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Sociologia dei media digitali: Relazioni sociali e processi comunicativi del web partecipativo PDF

180 Pages·2012·1.468 MB·Italian
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eBook Laterza Davide Bennato Sociologia dei media digitali Relazioni sociali e processi comunicativi del web partecipativo © 2011, Gius. Laterza & Figli Edizione digitale: settembre 2013 www.laterza.it Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari   Realizzato da Graphiservice s.r.l. - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 9788858103470 È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata — dedica a mia figlia Federica, per cui alcuni temi di questo libro saranno il passato del suo presente Penso solo che la fuga dalla tecnologia e l’odio nei suoi confronti portino alla sconfitta. Il Buddha, il Divino, dimora nel circuito di un calcolatore o negli ingranaggi del cambio di una moto con lo stesso agio che in cima a una montagna o nei petali di un fiore. Pensare altrimenti equivale a sminuire il Buddha – il che equivale a sminuire se stessi. Robert M. Pirsig Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta (1974) «Oggi, Noi celebriamo il primo glorioso anniversario delle Direttive sulla Purificazione dell’Informazione. Noi abbiamo creato – per la prima volta in tutta la storia – un paradiso di pura ideologia. Dove ciascun lavoratore può realizzarsi al sicuro dalla peste delle verità contraddittorie. La nostra Unificazione dei Pensieri è un’arma più potente di qualsiasi flotta o armata sulla terra. Noi siamo un popolo, con una sola volontà, un’unica risolutezza, una sola causa. I nostri nemici potranno parlare fino alla morte e noi li sotterreremo con la loro stessa confusione. Noi prevarremo!» «Il 24 gennaio la Apple Computer lancerà Macintosh. E capirete perché il 1984 non sarà come 1984.» Spot Apple Macintosh (1984) Il futuro è un vero Olimpo di opportunità e profondi cambiamenti che costringeranno a ripensare il nostro rapporto con la rete. Oggi si contano sulle dita di una mano, ma presto la nostra vita digitale, ma non solo, sarà colonizzata da una serie di servizi ideati, progettati e fatti nascere da uno stuolo agguerrito di imprenditori che coinvolgeranno direttamente gli utenti. E gli utenti con le loro interazioni produrranno un diluvio di informazioni che saranno alla base di un modo completamente diverso di immaginare il marketing e il mercato. C’è chi dice che bisogna stare attenti. Magari da qui a – diciamo – 7 anni, potrebbero nascere delle mini tecnologie in grado di migliorare le attuali tecnologie di controllo, che invece di spiare a lungo potranno spiarci per sempre. Ma io non credo a queste Cassandre. Il futuro è di chi lo inventa, il futuro è di chi lo immagina, il futuro è di chi osa possederlo. David Ben Lidah discorso di chiusura alla O’Reilly Conference (2004) Prefazione «Facebook è un luogo per il voyeurismo e il gossip». «Youtube è solo uno strumento per video insulsi e violazioni del copyright». «Il blog è la massima espressione del narcisismo personale». «Wikipedia non può essere una fonte attendibile se è vero che viene scritta da incompetenti». A uno sguardo superficiale, le affermazioni di cui sopra sembrano contenere delle note di buonsenso. In realtà ci sono diversi motivi per considerare riduttivo – e in alcuni casi sbagliato – qualunque giudizio tranchant su questi fenomeni della rete. I processi sociali e comunicativi che sottendono, per quanto in alcuni casi possano sembrare controversi, sono molto complessi e articolati e hanno bisogno di essere compresi e non liquidati acriticamente o – altrettanto acriticamente – esaltati. Internet è diventato un luogo molto diverso rispetto a qualche tempo fa. Sono aumentati i servizi offerti, sono cresciute le startup che inventano nuovi modi di usare il web, sempre più spesso si naviga in rete in mobilità, attraverso telefonini di ultima generazione e tablet, ultimi arrivati sul mercato dell’elettronica di consumo. Ma la caratteristica più evidente del web odierno sono le persone. Internet è densamente popolato e gli studi suggeriscono che questa tendenza aumenterà nel futuro, perché la rete rende possibile scambiare idee, opinioni, interessi, passioni, valori. E per farlo, gli strumenti chiave sono le tecnologie del Web 2.0, o – come si preferisce chiamarle negli ultimi tempi – i social media. Blog, wiki, social network sites hanno ormai catalizzato attenzione (e tempo) di una fetta sempre più consistente di utenti della rete. La domanda a questo punto diventa: ennesima moda digitale o cambiamento epocale? Astuto marketing dei consulenti informatici o rivoluzione dei contenuti generati dagli utenti? Nuova bolla speculativa finanziaria o cambiamento strutturale nell’economia dell’informazione? Insomma: apocalittici o integrati? Come tutte le dicotomie, anche questa tende a ridurre in una opposizione di bianco e nero un mondo fatto di sfumature di grigio. Lo scopo del volume è quello di orientare gli utenti, siano essi entusiasti o detrattori, a comprendere meglio l’universo dei media digitali, che possiede aspetti interessantissimi e innovativi, assieme ad altri meno interessanti e ad altri ancora più «tradizionali». L’obiettivo che mi sono posto è stato quello di confrontarmi con una sempre più consistente letteratura scientifica su questi temi, che usa la prospettiva delle scienze sociali (e della sociologia della comunicazione in particolare) per provare a cartografare uno spazio sociale in costante mutamento. Ma come succede per tutte le cose in rapido mutamento, non tutto ciò che cambia cambia davvero. Sembra di sentire l’eco delle parole che, nel racconto Attraverso lo specchio, la Regina Rossa rivolge ad Alice: «Bisogna correre velocemente se si vuole restare fermi nello stesso posto». O – per chi preferisce atmosfere letterarie gattopardesche – «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi». Per evitare la gabbia concettuale della dicotomia vecchio/nuovo o apocalittici/integrati, ho provato a immaginare un percorso che si dipana fin dal titolo del volume. I temi che verranno affrontati nelle prossime pagine solitamente vengono designati con la dizione di studi sui new media. Io ho preferito usare la dizione media digitali, anzitutto perché chiamare questi mezzi di comunicazione «nuovi» vuol dire far loro un torto, dato che, pur essendo recenti, non vuol dire che siano nuovi. Così come non è più possibile considerare «nuovo» internet, che ormai fa parte delle abitudini di consumo culturale di una fetta sempre più consistente di italiani. Un altro motivo per il quale ho scelto di non usare il termine new media è che, nei convegni accademici su questi temi, fra colleghi di diverso ordine e grado questa definizione è percepita (e neanche tanto velatamente) come un letto di Procuste: troppo ampia per alcuni studi, troppo stretta per altri. Infine perché, frequentando – da neofita e curioso – il mondo della cultura digitale italiana, con i suoi incontri informali, riti e manifestazioni, ho notato che il termine quando non è sconosciuto è assolutamente inutilizzato. Dicevamo: tracciare un percorso che funga da cartografia di uno spazio sociale in mutamento. Ma quali sono i punti di riferimento di questo percorso? In primo luogo la dimensione del cambiamento. A questo tema ho dedicato il primo capitolo, provando ad argomentare come i media digitali costringano a ripensare in chiave diversa alcuni temi che costituiscono l’ossatura degli studi sociali sulla comunicazione, come broadcast, audience, mass media, distinzione pubblico/privato. Ho cercato di mostrare come i media del web partecipativo si inseriscano in processi tipici della tradizione classica di studi e teorie sulla comunicazione, ma nel far questo portano delle sfide al modo tradizionale e «pacificato» di ripensare i concetti di cui sopra. Ad esempio, i blog sono sia mezzo di comunicazione che mezzo di relazione sociale, attualizzando così la commistione fra comunicazione di massa e comunicazione interpersonale, che è una delle grandi scoperte della notissima teoria del flusso di comunicazione a due fasi di Katz e Lazarsfeld. Un altro punto di riferimento di questo percorso è la dimensione infrastrutturale della relazione su internet, a cui ho dedicato il secondo capitolo. In questo caso la questione che ho affrontato è: di cosa si parla quando si parla di media digitali? Può sembrare un mero esercizio accademico, ma non lo è (o non lo è del tutto). Distinguere un blog da un wiki, o un social network da un microblog, non è solo un bizantinismo, ma serve per comprendere che le relazioni sociali e le strategie che vengono sviluppate – poniamo – nei blog sono profondamente diverse da quelle dei microblog. Per tanti motivi, ma uno su tutti: molte delle possibilità relazionali rese disponibili dai media digitali sono inscritte nella tecnologia, sono incorporate nella macchina. Relationship in the machine, parafrasando un celebre album dei Police (e una altrettanto celebre teoria della filosofia della mente). Il terzo punto di riferimento sono i valori, oggetto della discussione dell’ultimo capitolo. Qui sostengo che le scienze sociali hanno la necessità di comprendere la dimensione valoriale ed etica dell’uso che viene fatto dei media digitali. Ovviamente in senso laico e liberale: non ritengo che ci sia un modo giusto o sbagliato in senso assoluto di usare le tecnologie legate ad internet. Ma ritengo che ci siano usi che si potrebbero definire problematici, ovvero che pongono questioni non banali sull’immagine del mondo che ognuno di noi possiede. C’è un altro motivo – squisitamente personale – che mi ha portato ad affrontare questo tema. Da diversi anni sono autore di un blog che si chiama Tecnoetica e che è nato proprio per affrontare la questione del rapporto fra valori e tecnologia (non necessariamente digitale). Col tempo è diventato un disordinato quaderno degli appunti dei miei interessi personali e di ricerca che si è un po’ allontanato dal progetto originario, ma ciononostante continuo a subire il fascino che hanno i valori quando vengono interpretati dalla tecnologia. Questo il percorso che ho intrapreso, aiutato dalla consistente letteratura scientifica che si sta accumulando su questi temi e da una più che evidente passione per questo mondo, che mi ha permesso di conoscere tanti professionisti, tanti colleghi e tantissime persone che adesso considero amiche. Al mio lettore chiedo di sospendere i preconcetti – positivi o negativi – e di interrogarsi su come questi strumenti abbiano cambiato le nostre relazioni e in che modo stiano modificando la realtà sociale e comunicativa intorno a noi. Media e reti digitali. Né moda, né rivoluzione. «Semplicemente» media. I. Contesto. Processi comunicativi e media digitali: un panorama mutato Uno dei topoi della letteratura contemporanea sulla sociologia della comunicazione è il passaggio dall’analogico al digitale. Questa transizione spesso viene concepita come un passaggio tecnologico (ad es.: Negroponte, 1999) o – nella migliore delle ipotesi – come un passaggio di tipo socioculturale. L’idea che si cercherà di sostenere in questo capitolo è che è sicuramente innegabile un cambiamento nel passaggio dai media analogici ai media digitali, fermo restando che questo cambiamento – per certi versi – ripropone da una prospettiva diversa temi classici dei mezzi di comunicazione di massa. In pratica è un cambiamento nella continuità della tradizione della comunicazione attraverso i media. 1. Il processo comunicativo: dal broadcasting al socialcasting La letteratura sociologica sui media che si è interrogata sulle architetture tecnologiche della trasmissione della comunicazione ha sempre fatto riferimento ad una caratteristica considerata tipica dei mezzi di comunicazione di massa analogici ed elettrici: il broadcasting (DeFleur, Ball-Rokeach, 1995; Thompson, 1998). Con il termine broadcasting si fa riferimento alla modalità di trasmissione detta da uno a molti, in cui c’è una sorgente di comunicazione che irradia il proprio contenuto ad una collettività di persone concettualizzata come indistinta e che viene definita pubblico dei media (definizione che aggiorna l’ormai desueto concetto di «massa»: Gili, 1990). Il termine irradiare non è stato scelto a caso, dato che il concetto di broadcast deve la propria diffusione proprio allo sviluppo del sistema radiotelevisivo (Sorice, 2005; Boni, 2006). L’uso del termine è sempre stato di tipo ingegneristico o – se vogliamo – di tipo eminentemente trasmissivo, ovvero il broadcasting inteso come sistema tecnologico tipico dei mezzi di comunicazione di massa basati sulle onde radio. Le analisi più recenti, che hanno messo in relazione la dimensione tecnologica con la dimensione simbolica dell’artefatto televisivo (per esempio: Silverstone, 2000), hanno evidenziato che considerare il broadcast come semplice soluzione tecnologica non rende conto della complessità sociale che tale strategia porta con sé. Classica da questo punto di vista la posizione di Raymond Williams (2000), il quale considera il broadcast come una forma culturale a tutti gli effetti, il cui ruolo è stato quello di fornire uno strumento istituzionalizzato prima per la trasmissione delle notizie e poi per l’approvvigionamento sociale, che tra le altre conseguenze ha avuto quella di trasformarsi in un sistema di controllo sociale. Quindi il broadcast è una forma culturale caratterizzata da una precisa architettura trasmissiva con delle specifiche componenti sociologiche (Fidler, 2000). Con il passare del tempo e con la maggiore presenza di tecnologie per la diffusione delle comunicazioni, progressivamente si è fatto avanti un altro concetto legato all’architettura della trasmissione delle comunicazioni: il narrowcasting. Con questo termine si intende per lo più il passaggio da un sistema tecnologico di comunicazione da uno a molti (il broadcasting) a un sistema pochi a pochi (Hirst, Harrison, 2007). In pratica con il narrowcasting è possibile usare un canale comunicativo per veicolare contenuti a pubblici specifici. Questa modalità trasmissiva nasce in origine per descrivere la strategia della televisione via cavo statunitense (Gasparini, 2005; Mullen, 2002), per poi passare a descrivere architetture tecnologiche basate sulle capacità di trasmissione rese possibili da internet (Kruse, 2002; Smith-Shomade, 2004). Questo slittamento di significato è attribuibile al fatto che in origine il narrowcasting era un modo per definire la segmentazione dell’ampiezza di banda – intesa come spettro delle radiofrequenze disponibili – destinata al raggiungimento di pubblici specifici, mentre con internet viene mantenuta la «concezione architetturale» in quanto il problema della capacità di banda è considerato meno pressante (de Sola Pool, 1998). Seguendo l’argomentazione della Buonanno (2006) da un punto di vista prettamente televisivo, la fase tecnologica del narrowcasting potrebbe essere fatta corrispondere con un periodo di abbondanza televisiva (quello degli anni ’90), fase finale di un processo che dall’iniziale scarsità (dalla seconda metà degli anni ’70 all’inizio degli anni ’80) aveva in un secondo momento portato a un periodo di crescita (gli anni ’80 della televisione commerciale: cfr. Ellis, 2000). Da questo punto di vista il narrowcasting non sarebbe altro che la

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