UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DEL MOLISE DIPARTIMENTO DI SCIENZE UMANISTICHE, SOCIALI E DELLA FORMAZIONE DOTTORATO DI RICERCA IN RELAZIONI E PROCESSI INTERCULTURALI CICLO XXV TITOLO ELABORATO: FRA NORMALIZZAZIONE E INDIVIDUALIZZAZIONE Soggetto, corpi, anarchia SPS/01 – FILOSOFIA POLITICA CANDIDATO: PAOLO BIONDI (MAT. 141435) Coordinatore del Dottorato Chiar.mo Prof. Fabio Ferrucci Tutor Chiar.mo Prof. Flavia Monceri INDICE INTRODUZIONE 3 CAPITOLO 1. Normalizzazione e individualizzazione 15 1.1 La ‘dialettica’ normalizzazione/individualizzazione 15 1.2 Normalizzazione e individualizzazione in Émile Durkheim e Georg Simmel 26 1.3 L’ordine sociale fra individuo e norma 39 1.4 Ordine, controllo e anarchia 57 CAPITOLO 2. Dal soggetto ai corpi 74 2.1 Equilibrio, limitazione e anarchia 74 2.2 Post-strutturalismo e critica del soggetto 99 2.3 Soggettività e corpo in Michel Foucault 125 CAPITOLO 3. Corpi, rappresentazioni e azione politica 144 3.1 Soggetto e corpo nel pensiero femminista 144 3.2 Dal corpo ai corpi: Judith Butler 170 3.3 Intermezzo: la rappresentazione dei corpi maschili 187 3.4 Il soggetto dell’azione politica nel post-anarchismo 209 BIBLIOGRAFIA 238 RINGRAZIAMENTI 250 2 INTRODUZIONE Questo lavoro nasce dall’insoddisfazione nei confronti di una particolare visione della contemporaneità che la vede segnata da un problema piuttosto banale, almeno nel senso che esso si ritrova nella maggior parte dei tentativi delle scienze sociali di descriverla e comprenderla. I termini che probabilmente più di altri hanno la capacità di evocare questo problema sono quelli di ‘post-moderno’ o di ‘post- modernità’, che intendono indicare un momento storico, una società e una cultura che presentano i caratteri di una rarefazione, se non di una dissoluzione, delle tradizionali istituzioni moderne, la quale si è manifestata nel modo più evidente con l’emergere del fenomeno della globalizzazione. I toni attraverso cui la post-modernità e la globalizzazione vengono descritte sono più o meno gli stessi e le analisi che le ricostruiscono sembrano sottolineare una loro natura paradossale: se, da un lato, esse sembrano divenire il simbolo di un aumento pressoché indefinito delle possibilità di espressione del singolo, della moltiplicazione dei punti di contatto e contaminazione tra individui e culture, della distruzione di barriere che sino a non più di vent’anni fa apparivano insormontabili, dall’altro, instabilità, incertezza, conflitto, disagio individuale e collettivo, isolamento, appaiono come l’altra faccia della medaglia di una dimensione umana che sta perdendo qualunque riferimento stabile. In altre parole, sembra che sia impossibile descrivere o trattare la contemporaneità senza in qualche misura avanzare un’interpretazione di questo paradosso e, di conseguenza, ciò che appare come un passaggio obbligato per qualunque prospettiva disciplinare che se ne occupi è la definizione di una chiave di lettura che permetta più o meno di orientarsi al suo interno. Per comprendere appieno la post-modernità, sembrano in generale affermare le scienze sociali, occorre osservare i processi che la caratterizzano come un unicum storico, quali la sempre crescente mobilità e 3 precarietà del lavoro, l’espandersi della società dei consumi, il cristallizzarsi di grandi concentrazioni di capitale grazie alla costituzione di un mercato planetario e la penetrazione della logica spregiudicata della finanza globale all’interno delle istituzioni degli stati democratici, nate proprio per difendere i cittadini dagli effetti perversi della concentrazione del potere. Dietro la moltiplicazione delle possibilità di espressione individuale, dietro la disgregazione delle istituzioni tradizionali come ad esempio la famiglia e gli stati nazionali e dietro l’apparente incremento senza precedenti della libertà individuale, le scienze sociali scorgono un processo di omologazione forzata che si concretizza in una sorta d’ingiunzione al rifiuto della tradizione fondato sul progressivo venir meno di qualsiasi impulso solidaristico, la cui conseguenza più evidente e pericolosa è la divaricazione del corpo sociale in gruppi ristretti di ricchi e potenti e masse sempre più subordinate e escluse. Se questo processo di divaricazione, a livello micro, si alimenta attraverso l’illusione di un successo facile che la nuova società globale sembra porre miracolosamente alla portata del singolo, esso sembra altrettanto connesso, a livello macro, con la crisi delle democrazie occidentali, le quali non sembrano essere più in grado di difendere il bene comune e piuttosto sono ormai uno degli agenti principali che mettono in discussione la stessa idea di comunità. L’esito più importante del tentativo di comprendere la post- modernità a partire dall’osservazione dei suoi processi sociali specifici, dunque, sembra essere quello di chiarire la misura in cui essa risulti in una sorta di corsa suicida della società occidentale e di portare alla luce come da questa contorta e autodistruttiva dinamica sociale scaturisca un problema politico: quello dell’attuale inefficacia istituzionale nel preservare la comunità dall’ingerenza di un progresso anti-comunitario, che non possiede più alcun volto umano. Ciò, allo stesso tempo, permette d’individuare proprio nella politica un possibile strumento d’intervento e di definire questo intervento come ispirato e teso a una sorta di ricomposizione delle innumerevoli divaricazioni aperte dalla globalizzazione nel corpo sociale 4 come quelle tra ricchi e poveri, tra globale e locale, tra stato e società civile attraverso uno sforzo di sintesi, d’ibridazione, di contaminazione e che sia tale da riscoprire la radice solidaristica delle istituzioni. Coloro che si trovano in una posizione di potere, sembra suggerire tale lettura, non devono ostacolare le soluzioni ai paradossi della post- modernità che provengono ‘dal basso’, cioè lontano dai centri di potere, perché è proprio lì che la solidarietà riemerge con più forza come norma sociale fondamentale, negata invece dalle disumanizzanti logiche della globalizzazione. Ne consegue, ancora per questa lettura, che appare necessaria una sorta di ‘rifondazione morale’ della società che non può che essere ottenuta attraverso la sola rifondazione delle istituzioni politiche alla luce dell’ideale solidaristico. Come si diceva all’inizio, questo lavoro nasce dall’insoddisfazione verso visioni di questo tipo. Anzi, potremmo dire, esso intende proprio sostenere che un’impostazione del paradosso post-moderno che culmini nell’affermazione secondo cui una soluzione alla corsa suicida della società occidentale possa provenire solo ‘dal basso’ tende a promuovere un tipo di cambiamento che non coincide con la messa in discussione di asimmetrie e disuguaglianze fondamentali delle moderne democrazie occidentali, quanto piuttosto con una loro riproduzione acritica, perché la stessa distinzione tra un ‘alto’ e un ‘basso’ sembra istituire, a sua volta, una nuova distinzione che colloca in maniera esclusiva la fonte del cambiamento in un luogo che si presume immune dalle logiche perverse del potere. L’argomentazione di questa affermazione, che potrebbe essere individuata come la linea guida di tutto il presente lavoro, sarà condotta da un punto di vista teorico, in quanto sembra che sia proprio a livello teorico che la riproduzione di asimmetrie e distinzioni avviene nella misura più rilevante. Ciò, tuttavia, non significa cercare di riaffermare anacronisticamente il primato indiscusso della teoria nei confronti della pratica; piuttosto, s’intende sostenere che l’atto teorico non può sottrarsi a condizionamenti che sono di natura storica, sociale, culturale che lo 5 qualificano già come un’attività pratica, in quanto sono proprio tali condizionamenti a incidere inevitabilmente sulla riflessione teorica e sui suoi risultati e, verrebbe da dire, in misura tanto più rilevante quanto più essi sono negati. Ad esempio, ciò sembra evidente se si considera che la linea di pensiero che analizza la post-modernità a partire dall’individuazione di un nesso causale e necessario che fa derivare il problema politico dai processi sociali, produce una sorta di ‘effetto di verità’ tale da apparire difficilmente contestabile. Una teoria che affermi che le dinamiche sociali determinano la modificazione delle istituzioni politiche, di modo che si può pensare a una relazione ottimale tra queste due dimensioni che assuma la forma di un adeguamento della prima alla seconda, appare probabilmente come una verità autoevidente. Tuttavia, tale verità si dimostra, al contrario, piuttosto discutibile e non solo perché quello della formazione delle istituzioni politiche è un tema che le scienze sociali non riusciranno probabilmente mai a sviscerare del tutto, ma anche e soprattutto perché non è possibile dimostrare l’esistenza di un gruppo umano da cui la negoziazione di posizioni di potere e il problema della risoluzione del conflitto (ovvero, la dimensione politica) siano assenti. In altre parole, non è possibile dimostrare l’esistenza di un gruppo che sia esclusivamente sociale, non-politico o pre- politico, e che divenga politico da un certo momento in poi della propria storia. Di conseguenza, dato che quella tra sfera politica e sfera sociale si presenta come una semplice distinzione analitica, stabilire una relazione causale che derivi la prima dalla seconda non è un dato di fatto, quanto piuttosto il frutto di un’opzione teorica che si colloca entro un preciso insieme di assunti e presupposti più generali. Sottolineare l’esistenza di un contesto più generale nel quale s’inserisce una certa teoria non significa, tuttavia, affermare che questo contesto coincida con, o sia definito dai confini tradizionali che separano le discipline, ad esempio la sociologia e la scienza politica. Al contrario, significa porre in rilievo l’esistenza di 6 questioni precedenti e trasversali a quelle dell’appartenenza di un certo oggetto di studio o di una certa prospettiva a un campo disciplinare o all’altro, che attraversano l’intero insieme delle scienze sociali. Tuttavia, a tali questioni fondamentali, come ad esempio quelle della definizione della natura umana, della natura delle istituzioni e del presupposto dell’esistenza di un legame sociale, non è possibile dare una risposta scientificamente definitiva: di conseguenza, il loro emergere e la loro rilevanza obbligano a prendere una posizione. Una gran parte degli esiti di una qualsiasi teoria deriva dall’insieme di queste prese di posizione – che includono anche ‘riferimenti al valore’ – senza che esista la possibilità di correggerle e rivederle, dato che la scienza non può garantire una verità definitiva su di esse. Per tale motivo, rintracciare i presupposti fondamentali all’interno di una teoria non è un’attività finalizzata alla correzione o al miglioramento di quella teoria: un presupposto sulla natura umana, ad esempio, non può che essere sostituito da un altro presupposto. Tuttavia, è un’attività che permette di spiegare una teoria in misura rilevante come la conseguenza dell’adozione di un certo insieme di presupposti, piuttosto che come conseguenza della sola osservazione della realtà che possa essere valutata in base alla sua maggiore o minore approssimazione all’oggettività. In questo senso, s’intende qui sostenere che descrivere la post-modernità a partire dalla definizione dei tratti peculiari della sua realtà sociale, attraverso una relazione di derivazione della sfera politica da quella sociale, nonché intendere la sfida della contemporaneità come quella di una rifondazione delle istituzioni democratiche alla luce di una fondamentale norma solidaristica, appaiono come l’esito di un percorso di scelte tra opzioni teoriche che può essere ricostruito e il cui primo presupposto sembra essere proprio quello di considerare la sfera sociale come il precedente logico di quella politica. Se, infatti, proviamo a descrivere il paradosso della post-modernità a partire dal problema politico, il risultato pare essere un’impostazione del tutto diversa. Quel che ne emerge non è una crisi di efficacia delle 7 istituzioni democratiche nel senso che esse non riuscirebbero più a garantire la salvaguardia del bene comune. Piuttosto, la compresenza dell’ampliamento delle possibilità espressive del singolo con quella di ingiunzioni all’omologazione sempre più pressanti può essere descritta come l’incapacità delle istituzioni contemporanee di garantire effettivamente l’uguaglianza di tutti gli esseri umani nonostante la proclamazione formale di tale uguaglianza. In tal senso, si può parlare di una crisi di legittimità delle istituzioni democratiche, in quanto l’ingiunzione all’omologazione, ovvero l’adeguamento forzato del singolo a una serie di parametri, declinati in senso esistenziale, sociale e culturale, diviene condizione necessaria dell’accesso a un gruppo di uguali a cui è pienamente riconosciuto il diritto alla libertà di espressione individuale. Tuttavia, lungi dal qualificarsi come la caratteristica tipica della post- modernità, il problema della legittimità ha accompagnato la democrazia moderna sin dalla prima formulazione illuminista dei suoi assunti di base. Esso, infatti, fu rilevato da quegli orientamenti critici che mettevano in risalto la problematicità di ergere a principio fondamentale della vita associata l’ideale di uguaglianza, proprio perché ciò implicava l’affermazione di uno standard normativo che di fatto limitava la partecipazione alla vita pubblica solo ad alcuni gruppi sociali, il che in definitiva significa solo ad alcuni individui. Affermare l’uguaglianza di tutti, in altre parole, significa anche stabilire dei criteri in base ai quali tale uguaglianza può essere rilevata e, quindi, significa stabilire delle differenze. La differenza di censo, ad esempio, ha da subito assunto un significato politico in quanto è stata subito individuata come un fattore critico in grado di condensare una serie di effetti collaterali di tipo sociale e culturale che definivano una condizione di esistenza in qualche modo resistente all’equalizzazione. Tuttavia, la disuguaglianza economica sembrava, rispetto ad altre, più passibile di essere riassorbita proprio dal tentativo illuminista di porre la tensione all’ideale egualitario come nuovo fondamento della vita associata. È probabilmente 8 corretto individuare almeno due ulteriori orientamenti critici nei confronti dell’ideale di uguaglianza che producono argomentazioni sostanzialmente diverse da quelle costruite sul censo, proprio perché risultano in qualche modo resistenti a essere superate individuando nell’uguaglianza il fine ultimo di una comunità politica illuminata. Il primo, ossia il pensiero femminista può essere considerato, in questa chiave, come un orientamento critico che mette in risalto la persistenza sostanziale di discriminazioni legate alla conformazione fisica, nonostante in linea di principio si sancisca l’uguaglianza di tutti di fronte alla legge in virtù della comune appartenenza alla specie umana. Il secondo, più immediatamente politico, è il pensiero anarchico, che è stato probabilmente la linea di riflessione politica che più di altre ha impostato la propria critica alla democrazia muovendo dal tentativo di leggere la tensione verso l’uguaglianza come la manifestazione di un potere che non libera l’individuo dalle costrizioni pre-moderne, ma lo rende schiavo in maniera ancora più profonda. Insomma, il problema che la post-modernità ripropone dal punto di vista politico non è tanto quello dell’inefficacia delle istituzioni democratiche, dato che tale inefficacia risulta evidente sin dal loro emergere. Piuttosto, si tratta d’intendere come problema il fatto che le istituzioni democratiche moderne si siano conservate sino ai giorni nostri, riuscendo a mantenere sostanzialmente inalterata la tensione verso un’uguaglianza che ancora non riescono effettivamente a garantire. Le possibili risposte a questa questione sembrano essere sostanzialmente due. La prima consiste nell’affermare che le istituzioni democratiche riescono, seppure in maniera parziale e perfettibile, a rappresentare effettive e naturali istanze dell’essere umano, e siano, di conseguenza, l’espressione di un istinto alla solidarietà e alla cooperazione in qualche modo presente nell’essere umano. La seconda, su cui sembrano convergere le critiche provenienti dal femminismo e dall’anarchismo, consiste nell’affermare che la loro tenuta sia il risultato dell’esercizio di un potere che necessariamente divide e discrimina proprio per costruire l’uguaglianza. Si può affermare che 9 una risposta definitiva a questa questione teorica non sia ancora stata prodotta. Di conseguenza, questo lavoro intende mettere in luce che sostenere una tesi o l’altra implica l’accettazione di alcuni presupposti e il rifiuto di altri. Nel primo capitolo, si cerca di evidenziare come i concetti di normalizzazione e individualizzazione, e il riconoscimento di una tensione tra di loro, rimandino a questo problema politico. Descrivere la realtà sociale nei termini di processi sociali divergenti che producono da un lato l’omologazione e, dall’altro, l’esaltazione dell’individualità appare una possibilità teorica che si apre a partire dall’illuminismo e risulta, quindi, connessa con l’affermazione dell’indipendenza della sfera umana da quella divina che, a sua volta, obbliga a spiegare la variabilità dell’umano, sia nei termini di differenze tra i singoli che in quelli di differenze di tipo storico e geografico tra diversi gruppi umani, come frutto di dinamiche interne alla stessa dimensione umana. L’Illuminismo, in altre parole, sancisce il riconoscimento della plasticità della natura umana, della sua capacità di cambiamento al variare delle condizioni storiche, sociali e culturali, in contrapposizione a una concezione statica della natura umana, secondo cui essa sarebbe identica a se stessa nel tempo e nello spazio. L’idea della plasticità della natura umana, si sostiene, appare come il presupposto fondamentale che determina la stessa idea secondo cui è possibile elaborare una teoria politica a partire dalla definizione delle condizioni di un cambiamento orientato all’uguaglianza. Tale presupposto appare anche come quello che legittima l’indagine scientifica della società che, appunto, si palesa sin dai suoi inizi come indagine sulle condizioni storiche e sociali del cambiamento politico. È probabilmente la sociologia che si è fatta carico di questo compito più di altre discipline. Ed è proprio all’interno del pensiero sociologico, sin dalle sue prime formulazioni, che è possibile rintracciare due distinti problemi dell’indagine sociale, quello dell’ordine e quello del controllo. Il primo appare evidente in quelle analisi che muovono dalla 10
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