ebook img

Sette Anni Nel Tibet PDF

323 Pages·2016·2.25 MB·Italian
Save to my drive
Quick download
Download
Most books are stored in the elastic cloud where traffic is expensive. For this reason, we have a limit on daily download.

Preview Sette Anni Nel Tibet

Heinrich Harrer Sette Anni Nel Tibet Sieben Jahre in Tibet © 1997 Premessa Tutti i nostri sogni cominciano in gioventù... Da bambino le imprese degli eroi dei nostri giorni mi entusiasmavano molto di più delle materie scolastiche. Gli uomini che erano andati a esplorare nuove terre o che con fatica e abnegazione si erano preparati a diventare campioni di qualche sport, i conquistatori delle grandi vette: questi erano i miei modelli, e imitarli era lo scopo che mi prefiggevo. Mi mancavano però i suggerimenti e la guida di consiglieri esperti, così persi molti anni prima di rendermi conto che non si devono inseguire più obiettivi nello stesso momento. Tentai di praticare diversi sport senza raggiungere quel successo che mi avrebbe potuto appagare. Alla fine decisi di concentrarmi sui due che ho sempre amato per il loro stretto legame con la natura: lo sci e l'alpinismo. Trascorsi quasi tutta la mia infanzia sulle Alpi e occupai la maggior parte del mio tempo libero dalla scuola arrampicando d'estate e sciando d'inverno. La mia ambizione veniva stimolata da piccoli successi, e nel 1936, dopo duri allenamenti, riuscii a guadagnarmi un posto nella squadra olimpica austriaca. Un anno più tardi vinsi la gara di discesa ai campionati mondiali studenteschi. Nel corso di queste competizioni sperimentai l'ebbrezza della velocità e la stupenda soddisfazione di una vittoria, per ottenere la quale avevo dato tutto ciò che avevo dentro. Ma battere avversari umani ed essere apprezzato dal pubblico non mi appagavano. Cominciai a pensare che l'unico obiettivo stimolante fosse quello di misurarmi con le montagne. Così per molti mesi mi esercitai sulle pareti rocciose e sui ghiacciai, fino a sentirmi pronto, al punto che nessun precipizio mi sembrasse ormai insuperabile. Questo non vuol dire che io non abbia avuto le mie difficoltà da affrontare: ho dovuto pagare un tributo alla mia inesperienza. Una volta precipitai per più di cinquanta metri, e solo per miracolo non ci lasciai la pelle: naturalmente incidenti più lievi sono successi di continuo. Il ritorno alla vita universitaria era sempre per me un grande strazio. Ma Heinrich Harrer 1 1997 - Sette Anni Nel Tibet non avrei dovuto lamentarmi. Ebbi l'opportunità di studiare ogni sorta di opere sull'alpinismo e sui viaggi, e, non appena lessi questi libri, cominciai a concepire, via via sempre più distintamente e determinatamente, il desiderio di realizzare quello che rappresenta il sogno di tutti gli alpinisti: fare parte di una spedizione nell'Himalaia. Come osava un ragazzo sconosciuto, quale io ero, trastullarsi con sogni così pretenziosi? Perché, per riuscire a raggiungere l'Himalaia, o si era veramente ricchi o si apparteneva alla nazione i cui figli, in quel momento, ancora avevano la possibilità di essere mandati in servizio in India. Per uno che non fosse né britannico né facoltoso c'era una sola strada. Si doveva sfruttare una delle rare opportunità aperte anche agli outsider e fare qualcosa che rendesse impossibile trascurare le proprie richieste. Ma quale tipo di performance poteva permettermi di entrare a far parte di questo ristretto gruppo? Ogni vetta alpina era stata scalata molto tempo prima, anche i peggiori crinali e le più dure pareti rocciose avevano ceduto di fronte all'incredibile abilità e audacia degli alpinisti. Ma un attimo! C'era ancora un precipizio invitto, il più alto e il più pericoloso di tutti: la parete settentrionale dell'Eiger. Questi 2063 metri di roccia a picco non erano mai stati scalati fino in cima. Tutti i tentativi erano falliti, e molti uomini avevano perso la vita nel provarci. Un bel po' di leggende erano cresciute intorno a questa mostruosa parete montana, e alla fine il governo svizzero aveva proibito agli alpinisti di scalarla. Nessun dubbio che questa fosse l'avventura che andavo cercando. Se fossi riuscito ad aprirmi un varco attraverso le difese vergini della parete settentrionale dell'Eiger, avrei avuto il legittimo diritto, per come stavano le cose, di essere scelto per una spedizione nell'Himalaia. Meditai molto sull'idea di tentare questa impresa pressoché senza speranza. Come nel 1938, insieme con i miei amici Fritz Kasparek, Anderl Heckmaier e Wiggerl Vòrg, io sia riuscito a scalare la terribile parete è stato descritto in molti libri. Dopo questa avventura in autunno proseguii il mio allenamento, avendo sempre in testa la speranza di essere invitato a far parte della spedizione nel Nanga Parbat, programmata per l'estate del 1939. Sembrava però una speranza vana, visto che l'inverno era passato e non era successo niente. Altri erano stati selezionati per esplorare la fatale montagna nel Kashmir. A questo punto non mi rimaneva altro da fare che firmare, a malincuore, Heinrich Harrer 2 1997 - Sette Anni Nel Tibet un contratto per prendere parte a un film sullo sci. Le riprese erano quasi terminate quando ricevetti una telefonata inaspettata. Era il tanto desiderato invito a far parte della spedizione nell'Himalaia, che sarebbe dovuta partire entro quattro giorni. Non ebbi bisogno di rifletterci. Stracciai il contratto senza un istante di esitazione, tornai a casa, a Graz, trascorsi una giornata a preparare la mia roba e il giorno dopo ero in viaggio verso Anversa, passando per Monaco, con Peter Aufschnaiter, il leader della spedizione tedesca nel Nanga Parbat, Lutz Chicken e Hans Lobenhoffer, gli altri membri del gruppo. Fino a quel momento c'erano stati quattro tentativi di scalare quella montagna di 8125 metri, tutti falliti. Erano costati molte vite umane, così si era deciso di cercare una nuova via per salire. Questo sarebbe stato il nostro compito, mentre la scalata vera e propria era prevista per l'anno successivo. Nel corso della spedizione nel Nanga Parbat cedetti alla magia dell'Himalaia. La bellezza mozzafiato di queste gigantesche montagne, l'immensità di terre che dominano dall'alto, la singolarità della popolazione dell'India: tutto ciò creò come un incantesimo nella mia mente. Da allora sono passati molti anni, ma in tutto questo tempo non sono mai stato capace di tagliare per sempre con l'Asia. Come tutto ciò sia successo, e a che cosa abbia portato, è quello che tenterò di raccontare in questo libro, e siccome non ho alcuna esperienza come scrittore, mi limiterò a esporre i fatti. Campo di prigionia e tentativi di evasione Alla fine di agosto del 1939 ebbe termine il nostro viaggio di ricognizione. Avevamo davvero trovato una nuova via per dare la scalata a quella cima, e stavamo aspettando a Karachi l'arrivo del piroscafo che doveva riportarci in Europa. La nave era in ritardo, e le nubi della seconda guerra mondiale si addensavano sempre più minacciose. Chicken, Lobenhoffer e io decidemmo allora di sottrarci comunque alla rete che la polizia segreta già cominciava a tenderci. A Karachi rimase soltanto Peter Aufschnaiter, che aveva preso parte al primo conflitto mondiale e si rifiutava di credere allo scoppio di un secondo. Avevamo intenzione di attraversare l'Iran, per poi raggiungere di lì la Heinrich Harrer 3 1997 - Sette Anni Nel Tibet nostra patria. Senza difficoltà riuscimmo a liberarci dei nostri «osservatori», e con una macchina sgangherata, dopo alcune centinaia di chilometri di deserto, raggiungemmo Las Bela, un piccolo principato a nordovest di Karachi. Ma là ci attendeva una brutta sorpresa: all'improvviso ci trovammo sorvegliati da otto soldati, con il pretesto che avevamo bisogno di protezione personale. Praticamente eravamo stati arrestati, nonostante la Germania e il Commonwealth britannico non fossero ancora in guerra. Accompagnati da questa scorta, tornammo ben presto a Karachi, dove rivedemmo il nostro Peter Aufschnaiter. Due giorni dopo l'Inghilterra dichiarò guerra alla Germania. Da allora tutto filò liscio come l'olio: non erano passati cinque minuti, che venticinque soldati indiani, armati fino ai denti, fecero la loro comparsa nel giardino del caffè dove eravamo seduti per prelevarci. Un furgone della polizia ci portò in un campo di prigionia circondato da filo spinato, già predisposto. Si trattava però di un semplice «campo di transito», perché dopo soli quindici giorni fummo portati nel grande campo di prigionia di Ahmadnagar, nei pressi di Bombay. Eccoci dunque ammassati sotto le tende e in baracche, fra le continue e agitate discussioni degli altri «ospiti». No, questo mondo differiva troppo da quello delle chiare, solitarie vette dell'Himalaia. Decisamente non era l'ambiente adatto a un uomo amante della libertà. Cercai quindi subito di darmi da fare, per preparare la via e l'occasione a un tentativo di fuga. Non ero, naturalmente, il solo a rimuginare simili propositi. Con l'aiuto di compagni anche loro intenzionati a evadere, furono messi insieme bussole, soldi e carte topografiche sfuggiti al controllo. Trovammo perfino il modo di sgraffignare alcuni guanti di pelle e una cesoia per tagliare il filo spinato. La sparizione di quest'ultima dal magazzino degli inglesi provocò una severa inchiesta, conclusasi però senza risultato. Convinti tutti della fine ormai prossima della guerra, continuavamo a rimandare l'esecuzione dei nostri piani, quando un giorno, all'improvviso, fummo trasportati in un nuovo campo. Un lungo convoglio di automezzi ci doveva scortare fino a Deolali. In ogni camion diciotto prigionieri con un solo soldato indiano di guardia, il cui fucile era assicurato al cinturone da una catena, affinché nessuno glielo potesse strappare. In testa, al centro e alla fine della colonna, molti autocarri erano occupati da sentinelle armate. Mentre eravamo ancora ad Ahmadnagar, Lobenhoffer e io avevamo già stabilito di fuggire, prima di essere trasferiti in un altro campo, dove Heinrich Harrer 4 1997 - Sette Anni Nel Tibet sarebbero potute sorgere nuove difficoltà per realizzare i nostri piani. Prendemmo quindi posto all'estremità dell'autocarro. Ci arrise la fortuna, perché la strada era piena di curve e spesse nuvole di polvere di tanto in tanto ci avviluppavano completamente. Questa circostanza ci doveva offrire l'occasione di saltare a terra inosservati e di scomparire nella giungla. Che la nostra guardia ci potesse pizzicare era improbabile, se non altro per il fatto che il suo compito principale pareva essere quello di sorvegliare il camion che ci precedeva. Ed ecco finalmente il grande momento. Saltammo giù, e io mi ero già nascosto in un cespuglio a una ventina di metri dalla strada, quando, con mio grande spavento, tutta la carovana si fermò. Fischi acuti, un vocio confuso e l'agitato correre delle guardie non lasciavano dubbi su quanto era accaduto. Lobenhoffer doveva essere stato scoperto, e poiché era lui che portava il sacco da montagna con tutto l'equipaggiamento, non mi rimase altro da fare che rinunciare al mio tentativo di fuga. Approfittando della confusione generale rioccupai il mio posto sull'autocarro, senza attirare l'attenzione dei soldati. Soltanto i miei compagni sapevano, ma loro naturalmente tacquero. Vidi allora anche Lobenhoffer: con le mani alzate davanti a una selva di baionette. Ero sconvolto: troppo grande era stata la delusione. Il mio povero amico non aveva alcuna colpa dell'accaduto. Per saltare giù dal camion più facilmente aveva tenuto in mano il sacco da montagna, il cui contenuto sobbalzando aveva fatto rumore. La nostra guardia se ne era accorta, e Lobenhoffer era stato ricatturato prima ancora di poter raggiungere la giungla protettrice. Imparammo da questa avventura una lezione amara, ma utile: in qualsiasi tentativo di evasione ognuno dei fuggitivi deve portare con sé un equipaggiamento completo. Nello stesso anno fummo trasferiti nuovamente. La ferrovia ci portò ai piedi dell'Himalaia, nel più grande campo di prigionia dell'India, a pochi chilometri da Dehra Dun. Un po' più in alto della città si trovava il soggiorno montano di Mussoorie, luogo di villeggiatura estiva degli inglesi e degli indiani benestanti. Il nostro campo era formato da sette grandi complessi, ciascuno circondato da un doppio recinto di filo spinato. Intorno vi erano altri due reticolati, e nel corridoio intermedio passavano sempre di guardia le sentinelle. Questa era per noi una situazione del tutto nuova. Finché eravamo rimasti segregati nei campi della pianura indiana, i nostri piani di evasione Heinrich Harrer 5 1997 - Sette Anni Nel Tibet avevano sempre avuto lo scopo di raggiungere una delle colonie portoghesi neutrali. Ma qui, qui avevamo davanti a noi niente meno che l'Himalaia. Che attrazione, per un alpinista, il pensiero di giungere attraverso i suoi passi fino al Tibet, che gli stava dietro le spalle! Quale meta finale pensavamo poi al confine giapponese, alla Birmania o alla Cina. Una simile evasione doveva però essere preparata con grande meticolosità. A quel tempo erano svanite anche le nostre speranze di una rapida fine della guerra, perciò mi dedicai sistematicamente a organizzare la nuova avventura. Una via di fuga attraverso l'India, densamente popolata, non si poteva prendere in considerazione, se non altro per il fatto che sarebbero stati assolutamente indispensabili molto denaro e la perfetta conoscenza della lingua inglese. Era quindi naturale che mi decidessi per lo spopolato Tibet e per l'Himalaia. Anche nel caso in cui il mio piano non fosse riuscito interamente, il rischio sarebbe stato compensato da un breve periodo di libertà fra i monti. Per prima cosa imparai un po' di indostano, di tibetano e di giapponese, per potermi far capire dagli indigeni. Poi divorai tutti i libri di viaggi che potei scovare nella biblioteca del campo e che trattavano dell'Asia, soprattutto delle regioni che probabilmente avrei dovuto attraversare. Ne trascrissi alcune parti e copiai le carte geografiche più importanti. Peter Aufschnaiter, anch'egli approdato a Dehra Dun, possedeva ancora il diario e le mappe del Nanga Parbat. Peter si dedicò con grande zelo a elaborare la spedizione, e con vivo senso di altruismo mi offrì tutti i suoi schizzi. Da parte mia, feci due copie di ognuno, una per la fuga e l'altra di riserva nel caso che l'originale fosse andato perduto. Altrettanto importante era però, dato il tipo di evasione progettata, mantenermi fisicamente il più allenato possibile. Dedicai perciò, quotidianamente, molte ore allo sport. Indifferente se il tempo fosse buono o cattivo, assolsi puntualmente il compito che mi ero imposto. E non poche notti rimasi sveglio per spiare e studiare le abitudini delle guardie. Mi preoccupava soprattutto un'altra difficoltà assai grave: avevo troppo poco denaro. Benché avessi già venduto tutto ciò che non mi era strettamente indispensabile, i soldi ricavati erano senz'altro insufficienti anche per le più modeste esigenze della vita nel Tibet, a prescindere del tutto dal denaro occorrente per la corruzione e i regali, che in Asia sono di rigore. Ciò nonostante continuavo a lavorare di buona lena e con metodo, e parecchi compagni che non progettavano una fuga mi furono di grande Heinrich Harrer 6 1997 - Sette Anni Nel Tibet aiuto nei preparativi. Nei primi tempi del mio internamento non avevo firmato alcuna dichiarazione di impegno concernente le licenze dal campo, per non sentirmi vincolato dalla mia parola d'onore nel caso si fosse presentata all'improvviso una buona occasione di evadere. Qui a Dehra Dun però lo feci, in quanto le «gite» si limitavano comunque alle immediate vicinanze del campo. In un primo tempo avevo progettato di fuggire da solo, per non essere obbligato a una solidarietà che avrebbe forse potuto pregiudicare le mie chance. Ma un giorno il mio amico Rolf Magener mi raccontò che un generale italiano aveva la mia stessa intenzione. Il suo nome non mi era sconosciuto, perciò Magener e io, una notte, scivolammo attraverso i reticolati fino alla sezione vicina, dove erano sistemati quaranta generali italiani. Il mio futuro compagno di fuga si chiamava Marchese ed era il tipico italiano. Aveva poco più di quarant'anni, figura slanciata, maniere affabili, ed era vestito, in base ai nostri parametri, in modo elegante. Ma fu soprattutto la sua costituzione fisica a farmi un'impressione favorevole. Ci si intendeva per il momento piuttosto maluccio. Lui non parlava tedesco, io non conoscevo l'italiano ed entrambi avevamo assai scarse conoscenze dell'inglese. Con l'aiuto di un amico le nostre conversazioni si svolgevano in un francese piuttosto incerto. Marchese mi raccontò della guerra in Abissinia e di un suo antecedente tentativo di evasione da un campo di prigionia. Per fortuna la questione del denaro non rappresentava per lui, che riceveva lo stipendio di un generale inglese, un problema. Aveva inoltre la possibilità di procurare per la nostra fuga oggetti che io non sarei mai stato in grado di ottenere. Ciò di cui invece aveva bisogno lui era un compagno che conoscesse l'Himalaia. Ci accordammo quindi in breve tempo, convenendo che io mi sarei addossato l'intera responsabilità del piano di evasione, mentre egli avrebbe provveduto al denaro e all'equipaggiamento. Parecchie volte sgattaiolai attraverso i reticolati per discutere con Marchese i singoli particolari, divenendo in questo modo un vero specialista nel superare gli ostacoli di filo spinato. Varie erano le possibilità di fuga, ma un sistema mi sembrava per il nostro caso il più indicato e promettente. I due recinti paralleli che circondavano il campo erano collegati, ogni ottanta metri, da un tetto di paglia a forma di cono che serviva alle sentinelle per proteggersi dal caldo sole indiano. Se Heinrich Harrer 7 1997 - Sette Anni Nel Tibet avessimo potuto scalare uno di questi tetti, avremmo superato di colpo entrambi i reticolati. Nel maggio 1943 tutti i nostri preparativi erano terminati. Denaro, provviste, bussole, orologi, scarpe e una piccola tenda facevano ormai parte del nostro equipaggiamento. Una notte, finalmente, decidemmo di osare. Sgusciai, come già tante altre volte, attraverso i recinti di filo spinato per raggiungere la sezione dove stava Marchese. Là era pronta una scala che avevamo fatto sparire durante un piccolo incendio scoppiato di recente nel campo. La appoggiammo al muro di una baracca e attendemmo nell'ombra. Era quasi mezzanotte, e dopo dieci minuti ci sarebbe stato il cambio della guardia. Lentamente, ma impazienti, le sentinelle camminavano su e giù. Passarono parecchi minuti prima che giungessero al punto da noi prescelto. In quel momento sorse la luna, che illuminò le piantagioni di tè. Le grandi lampade elettriche gettavano la loro breve, duplice ombra. Ora o mai più! Entrambe le sentinelle avevano raggiunto la massima distanza possibile da noi, quando mi raddrizzai e, afferrata la scala, mi lanciai verso il filo spinato. Dopo averla appoggiata sulla parte superiore del reticolato, vi salii e tagliai i fili destinati a impedire la scalata del tetto di paglia. Marchese, armato di una lunga pertica biforcuta, teneva aperta la breccia, per permettermi di arrivare sul tetto. Era stato convenuto che Marchese mi avrebbe seguito subito, mentre io con le due mani avrei dovuto tenere aperto il passaggio per lui. Ma egli non veniva: rimase indeciso per alcuni spaventosi secondi, ritenendo che per lui fosse ormai troppo tardi... e le sentinelle stavano avvicinandosi. Udivo già i loro passi. Allora non gli lasciai più il tempo di riflettere, e afferratolo sotto le ascelle lo issai con uno strattone sul tetto. Strisciando ci portammo dalla parte opposta e con un grande salto piombammo nella libertà. Tutto ciò non si era svolto molto silenziosamente, e le sentinelle si allarmarono. Ma mentre le loro prime fucilate tagliavano l'aria notturna, la fitta giungla ci aveva già inghiottiti. La prima cosa che fece Marchese fu abbracciarmi e baciarmi furiosamente, ma non era quello il momento per le effusioni di gioia. Razzi traccianti si innalzarono verso il cielo, e vicini segnali di fischietto svelarono che eravamo già inseguiti. Conoscendo bene la giungla intorno al campo, per averla studiata con cura durante le mie gite esplorative, ci Heinrich Harrer 8 1997 - Sette Anni Nel Tibet mettemmo a correre a perdifiato. Di rado ci servimmo delle strade, e aggirammo con estrema cautela i pochi villaggi che incontrammo lungo la via. Da principio i nostri sacchi da montagna non ci diedero fastidio, ma presto cominciarono a pesarci. In uno dei villaggi udimmo il rullo dei tamburi degli indigeni, e la nostra fantasia ci fece subito pensare a un allarme. Ed ecco una nuova difficoltà che in paesi abitati da bianchi non si può neppure immaginare. In Asia il sahib viaggia sempre accompagnato da servi e non porta mai neppure il più piccolo bagaglio. Come dovevamo dare nell'occhio noi due europei che attraversavamo a piedi la regione, carichi come muli! Marciare di notte, nascondersi di giorno Decidemmo dunque di camminare di notte, perché gli indù hanno paura di avventurarsi nella giungla quando fa buio, a causa delle bestie feroci. Molto tranquilli non lo eravamo neppure noi, perché sui giornali avevamo letto spesso di tigri e di pantere che assalivano gli uomini e li divoravano. Alle prime luci dell'alba ci nascondemmo esausti in un avvallamento del terreno, dove ci fermammo tutto il giorno. Fra dormire e mangiare trascorse un'interminabile giornata sotto un sole rovente. Non vedemmo anima viva, se non in lontananza un pastore che per fortuna non si accorse della nostra presenza. Il peggio era che ciascuno di noi possedeva soltanto una bottiglia d'acqua che doveva bastare per un giorno intero. Nessuna meraviglia quindi se la sera, spossati dallo stare seduti e sempre vigili, non riuscivamo quasi più a controllare le nostre reazioni nervose. Volevamo procedere con la maggior rapidità possibile, e le notti ci sembravano troppo corte. Dovevamo trovare la strada più breve che attraverso l'Himalaia ci portasse nel Tibet, e questo ci sarebbe costato in ogni caso settimane di faticose marce, prima di poterci sentire al sicuro. Comunque, già la sera dopo la nostra fuga superammo il primo crinale, in cima al quale ci fermammo per una breve sosta. Mille metri sotto di noi brillavano le innumerevoli luci del campo di prigionia. Alle dieci si spensero di colpo, e soltanto i riflettori intorno al campo davano ancora un'idea della sua estensione. Era la prima volta nella mia vita che sentivo veramente che cosa volesse dire essere libero. Godemmo di questa meravigliosa sensazione, pur Heinrich Harrer 9 1997 - Sette Anni Nel Tibet pensando con dolore ai duemila prigionieri che dovevano continuare a vivere dietro i reticolati. Ma neppure qui avevamo il tempo di abbandonarci ai nostri pensieri. Dovevamo far presto e scendere nella vallata dello Jamuna, che ci era completamente sconosciuta. In una delle sue valli laterali, giunti a una stretta gola, non potemmo infatti proseguire e fummo costretti ad attendere il mattino. Il luogo era così deserto che ne approfittai per tingere di nero la mia barba e i miei capelli biondi. Mescolando del permanganato di potassio con un po' di colore marrone e di grasso conferii anche alle mie mani e alla mia faccia una tinta scura che mi faceva assomigliare in certo qual modo a un indù. Ciò era molto importante, perché se fossimo stati scoperti ci saremmo potuti far passare per pellegrini diretti al sacro Gange. Il mio compagno era già di natura abbastanza scuro da non dare nell'occhio, almeno a distanza. Non dovevamo naturalmente permettere che ci scrutassero più a fondo. Questa volta ci rimettemmo in cammino prima ancora che fosse scesa la sera. Presto fummo però costretti a rammaricarci della nostra decisione, perché d'un tratto ci trovammo davanti a dei contadini che piantavano riso. Mezzi nudi, stavano nell'acqua fangosa fino alle ginocchia e guardavano sbalorditi i due uomini carichi di roba. Con la mano ci indicarono un villaggio appollaiato sull'altura: evidentemente l'unica via di uscita dalla gola. Per evitare domande imbarazzanti continuammo quanto più rapidamente possibile il cammino nella direzione indicata. Dopo ore di salite e discese raggiungemmo finalmente il fiume Jamuna. Frattanto era scesa la notte. Il nostro piano prevedeva di costeggiare lo Jamuna fino al suo affluente Aglar e lungo questo di raggiungere lo spartiacque. Da lì non poteva essere lontano il Gange, che doveva condurci alla grande catena dell'Himalaia. Fino a quel momento avevamo camminato perlopiù a caso: solo di rado, lungo i corsi d'acqua, ci eravamo potuti servire di sentieri battuti da pescatori. Quella mattina Marchese era molto stanco. Gli preparai dei fiocchi di avena con acqua e zucchero, e dietro reiterate mie insistenze ne mangiò un po'. La regione purtroppo era quanto mai inadatta per un bivacco: vi brulicavano enormi formiche che morsicavano in profondità la carne. E poiché, malgrado la grande stanchezza, non riuscivamo a dormire, le ore non passavano mai. Verso sera mi sembrò che il mio compagno si fosse ripreso, e sperai che le sue condizioni fisiche fossero migliorate. Anch'egli era fiducioso di Heinrich Harrer 10 1997 - Sette Anni Nel Tibet

See more

The list of books you might like

Most books are stored in the elastic cloud where traffic is expensive. For this reason, we have a limit on daily download.