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Silicon Valley PDF

136 Pages·2017·0.75 MB·Italian
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Da alcuni anni le aziende della Silicon Valley promettono prosperità, uguaglianza e una nuova società in cui tutto sarà condivisibile e accessibile, superando le vecchie logiche di mercato. Ma le cose stanno davvero così? Siamo sicuri che Google, Amazon, Facebook, Twitter & Co. non siano piuttosto l’ultima incarnazione del capitalismo (ancora più subdolo, perché mascherato dietro la suadente retorica della rivoluzione digitale) e l’ennesima versione dell’accentramento di potere economico e politico nelle mani di pochi? In tutto questo, sostiene Morozov, di democratico, rivoluzionario e “smart” c’è ben poco; c’è invece una merce svenduta sull’altare del profitto: i nostri dati personali, la nostra privacy e soprattutto la nostra libertà. Evgeny Morozov è oggi uno degli intellettuali di riferimento in merito al dibattito sugli effetti sociali e politici dello sviluppo della tecnologia. Giornalista, scrittore e accademico, ha pubblicato in Italia “L'ingenuità della rete” e “Contro Steve Jobs” (Codice edizioni) e “Internet non salverà il mondo” (Mondadori). SILICON VALLEY: I SIGNORI DEL SILICIO EVGENY MOROZOV Traduzione di Fabio Chiusi Evgeny Morozov Silicon Valley: i signori del silicio Progetto grafico: Limiteazero + Cristina Chiappini © 2016 Codice Edizioni ISBN 978-88-7578-607-6 Tutti i diritti sono riservati codiceedizioni.it facebook.com/in.codice twitter.com/codice_codice pinterest.com/codice_codice Editing 2017: nick2nick www.dasolo.co Indice Introduzione Perché odiare la Silicon Valley L’ascesa dei dati e la morte della politica Come cavie inconsapevoli Il prezzo dell’ipocrisia Disconnettersi e basta Making it Quanto volete per i vostri dati? Silicon Valley: i signori del silicio Introduzione La tesi di questo libro è semplice: parlare di tecnologia oggi significa appoggiare, spesso senza neanche accorgersene, alcuni degli aspetti peggiori dell’ideologia neoliberista. Non solo: non importa da che parte stiate, perché molte delle critiche alla Silicon Valley sono a loro volta allineate con posizioni neoliberiste. I critici della tecnologia, soprattutto in America, potranno quindi anche odiare Google e Amazon, ma ciò non significa che stiano dalla parte di chi combatte per liberarsi dall’avidità del capitalismo finanziario contemporaneo. La loro posizione è spesso conservatrice, anche se il bersaglio – perlopiù la Silicon Valley – è ugualmente odiato dalla sinistra. È possibile quindi una critica alla tecnologia che conduca a tale liberazione? Credo di sì, ma il primo passo per articolarla è capire dove stiamo sbagliando; se non otteniamo risultati ci sarà pure un motivo. C’è solo un modo per rendere la nostra critica davvero incisiva: affrontare non solo l’economia politica della Silicon Valley, ma anche il ruolo sempre più importante che i “signori del silicio” rivestono nell’architettura fluida e sempre cangiante del capitalismo globale contemporaneo. Il punto non è che le promesse della Silicon Valley siano false o fuorvianti – spesso lo sono –, ma che quelle promesse possono essere comprese solo se inquadrate in un contesto più ampio: la scomparsa dello Stato sociale, la sua sostituzione con alternative più snelle, rapide e cibernetiche, e poi il ruolo che la libera circolazione dei dati è destinata a ricoprire in un regime commerciale di completa deregulation. Di solito non ci poniamo questi problemi quando parliamo di Facebook, Google o Twitter. E invece dovremmo: proprio come la Silicon Valley ha un futuro solo all’interno del capitalismo contemporaneo, il capitalismo contemporaneo ha un futuro solo all’interno della Silicon Valley. Racconto di due svolte radicali Da ormai dieci anni siamo ostaggio di due tipi di svolte radicali, che ci sono state gentilmente offerte da Wall Street e dalla Silicon Valley. Insieme non fanno che riproporre la scena del poliziotto buono e di quello cattivo: mentre Wall Street predica scarsità e invoca austerità, la Silicon Valley celebra abbondanza e innovazione. Potrebbe sembrare che non c’entrino nulla l’una con l’altra, ma in realtà si alimentano a vicenda. Da una parte, la crisi finanziaria globale – e il conseguente salvataggio delle banche – ha fatto collassare ciò che rimaneva dello Stato sociale, dinamica che ha mutilato – talvolta fino a farlo sparire – il settore pubblico, l’unico baluardo contro lo sconfinamento dell’ideologia neoliberista e della sua inarrestabile volontà di creare mercati a partire da qualunque cosa. I pochi servizi pubblici sopravvissuti ai tagli sono diventati proibitivi a livello economico o sono stati costretti a sperimentare strategie di sopravvivenza nuove e talvolta populiste. L’esempio tipico è l’ascesa del crowdfunding, per mezzo del quale – invece di fare affidamento su generosi e incondizionati finanziamenti pubblici – le istituzioni culturali sono state costrette a raccogliere il denaro direttamente dai cittadini. Insomma, in assenza di alternative la scelta è stata tra il populismo del mercato – sia la massa a decidere! – e l’estinzione. Dall’altra parte, la seconda svolta è stata salutata come un cambiamento principalmente positivo. Tutto oggi è digitale e connesso – un fenomeno naturale, se stiamo a sentire i venture capitalists – e le istituzioni possono solo innovare o morire. Dopo aver cablato il mondo, la Silicon Valley ci assicura che la magia della tecnologia riempirà ogni angolo delle nostre vite. Secondo questa logica, opporsi all’innovazione tecnologica equivarrebbe a far fallire gli ideali dell’Illuminismo, con Larry Page e Mark Zuckerberg nei panni di novelli Diderot e Voltaire in versione nerd. E poi è successo qualcosa di strano: non si sa bene come, abbiamo finito per convincerci che queste due svolte, queste due presunte “rivoluzioni”, non avessero niente a che fare l’una con l’altra. Così l’entusiastico racconto del diffondersi dei MOOC (massive open online courses, “corsi gratuiti di massa online”) non si è soffermato granché sul crollo dei budget delle università, e ha preferito piuttosto descrivere la mania per quei corsi online come naturale conseguenza delle innovazioni apportate dalla Silicon Valley e da hacker diventati imprenditori per rivoluzionare l’istruzione universitaria, proprio come in precedenza avevano rivoluzionato la musica o il giornalismo. Allo stesso modo, la diffusione delle app per tracciare le proprie attività non è stata ricondotta alle sfide sferrate a sistemi sanitari già indeboliti da una popolazione che invecchia ed è flagellata dall’obesità e da un numero crescente di altri problemi di salute: è sembrato piuttosto che quei sistemi sanitari stessero semplicemente attraversando il loro “momento Napster”. Esempi di questo tipo abbondano: dalle istituzioni culturali che hanno abbracciato il crowdfunding, alla vigilanza predittiva dei dipartimenti di polizia. Così l’entusiastica narrazione della rivoluzione tecnologica ha rubato la scena a quella, dalle tinte ben più fosche, di una rivoluzione politica ed economica che ha ben poco a che vedere con la tecnologia. Ogni volta che queste due rivoluzioni si scontrano è utile sottolineare quanto siano legate l’una all’altra, anche solo per ricordare a noi stessi che il vangelo urlato dell’innovazione nasconde un sottofondo oscuro e ancora latente. E lo scontro è avvenuto di recente, al Teatreneu di Barcellona. Come molte altre realtà culturali spagnole, questo teatro si è trovato a fronteggiare un calo dell’affluenza dopo che il governo, al verde e alla disperata ricerca di entrate aggiuntive per tappare i buchi nel bilancio, ha

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