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Socialismo e questione femminile in Italia, 1892-1922 PDF

233 Pages·1974·46.954 MB·Italian
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FRANCA PIERONI BORTOLOTTI SOCIALISMO E QUESTIONE FEMMINILE IN ITALIA 1892 -1922 Gabriele Mazzetta editore Storia e classe 3 FRANCA PIERONI BORTOLOTTI SOCIALISMO E QUESTIONE FEMMINILE IN ITALIA 1892 -1922 Gabriele Mazzetta editore © 1974 Gabriele Mazzetta editore Foro Buonaparte 52 - 20121 Disegno per la copertina di Cosimo Ricatto INDICE Introduzione...............................................................................pag. 7 I Dall* « utopia » alle « riforme »...............................» 23 Il Leghe femminili e Partito socialista .... » 36 III La campagna per la legge sul lavoro delle donne . . > 58 IV La discussione del *98...............................................» 74 V L’anarchismo di Anna Maria Mozzoni e il femmini­ smo nazionale...................................................» 90 VI L’età giolittiana..............................................................» 105 VII Le nuove prospettive................................................» 124 Vili La crisi del dopoguerra...............................................» 138 Appendice.......................................................................................» 149 1. Viti di fabbrica e attività politica delle sigaraie fiorentine dal 1874 al 1893 ......................................................................................................» 149 2. Le lotte delle sigaraie fiorentine dalla fondazione della Camera del Lavoro all’avvento del fascismo. 1893-1922 .........................................» 176 Indice dei nomi...............................................................................» 227 INTRODUZIONE / di vaga tori in bolitica ci parlano di emancipare il popolo e le donne; è volere il frullo prima della foglia, volere l'ef­ fetto prima della causa. Occorre eman­ cipare tutt'insieme. poiché si conosce il processo di liberazione integrale. Vi è follia in questi piani dt emancipazione parziale. Charles Fourier « Ogni famiglia contadina » scrivevano due medici lom­ bardi, lo Strambio e l’Ambrosoli nel secolo scorso, indagan­ do sulle cause della pellagra, « malattia della miseria », « si procura il possesso di una vacca; ma dal latte trae il burro non già per proprio uso, ma per averne qualche moneta con la vendita: il solo residuo acido è quello che serve a nutri­ mento de’ fanciulli e delle donne, insieme all’acidissimo pane. Lo stesso si fa delle uova, la massima parte delle quali si vende, ed il restante si consuma dal capocasa o dagli an­ ziani della famiglia, e non dalle donne, e queste sono di pre­ ferenza affette dalla pellagra ed in età più giovanile che gli uomini. » Donne e bambini avevano, come allora si diceva, « mino­ ri bisogni » e lavoravano in casa o nei primi opifici, a incan­ nar bozzoli, torcere, tessere e filare la seta, retribuiti appun­ to in base a questi minori bisogni. 11 primo opuscolo su quello che ancora veniva chiamato « il risorgimento della donna», nel 1864, contiene infatti un capitolo nel quale si denuncia l’abitudine di retribuire il lavoro sulla base dei bi­ sogni, veri o presunti, di chi lo svolgeva, piuttosto che del suo « valore ». In base a considerazioni di genere assai diver­ so, Federico Engels arrivava alla conclusione che nella fami­ glia « la donna è il proletario ». Una eventuale storia della famiglia in Italia che partisse dalla sua interna articolazione sociale, probabilmente troverebbe in questo periodo, quando si pongono le premesse della nascita dell’industria, il suo momento più significativo. Qui lasciamo da parte la storia della famiglia per una cro­ naca meno ambiziosa, che interessa piuttosto i partiti politi­ ci, organismi transeunti e mutevoli, la cui scomparsa ha co­ 7 inciso in Italia con l’epoca fascista. E una cronaca di avveni­ menti poco notati e forse poco rilevanti, dato che la que­ stione femminile, soprattutto negli ultimi tempi, serve piut­ tosto da tema a lavori che vanno in direzione opposta, ad esempio verso « la storia della donna », che qualcuno sem­ bra ritenere possibile; il che ci fa pensare che presto avremo una storia dei negri e una dei bianchi; poi una storia dei meridionali e una dei settentrionali, ecc.: vale a dire una storia fatta in base al sesso, al colore della pelle, alla latitu­ dine. Giornali femminili, statuti di leghe e bollettini di associa­ zioni sono il materiale che testimonia l’esistenza, tanto nel femminismo borghese quanto nel socialismo italiano, di due diversi modi di affrontare la questione femminile: da un lato, coloro che, di fronte ai problemi aperti dal lavoro delle donne nelle fabbriche e alla « concorrenza » del sottosalario, risposero negando che le donne avessero minori bisogni de­ gli uomini (come negavano che gli operai avessero « minori bisogni» dei borghesi) e mantennero aperta la prospettiva della parità di salario; dall’altro, coloro che cercarono di al­ lontanare le donne dalle fabbriche, giustificando con la di­ versità dei compiti naturali le distinzioni sociali (non sol­ tanto tra uomini e donne, ma, a ben guardare, anche tra le classi). Queste due diverse impostazioni non coincidono con le « due anime » del socialismo, la rivoluzionaria e la rifor­ mista. Passano all’interno dell’una e dell’altra, perché ap­ punto non tutti vedevano il rapporto tra rivoluzione e rifor­ me, tra socialismo e democrazia, in relazione allo stesso sco­ po. La discordanza che allora colpiva era quella sui mezzi; quella che ora colpisce, ad una analisi retrospettiva, è la di­ scordanza sui fini. Oggi il problema non è di sapere se il movimento fosse più imporrante dello scopo, com’era al tempo del dibattito aperto da Bernstein; è di capire a che scopo tendevano i diversi movimenti. L’esame delle opinio­ ni espresse sulla questione femminile nell'ambito del sociali­ smo italiano, è un test esemplare in questo senso. Si pensi, ad esempio, al diritto elettorale il più tradizionale, il più vieto ed inutile, il più ovvio e scontato dei noiosi diritti della de­ mocrazia borghese: il rivoluzionario direttore dell’« Avan­ ti! », Benito Mussolini, confessava ad Ernesta Bittanti, me­ glio conosciuta come moglie di Cesare Battisti, che lui, il voto alle donne non l’avrebbe mai dato; potendo, l’avrebbe eliminato anche per gli uomini. Ma la stessa coerenza si tro­ 8 va nel riformista Gaetano Pieraccini, esperto in medicina del lavoro, che in età giolittiana dimostrava come il posto della donna fosse la casa e non la fabbrica; egli poteva ov­ viamente tornare a difendere la sua tesi nel 1931, e ripren­ derla ancora negli Anni Cinquanta, aggiornandola con nuo­ vi argomenti. La questione femminile permette intanto di vedere, al di là delle differenze apparenti, quali siano i punti di contatto fra correnti diverse di uno stesso partito, fra un certo modo di essere, rivoluzionari e riformisti. Tra rivoluzionari cosi intransigenti e riformisti cosi riformatori, si può capire come venisse accolta, negli anni successivi, la notizia che un Lenin, in verità assai poco letto, parlava di emancipazione della donna e annotava tra le conquiste della Rivoluzione russa l’estensione del diritto di voto alle lavoratrici di quel semiasiatico paese. Perfino i riformisti, in Italia, avrebbero giudicato scandalosamente interclassista la celebre invettiva del marxista russo. « Noi odiamo, si, odiamo tutto ciò che opprime la donna lavoratrice, la massaia, la contadina, la moglie del piccolo commerciante, e in molti casi, la donna delle classi possi­ denti... » e chiunque avrebbe detto vagamente blasfema, ol­ tre che rozzamente deterministica, la prospettiva, sempre avanzata da Lenin, di socializzare i lavori domestici. Sappiamo che il sociologo Sorel ammirava insieme Lenin e Mussolini, naturalmente dopo che l’uno e l’altro avevano, come allora si diceva, conquistato il potere. Ora, l’esame dei dibattiti sulla condizione femminile permette almeno di no­ tare una differenza di orientamento tra i due personaggi. Quel Lenin, che scrivendo Stato e Rivoluzione, diceva che anche una cuoca avrebbe potuto dirigere uno Stato, in un futuro piuttosto nebuloso, e tale tuttavia da rimanere un punto di riferimento, faceva esclamare a Filippo Turati che certe cose, certe utopie e velleità erano state abbandonate in Italia con il programma del 1892, con la fondazione di un autentico partito marxista, con la liquidazione dell’anarchi­ smo e dell’operaismo: infatti, nel 1892, i socialisti italiani avevano fra l’altro liquidato la campagna per l’emancipazio­ ne della donna. L’avevano liquidata cosi bene che quando i futuri comunisti italiani, dichiarando fin dal congresso di Bologna (1919) che tutto il programma del 1892 doveva essere messo da parte, non trovarono alcun precedente del genere nella tradizione nazionale; e di emancipazione pote- 9 tono discutere soltanto cercando di orientarsi sull’esempio sovietico, e con la nuova, preziosa esperienza della lotta contro la guerra e per le otto ore, condotta negli ultimi anni dalle operaie tessili, sarte, ecc. Il rapporto col femminismo appariva allora impossibile e poco auspicabile. La frase di Lenin, che circolava più comu­ nemente fra i comunisti italiani in tema di femminismo, era l’osservazione che in un giorno la Rivoluzione russa aveva fatto per le donne quello che cento anni di congressi fem­ ministi erano stati incapaci di fare. Ma era un frase di cui in Italia non si capiva, e non poteva essere altrimenti, l’aspetto polemico: quella frase in realtà era un invito ai femministi autentici, uomini e donne, a schierarsi con la rivoluzione so­ cialista, per la conquista dei più elementari diritti democra­ tici, dato che ormai la democrazia, per la classe borghese, stava perdendo ogni attrattiva. Il colloquio tra Lenin e la Zetkin che è stato riportato nel volumetto di Lenin L’eman­ cipazione della donna, più volte ristampato in questi ultimi anni, ha sempre suscitato interesse per la disputa sulla liber­ tà sessuale, sulla teoria del « bicchier d’acqua », ecc. Non si è mai fatta attenzione al suo progetto di offrire nel 1919 al femminismo mondiale una piattaforma comune con l’orga­ nizzazione femminile della Terza Internazionale, di condur­ re la campagna per l’emancipazione alle sue logiche conse­ guenze: mentre Lenin valutava con cognizione di causa il carattere « disgregatore » del femminismo nei confronti del­ la società borghese (e non per nulla tra i suoi primi seguaci aveva trovato Sylvia Pankhurst) e cercava di farne un ele­ mento della rivoluzione operaia, il settarismo delle « compa­ gne bulgare e tedesche », secondo quanto egli disse alla Zet­ kin, mandava a monte il progetto. L’occasione - di nuovo Lenin lo notava - non si sarebbe presentata due volte. Infat­ ti, di li a poco, in Italia sarebbe stato il fascismo, la contro­ rivoluzione, a utilizzare il femminismo per disgregare la de­ mocrazia italiana: prima, conquistando dall’interno, attra­ verso i gruppi nazionalisti, le società femministe; poi, pas­ sando al loro scioglimento, quando esse rifiutavano il pro­ tettorato fascista. Il femminismo italiano del periodo prefascista, durante la dissoluzione dello Stato liberale, al di là delle articolazioni politiche e ideali, aveva scontato gli effetti della crisi econo­ mica: tornati gli uomini dal fronte, l’industria attraversava la fase della « riconversione » alla produzione di pace; l’oc­ 10

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