Presentazione UN’AVVENTURA UMANA E INTELLETTUALE CHE ANTICIPA LE CATASTROFI DEL NOVECENTO «In fondo la tua vecchia creatura adesso è un animale straordinariamente famoso» scrive Nietzsche alla madre, da Torino, nel dicembre 1888. Vuole illudere lei e se stesso: non è vero, nessuno lo conosce, è costretto a pubblicare i libri a proprie spese. Ma nel 1900, quando muore, ignaro di tutto dopo il tracollo che lo ha ridotto alla demenza, è davvero la star che aveva sognato di essere, celebrato da D’Annunzio e Thomas Mann, messo in musica da Strauss e dipinto da Munch. Soprattutto, per uno strano sortilegio, la volontà di potenza sembra uscire dalle pagine dei libri per farsi storia, dalle tempeste di acciaio della Prima guerra mondiale alla catastrofe di Hitler a Berlino. «Io sono Marlow, il testimone secondario. Lui è Kurtz» scrive Maurizio Ferraris, e risale la vita di Nietzsche come un fiume – il Congo di Cuore di tenebra o il Mekong di Apocalypse Now – ripercorrendone i vagabondaggi, tra l’Engadina e la Riviera, dalla fatale Torino alla Sassonia delle origini. Così a ogni stazione corrisponde un contenuto di pensiero – dal dionisiaco all’Eterno Ritorno, dal nichilismo alla morte di Dio – e insieme uno spaccato della storia intellettuale del Novecento, tra Jim Morrison e Heidegger, il ¡Viva la muerte! di José Millán-Astray y Terreros e la rivoluzione desiderante di Deleuze e Guattari, il Super-Eliogabalo di Arbasino e la scoperta degli antidepressivi. La fenomenologia dello spirito di una modernità tragica e rumorosa attraverso la storia di quello che si credeva (e non del tutto a torto) «il più silenzioso degli uomini». Maurizio Ferraris (www.labont.it/ferraris) è professore ordinario di Filosofia teoretica all’Università di Torino, dove dirige il LabOnt (Laboratorio di ontologia). È editorialista di «La Repubblica», direttore della «Rivista di Estetica», condirettore di «Critique» e della «Revue francophone d’esthétique». Fellow della Italian Academy for Advanced Studies (New York), della Alexander von Humboldt Stiftung e del Käte Hamburger Kolleg «Recht als Kultur» di Bonn, Directeur d’études al Collège International de Philosophie, visiting professor alla Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi e in altre università europee e americane. Ha scritto una cinquantina di libri tradotti in varie lingue. Tra i più recenti, Documentalità (2009) e il Manifesto del nuovo realismo (2012), che hanno avviato un ampio dibattito internazionale. È in uscita da Bloomsbury la sua Introduction to New Realism. Da Guanda ha pubblicato Filosofia per dame (2009) e Anima e iPad (2011). www.guanda.it facebook.com/Guanda @GuandaEditore www.illibraio.it Disegno e grafica di copertina di Guido Scarabottolo ISBN 978-88-235-1045-6 © 2014 Ugo Guanda Editore S.r.l., Via Gherardini 10, Milano Gruppo editoriale Mauri Spagnol Prima edizione digitale 2014 Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata. Torino, 15 ottobre 1944 Naufragio in riva al Po A Torino, in via Carlo Alberto 6, giusto all’angolo con piazza Carlo Alberto, c’è una targa con un bassorilievo che raffigura Nietzsche, e la scritta seguente: In questa casa FEDERICO NIETZSCHE conobbe la pienezza dello spirito che tenta l’ignoto la volontà di dominio che suscita l’eroe qui ad attestare l’alto destino e il genio scrisse Ecce Homo libro della sua vita a ricordo delle ore creatrici primavera autunno 1888 nel I centenario della nascita la città di Torino pose 15 ottobre 1944 a. XXII e. f. La targa fu posta in tempi grami. Io la vedo almeno due volte all’anno, perché in quella casa c’è lo studio del mio commercialista, e pago le tasse nella stanza di Zarathustra. In quello che – dopo le ristrutturazioni imposte da un bombardamento – è oggi un ufficio pieno di decoro subalpino, finisce in modo assurdo e increscioso la vita cosciente di Nietzsche, approdato a Torino nell’aprile del 1888 per poi tornarci definitivamente il 20 settembre, dopo l’estate trascorsa a Sils Maria tentando di portare a termine la Volontà di potenza (senza venirne a capo). Dico «definitivamente» perché quando, all’inizio del gennaio 1889, viene riportato a Basilea, Nietzsche è ormai pazzo, e morirà nel 1900 a Weimar senza saper più nulla di sé («non sa più nulla, è alto sulle ali», come scriveva Sereni del primo caduto sulla spiaggia normanna il 6 giugno 1944). Reduce da un ennesimo scacco, dopo la catastrofe accademica della Nascita della tragedia, il fiasco dello Zarathustra, lo scarsissimo interesse suscitato dai tanti libri pubblicati, Nietzsche aveva tentato la mossa del cavallo: smembrare il materiale accumulato per la Volontà di potenza (o Trasvalutazione di tutti i valori, come suona il sottotitolo spesso promosso a titolo) trasformandolo in piccole opere eccessive e provocatorie, destinate ad attirare l’attenzione su di lui. L’idea di Nietzsche è di far tradurre in francese, e poi in tutte le lingue di cultura, i frutti dell’autunno torinese, e di conquistare una fama mondiale; poi di pubblicare il suo capolavoro virtuale, e di dar seguito a una grandiosa (quanto indeterminata) azione politica. Vasto disegno. In effetti, sul piano della fama letteraria qualcosa incomincia a muoversi: Nietzsche stringe un rapporto epistolare con Strindberg e con Taine, e un germanista abbastanza noto, Georg Brandes, tiene delle conferenze su di lui a Copenaghen. Sono piccole cose, di cui però non smette di gloriarsi, soprattutto in quelle che sono le lettere torinesi più commoventi e rivelatrici, le poche scritte alla madre, dove si vanta di avere ammiratori – tra cui «le signore più affascinanti» – a San Pietroburgo e a Vienna, a Parigi, a Stoccolma, a New York («Ah, se tu sapessi con quali parole i personaggi più importanti mi esprimono la loro devozione»). Scrive anche che lui è ora un «animale famoso», e che tra i suoi lettori ci sono veri geni, e poi che a Torino sta benissimo, che si è fatto un paltò nuovo «foderato di seta blu», che si mangia ottimamente e a buon prezzo. Questa euforia è in patetico disaccordo con una esistenza che fa stringere il cuore, fatta di rifiuti da parte degli editori, isolamento, fondato sospetto che la vita lo abbia messo definitivamente alle corde. Una desolazione su cui pesa come una pietra tombale la lettera di Franz Overbeck (a giusto titolo valorizzata da Walter Benjamin in Uomini tedeschi) che lo esorta a lasciar perdere, a tornare a insegnare a Basilea, non all’università, dove non lo prenderebbero più, ma almeno al ginnasio, magari come professore di tedesco, perché – aggiunge Overbeck – «è una di quelle professioni, forse anzi lo è incomparabilmente più d’ogni altra, per cui negli ultimi anni tu non soltanto non hai perso tempo, ma ti sei fatto ancora più maturo». Wittgenstein ha scritto che la filosofia deve aiutare la mosca a uscire dalla bottiglia. In questo finale di partita vediamo e quasi sentiamo la mosca che sbatte contro le pareti della sua prigione. Dall’angolo in cui si è cacciato, Nietzsche reagisce attaccando Wagner e Cristo, variamente legati a figure paterne (il maestro di istrionismo, e il padre pastore protestante), ma anche due nomi tanto più famosi del suo. Poi ricorre all’eterna strategia del «chi non mi vuole», i tedeschi, gli editori, oramai anche gli amici e le amiche di un tempo, «non mi merita». E tenta di farsi nuovi amici e nemici scelti in un pantheon male assortito di giornalisti, statisti, re, imperatori, criminali, nomi trovati nei giornali letti al Caffè Fiorio, il suo ultimo approdo di terra. A un certo punto non si firma più col suo nome, ma con tanti, tratti dal mito e dalla storia, e dichiara finalmente a Cosima Wagner il proprio amore. Aveva ragione sua sorella Elisabeth, Fritz voleva diventare famoso, e lo desiderava con la stessa mancanza di decoro di un ammalato di celebrità. Ecco, per esempio, la differenza rispetto a un altro grande egotista, Baudelaire: non ci sono schermi dandystici in questo povero superuomo che confida alla mamma di conoscere delle principesse, o che il suo ex allievo e fedele copista Heinrich Köselitz (in arte Peter Gast) si è fidanzato con una aristocratica prussiana che possiede mezzo Brandeburgo. Possiamo immaginarcelo senza difficoltà intento ad aprire un blog dopo l’altro, a chattare con il Vaticano, il Cremlino e la Casa Bianca, a caricare i propri video su YouTube, ad annunciare a ripetizione l’uscita dei suoi libri su Facebook chiedendo la grazia di un «mi piace». «L’ufficio postale è a 5 passi da qui, imbuco io stesso le lettere per comunicare con i grandi elzeviristi del grande [sic] monde.» TORINO, 21 DICEMBRE 1888. «IO QUI VENGO TRATTATO COME UN PICCOLO PRINCIPE» La gloria millantata e mitizzata attutisce il sospetto della sconfitta. Alla vigilia della resa dei conti, Nietzsche scrive alla madre: «In fondo la Tua vecchia creatura adesso è un animale straordinariamente famoso: non proprio in Germania, dato che i tedeschi sono troppo stupidi e ordinari per l’altezza del mio pensiero e hanno sempre fatto brutte figure di fronte a me, ma da qualsiasi altra parte. Tra i miei ammiratori ho solo nature elette; tutte persone altolocate e influenti [...]. Ho autentici geni tra i miei estimatori – non c’è nome, oggi, che venga onorato e rispettato come il mio. – Vedi, questo è il capolavoro: senza un nome, senza rango, senza ricchezze, io qui vengo trattato come un piccolo principe da qualsiasi persona, giù giù fino alla mia fruttivendola, che non ha pace finché non ha trovato per me il più dolce tra i suoi grappoli d’uva (che adesso costa 28 centesimi la libbra)» (21 dicembre 1888). E agli amici costernati: «Per la traduzione francese [di Ecce homo] mi avvarrò probabilmente del genio svedese A. Strindberg [...]. Ieri ho spedito il CREPUSCOLO DEGLI IDOLI a M. Taine con una lettera in cui lo pregavo di interessarsi per una traduzione francese dell’opera. Anche per la traduzione inglese ho un’idea» (a Gast, 9 dicembre 1888). «L’opera che è in stampa adesso si intitola ECCE HOMO. Come si diventa quel che si è. Uscirà contemporaneamente in inglese, francese e tedesco. Le lettere che ricevo ultimamente dalla più alta società di San Pietroburgo, e anche da un autentico genio di poeta, che è svedese, hanno tutte un afflato di storia universale, come se il destino dell’umanità fosse nelle mie mani» (a Paul Deussen, 11 dicembre 1888). Come spesso succede, il tracollo ha luogo in un Wechsel der Töne, lo «scambio di toni» teorizzato da Hölderlin. C’è il mito, c’è la filosofia, c’è la vita quotidiana, e su tutto domina una buona dose di goffaggine professorale. Accanto al progetto di vivere nell’antica reggia dei Papi («Il mio indirizzo non lo so più: poniamo che per il momento possa essere il Palazzo del Quirinale») e di convocare una dieta di principi per fare fucilare il Kaiser, c’è la vicenda di una stufa economica ordinata in Germania; accanto alla convinzione di essere la reincarnazione di Alessandro Magno troviamo la correzione delle bozze (ne aveva ancora tra le mani quando Overbeck venne a prenderlo per portarlo in manicomio) e le lettere ora bellicose ora accomodanti all’editore. A quest’ultimo suggerisce tirature strepitose, assicurando che con lo Zarathustra si potrà diventare milionari: «In un momento in cui la mia vita si trova di fronte a un’immane decisione e sento gravare su di me una responsabilità per la quale non ci sono parole, non tollero che si commettano villanie nei miei confronti. L’editore dello Zarathustra! Del primo libro di tutti i millenni! In cui è racchiuso il destino dell’umanità! Che di qui a pochi anni verrà diffuso in milioni di esemplari!... Non appena uscirà Ecce homo sarò il primo tra i viventi. [...] Non pretenderò mai onorari, questo rientra nei miei princìpi; ma vorrei che Lei partecipasse pienamente al successo, alla vittoria dei miei scritti. – La Trasvalutazione di tutti i valori sarà un evento senza pari, non di tipo letterario, ma di quelli che faranno tremare tutto ciò che esiste – è possibile che cambi il computo del tempo –» (26 novembre 1888). È in questo clima che, ai primi di dicembre 1888, abbozza una lettera destinata a Guglielmo II: «Con questa lettera rendo all’Imperatore dei tedeschi il più grande onore che gli si possa tributare, e che tanto più ha peso in quanto devo superare la mia profonda avversione per tutto ciò che è tedesco; gli porgo in mano la prima copia della mia opera, in cui si annuncia l’approssimarsi di un qualcosa di immane – una crisi come non si era mai vista sulla terra, la più profonda collisione di coscienze all’interno dell’umanità, un verdetto emesso contro tutto ciò che si era creduto, che si era preteso, che si era consacrato». Il 3 gennaio 1889 si dice che abbia abbracciato un cavallo frustato dal vetturino, ma ci sono buoni motivi per ritenere che si tratti di una leggenda, sia perché riecheggia il sogno di Raskol’nikov in Delitto e castigo, sia perché la sua prima attestazione risale a un articolo apparso sulla «Nuova Antologia» uscito tre settimane dopo la morte di Nietzsche, il 16 settembre 1900, e ormai in un clima favorevole all’agiografia: «Un giorno, mentre il signor Fino percorreva la vicina via Po [...] vide un gruppo di gente che si avanzava ed in mezzo ad esso due guardie civiche che accompagnavano ‘il professore’. Tosto che lo scorse si gettò nelle braccia del signor Fino, il quale ottenne facilmente la liberazione dalle guardie, che raccontarono di aver trovato quel forestiero oltre i portici dell’università, fortemente abbracciato al collo di un cavallo da cui non voleva divincolarsi».