLITICA CAPITOLO TRENTATREESIMO. I POETI E GLI STORICI CAPITOLO TRENTAQUATTRESIMO. DA ASCLEPIO A IPPOCRATE CAPITOLO FRENTACINQUESIMO. IL PROCESSO DI ASPASIA PARTE QUARTA. LA FINE DI UN'ERA CAPITOLO TRENTASEIESIMO. LA GUERRA DEL PELOPONNESO CAPITOLO TRENTASETTESIMO. ALCIBIADE CAPITOLO TRENTOTTESIMO. IL GRAN TRADIMENTO CAPITOLO TRENTANOVESIMO. LA CONDANNA DI SOCRATE CAPITOLO QUARANTESIMO. EPAMINONDA CAPITOLO QUARANTUNESIMO. LA DECADENZA DELLA «POLIS». CAPITOLO QUARANTADUESIMO. DIONISIO DI SIRACUSA CAPITOLO QUARANTATREESIMO. FILIPPO E DEMOSTENE CAPITOLO QUARANTAQUATTRESIMO. ALESSANDRO CAPITOLO QUARANTACINQUESIMO. «Fu vera gloria?» CAPITOLO QUARANTASEIESIMO. PLATONE CAPITOLO QUARANTASETTESIMO. ARISTOTELE PARTE QUINTA. L'ELLENISMO CAPITOLO QUARANTOTTESIMO. I DIADOCHI CAPITOLO QUARANTANOVESIMO. LA NUOVA CULTURA CAPITOLO CINQUANTESIMO. PICCOLI «GRANDI» CAPITOLO CINQUANTUNESIMO. LARGO ALLA SCIENZA CAPITOLO CINQUANTADUESIMO. ROMA CAPITOLO CINQUANTATREESIMO. EPILOGO CRONOLOGIA AI LETTORI. Mi sarebbe più facile elencare i vizi e i difetti di questo libro che non i suoi meriti e qualità. Sapevo prima di scriverlo che a questa conclusione sarei fatalmente arrivato, ma l'ho scritto ugualmente perché mi divertiva farlo, perché spero che qualcuno si divertirà a leggerlo e perché penso che, pur con tutte le sue lacune, esso riempirà quella più grossa che i nostri professori si sono dimenticati di colmare: una narrazione semplice, un racconto cordiale. L'ho chiamata Storia dei greci perché, a differenza di quella di Roma, è una storia di uomini, più che una storia di popolo, di nazione, o di stato. Per questo ho ridotto all'essenziale la trama degli avvenimenti politici per dare la precedenza a quelli che determinarono lo sviluppo della civiltà e ne segnarono le grandi tappe. In questo libro i poeti e i filosofi contano più dei legislatori e dei condottieri: il solco lasciato da Socrate e da Sofocle mi sembra più profondo di quello che lasciarono Temistocle ed Epaminonda. Non pretendo di aver detto qualcosa di nuovo né di aver dato a quello che già si sa un'interpretazione originale. Ma non me l'ero nemmeno proposto. La mia ambizione è stata quella di fornire ai lettori un mezzo per riavvicinarsi senza fatica e soprattutto senza noia agli antichi greci. PARTE PRIMA. FRA STORIA E LEGGENDA. CAPITOLO PRIMO. MINOSSE. UNA SETTANTINA di anni orsono, un archeologo inglese, di nome Evans, frugando certi negozietti di antiquari ad Atene, trovò alcuni amuleti femminili provvisti di geroglifici che nessuno riuscì a decifrare. A furia di congetture, stabilì che essi dovevano provenire da Creta, vi si recò, comprò un appezzamento di terra nel punto in cui si riteneva che fosse seppellita la città di Cnosso, assoldò una squadra di sterratori, e dopo due mesi di scavi si trovò di fronte ai resti del palazzo di Minosse, il famoso Labirinto. Poeti e storici dell'antichità, da Omero in giù, avevano detto che la prima civiltà greca era nata non a Micene, cioè sul continente, ma nell'isola di Creta, e aveva avuto la massima fioritura al tempo di re Minosse, dodici o tredici secoli prima di Cristo. Minosse, raccontavano, aveva avuto parecchie mogli, che invano avevano tentato di dargli un erede: dal loro grembo non nascevano che serpenti e scorpioni. Solo Pasife, alla fine riuscì a dargli dei figli normali, tra cui Fedra e la bionda Arianna. Purtroppo, Minosse offese il dio Poseidone, che si vendicò facendo innamorare Pasife di un toro, sia pure sacro. A soddisfare questa sua passione l'aiutò un ingegnere di nome Dedalo, capitato nell'isola da Atene, donde aveva dovuto fuggire per aver ucciso per gelosia un suo nipote. Da quel connubio nacque il Minotauro, strano animale mezzo uomo e mezzo toro. E a Minosse bastò guardarlo per capire con chi sua moglie lo avesse tradito. Egli ordinò a Dedalo di costruire il Labirinto per accasarvi il mostro, ma dentro vi lasciò prigioniero anche il costruttore con suo figlio Icaro. Non era possibile trovar la strada per uscire da quell'intrico di corridoi e gallerie. Ma Dedalo, uomo d'infinite risorse, costruì per sé e per il suo ragazzo delle ali di cera, e con esse ambedue fuggirono innalzandosí nel cielo. Ebbro di volo Icaro dimenticò la raccomandazione del padre di non avvicinarsi troppo al sole, la cera si liquefece, ed egli precipitò in mare. Pur disfatto dal dolore, Dedalo atterrò in Sicilia e vi portò le prime nozioni della Tecnica. Intanto nel Labirinto il Minotauro seguitava ad aggirarsi esigendo ogni anno sette ragazze e sette giovanotti per mangiarseli. Minosse se li faceva dare dai popoli vinti in guerra. Ne reclamò anche da Egeo, re di Atene. Il figlio di costui, Teseo, sebbene principe ereditario, chiese di farne parte col proposito di uccidere il mostro, sbarcò a Creta con le altre vittime e, prima d'immergersi nel Labirinto, sedusse Arianna, che gli diede un filo da srotolare per ritrovare la via di uscita. Il coraggioso giovanotto riuscì nel suo intento, tornò fuori dove la principessa lo aspettava e, fedele alla promessa che le aveva fatto, la sposò e se la portò via. Ma a Nasso l'abbandonò dormiente sulla spiaggia, e continuò il viaggio da solo coi suoi compagni. Gli storici moderni avevano respinto questa storia come inventata di sana pianta, e fin qui forse avevano ragione. Ma avevano finito anche col negare che a Creta fosse fiorita, duemila anni prima di Cristo e mille prima di Atene, la grande civiltà che le attribuiva Omero. E qui sbagliavano di certo. Richiamati dalle scoperte di Evans, archeologi di tutto il mondo--fra cui anche gl'italiani Paribeni e Savignoni--accorsero sul posto, iniziarono altri scavi, e in breve dalle viscere della terra vennero fuori i monumenti e i documenti di quella civiltà cretese che dal nome del re Minosse fu chiamata minoica. Ancor oggi gli studiosi si stanno accapigliando sulla sua origine, perché qualcuno ritiene ch'essa sia venuta dall'Asia, altri dall'Egitto. Comunque, fu certamente la prima che si sviluppò su una terra europea, raggiunse alte vette e influenzò quella che di lì a poco si sarebbe formata in Grecia e in Italia. Fu a Creta che Licurgo e Solone, i due più grandi legislatori dell'antichità, vennero a cercare il modello delle loro Costituzioni, qui nacque la musica corale che Sparta adottò, qui vissero e lavorarono i primi capiscuola della scultura, Dipeno e Scilli. Studiando gli scavi, i competenti hanno diviso la civiltà minoica in tre ère, e ognuna di esse in tre periodi. Lasciamoli a queste distinzioni troppo sottili per noi, e contentiamoci di capire all'ingrosso in cosa consistette la vita cretese di quattromila anni fa. Dal modo come si è rappresentata nei suoi dipinti e bassorilievi, era gente di fattezze piuttosto piccole e snelle, con una pelle di color pallido le donne, abbronzata gli uomini, tanto che li chiamavano Foinikes, che vuol dire «pellirosse». Questi portano sulla testa turbanti, quelle dei cappellini che potrebbero benissimo riapparire in qualche mostra di moda contemporanea a Parigi o a Venezia. Gli uni e le altre avevano un ideale di bellezza triangolare perché portavano tuniche strettamente allacciate alla vita. E le donne si lasciavano il seno scoperto, il che ci fa pensare che di solito lo avessero florido. Una di loro, come appare in un dipinto, è così civettuola e provocante che gli archeologi, malgrado la loro proverbiale austerità, l'hanno chiamata La parisienne. Dapprincipio Creta dovette esser divisa in vari stati o reami spesso in guerra tra loro. Ma a un certo punto Minosse, più abile e forte degli altri, ridusse i rivali in soggezione e unificò l'isola, dandole per capitale la sua città, Cnosso. Era, Minosse, il suo nome personale, o quello che si dava alla carica di re che ricopriva, come a Roma si chiamava Cesare e in Egitto Faraone? Non si sa. Si sa soltanto che quello che compì quest'opera di unificazione e cui la leggenda attribuisce Pasife per moglie con tutte le disgrazie ch'essa gli procurò, visse e regnò tredici secoli prima di Cristo, quando in tutto il resto d'Europa non brillava ancora il più lontano barlume di civiltà. A sentir Omero, Creta aveva la bellezza di novanta città, di cui alcune facevano concorrenza alla capitale come popolazione, sviluppo e ricchezza. Festo era il gran porto, dove si concentrava il commercio marittimo con l'Egitto; Palaikastro era il quartiere residenziale; Gurnia il centro manifatturiero e la «capitale morale», come oggi lo è Milano in Italia; Hàgia Triada, la sede estiva del re e del governo, come dimostra la villa reale che vi è stata dissepolta. Le case sono di due, di tre, e fino a cinque piani, con scale interne ben rifinite. E nei dipinti e bassorilievi che ne ornano le pareti se ne vedono gl'inquilini maschi giocare a scacchi sotto gli occhi annoiati della padrona di casa che tesse la lana. Essi sono reduci in genere da partite di caccia, e ai loro piedi giacciono, stanchi, gli animali che li hanno aiutati a scovare l'orso o il cinghiale: agili e sottili cani, che somigliano a levrieri, e gatti selvatici, che dovevano essere appositamente istruiti per questa bisogna. Un altro sport in cui i cretesi eccellevano era il pugilato. I campioni di peso leggero si battevano a mani nude, usando per colpire anche i piedi, come fanno tutt'oggi i siamesi; quelli di peso medio usavano il casco; e quelli di peso massimo anche i guantoni. Il dio di questa gente si chiamava Velcano, e corrispondeva a quello che presso i greci fu Zeus, e presso i romani Giove. Era un personaggio onnipotente e iracondo, e quando andava in bestia i suoi fedeli si raccomandavano alla dea Madre, che sarebbe come dire la Madonna, perché lo calmasse. La gran forza di Minosse, come re, fu quella di discendere da lui, o per lo meno di esser riuscito a farlo credere ai suoi sudditi. Quando emanava una legge, egli diceva ch'era stato Velcano a suggerirgliela la notte prima, e quando requisiva un quintale di grano o un gregge di pecore, diceva ch'era per fare un regalo a Velcano. Questi regali il dio naturalmente li lasciava in deposito a Minosse, che aveva fatto costruire dai suoi ingegneri immensi scantinati sotto il palazzo reale per conservarli; e tenevano il posto che da noi è riservato alle tasse, perché a Creta, dove non si conosceva il denaro, esse venivano pagate in natura, e al dio, non al governo. Era un popolo di guerrieri, di navigatori e di pittori. Ed a questi ultimi dobbiamo il fatto di averne potuto ricostruire in parte la civiltà,- che appunto sotto Minosse toccò la sua più alta vetta. Non si riesce a capire che cosa ne abbia provocato la decadenza, che, a giudicare dalle rovine, dev'essere stata molto rapida. Fu un terremoto seguito dagl'incendi che a un certo punto distrusse Cnosso coi suoi bei palazzi e teatri? Dagli scavi si direbbe che case e negozi siano stati sorpresi dalla morte repentinamente, mentre i loro abitanti erano in piena e normale attività. E probabile che questa decadenza fosse cominciata molto tempo prima e che qualche catastrofe ne abbia solo precipitato la conclusione. Molti segni rivelano che quella di Creta, nata certamente sotto il segno dello stoicismo sette od ottocento anni prima era ormai al tempo di Minosse una civiltà epicurea, cioè godereccia e piena di pus come un foruncolo maturo. Le foreste di cipressi erano scomparse, il malthusianismo aveva aperto dei vuoti nella popolazione, il collasso dell'Egitto aveva inaridito i traffici. Forse, a coronamento di tanti guai, ci fu anche un terremoto. Ma è più probabile che la sciagura definitiva sia stata rappresentata da un'invasiòne: quella degli achei, che proprio in quegli anni erano calati sul Peloponneso dalla Tessaglia, e avevano fatto di Micene la loro capitale. Essi distrussero tutto, a Creta: anche la lingua, che sotto Minosse non era certamente greca, come ci dimostrano le iscrizioni che ci sono rimaste. Da esse, sebbene nessuno sia riuscito a decifrarne il senso, si direbbe che i cretesi abbiano avuto origini egiziane, o comunque orientali. Non siamo in grado né di confermarlo né di smentirlo. Siamo in grado soltanto di ripetere che quella di Creta fu la prima civiltà d'Europa, e Minosse il nostro primo «illustre concittadino». CAPITOLO SECONDO. SCHLIEMANN. IL MODO migliore per ripagare il nostro contemporaneo Enrico Schliemann degli enormi servigi che ci ha reso nella ricostruzione della civiltà classica, mi pare sia quello di assumerlo fra i suoi protagonisti, com'egli stesso mostrò di desiderare ardentemente, scegliendosi, in pieno secolo decimonono, Zeus come dio e a lui indirizzando le sue preghiere, battezzando Agamennone suo figlio, Andromaca sua figlia, Pelope e Telamone i suoi servitori, e dedicando a Omero tutta la sua vita e i suoi quattrini. Era un matto, ma tedesco, cioè organizzatissimo nella sua follia, che la buona sorte volle ricompensare. La prima storia che gli raccontò suo padre, quando aveva cinque o sei anni, non fu quella di Cappuccetto Rosso, ma quella di Ulisse, di Achille e di Menelao. Ne aveva otto, quando annunziò solennemente in famiglia che intendeva riscoprire Troia e dimostrare, ai professori di storia che lo negavano, ch'essa era realmente esistita. Ne aveva dieci, quando compose in latino un saggio su questo argomento. E ne aveva sedici, quando sembrò che questa infatuazione gli fosse del tutto passata. Infatti s'era impiegato come garzone in una drogheria, dove scoperte archeologiche non c'era da farne di certo, e di lì a poco s'imbarcò non per l'Ellade, ma per l'America, in cerca di fortuna. Dopo pochi giòrni di viaggio, il piroscafo colò a picco, e il naufrago fu tratto a salvamento sulle coste d'Olanda. Vi rimase, vedendo in questo episodio un segno del destino, si diede al commercio, a venticinque anni era già un negoziante agiato, e a trentasei un ricco capitalista, di cui nessuno aveva mai sospettato che, fra un affare e l'altro, avesse seguitato a studiare Omero. Il mestiere lo aveva obbligato a viaggiare molto. E di tutti i posti in cui era stato aveva imparato la lingua. Sapeva, oltre al tedesco e all'olandese, il francese, l'inglese, l'italiano, il russo, lo spagnolo, il portoghese, lo svedese, il polacco e l'arabo. Il suo Diario infatti è redatto nella lingua del luogo da cui è via via datato. Ma quella in cui seguitava a pensare era sempre il greco antico. D'improvviso chiuse banco e bottega, e annunziò a sua moglie, la quale era russa, che intendeva andare a stabilirsi a Troia. La povera donna gli chiese dove fosse quella città di cui non aveva mai sentito parlare e che in realtà non esisteva. Enrico le mostrò sulla carta geografica dove riteneva che fosse, e lei chiese il divorzio. Schliemann non mosse obbiezioni, mise un annunzio su un giornale chiedendo un'altra moglie, purché fosse greca. E sulle fotografie che gli arrivarono scelse quella di una ragazza che aveva ventott'anni meno di lui. La sposò su due piedi secondo un rito omerico, la installò ad Atene in una villa chiamata Bellerofonte, e quando essa gli diede Andromaca e Agamennone, dovette sudare le sette camicie per indurlo a battezzarli. Egli accondiscese solo a patto che il prete, oltre

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