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Sei lezioni di economia Conoscenze necessarie per capire la crisi più lunga (e come uscirne) PDF

163 Pages·2016·1.377 MB·Italian
by  CesarattoS.
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Preview Sei lezioni di economia Conoscenze necessarie per capire la crisi più lunga (e come uscirne)

LDB Sergio Cesaratto Sei lezioni di economia Conoscenze necessarie per capire la crisi più lunga (e come uscirne) Imprimatur © 2016 Imprimatur srl Tutti i diritti riservati Promozione e distribuzione Rizzoli Libri Sede legale e operativa: Via Emilia all’Angelo, 7 - 42124 Reggio Emilia Tel./fax 0522 232222 Edizione digitale: settembre 2016 ISBN: 9788868305079 Versione digitale realizzata da StreetLib Srl Introduzione Se non del tutto giusto quasi niente sbagliato L’ : ECONOMIA RIGORE E POLITICA L’intento di queste lezioni risponde alla semplice domanda: “che cosa dovrebbe conoscere di economia una persona, cittadina impegnata, che ami prendere un libro in mano?” Le lezioni si rivolgono, naturalmente, anche agli studenti di economia e di altre discipline che si sentono tediati dall’insegnamento convenzionale o che sono semplicemente curiosi. E certamente a molti giornalisti e a tutti quelli che la sanno lunga di politica, ma poi si schermiscono dicendo, “sa, io l’economia non l’ho mai capita”. Ma si rivolge, soprattutto, a quelle migliaia di giovani e meno giovani che in questi anni duri si sono rimboccati le maniche per cercare di rompere la montagna di bugie che ci ha sommerso, “è l’Europa a chiedercelo” in primis. Fra loro vorrei convincere gli amici carissimi della Modern Monetary Theory (MMT) che l’economia eterodossa è qualcosa di molto più ampio, ed a cui noi italiani possiamo guardare con un certo orgoglio. L’economia non ha in realtà enormi barriere all’ingresso, e il latinorum matematico di cui spesso si ammanta ha precisamente il ruolo di intimidire le persone, facendole sentire insufficienti e tenendole lontane da verità (o bugie) che sono in fondo semplici da capire. Cultura e contro-informazione sono fastidiose per il potere. Meglio dare ai cittadini l’impressione che certe affermazioni che ascoltiamo dai politici abbiano fondamenti in misteri inconoscibili al volgo, amministrati da quei moderni stregoni o sacerdoti chiamati economisti. Vedremo invece come, per esempio, tutta l’analisi economica dominante consista di un nucleo non troppo difficile da comprendere, le cui basi furono gettate alla fine del secolo XIX e che si sono trasmesse immutate ai nostro giorni. Due valorosi economisti, Aldo Barba e Giancarlo De Vivo, hanno paragonato l’economista convenzionale al pesce rosso che, secondo alcuni studi, vive felice nella sua boccia in quanto la sua memoria dura pochi secondi e ad ogni giro, oplà, un colpo di pinna e si parte a scoprire un mondo nuovo. Non so se questo sia vero per il simpatico animaletto, ma lo è certamente per il serioso economista che ci propina ricette vecchie di un secolo e mezzo, presentandole come la frontiera della scienza. Non vi sembri però paradossale che quello che vi proporrò in alternativa abbia delle ascendenze intellettuali ancora più antiche, nel pensiero degli “economisti classici” a cavallo fra il XVIII e XIX secolo. All’epoca di questi economisti, i dibattiti economici consistevano di ragionamenti e dispute che si svolgevano fra le persone interessate alla politica e alla cultura. Marx aveva una grandissima opinione di costoro, ed egli stesso ritenne primaria, per evidenti motivi, l’attività di divulgazione della scienza economica presso le classi popolari. Non v’è dubbio, naturalmente, che vi siano nell’analisi economica, di qualsiasi orientamento, aspetti complessi che richiedono talvolta metodi matematici più o meno sofisticati. Ma è altresì vero che ogni persona mediamente informata e usa a qualche buona lettura può, indipendentemente dal grado e soggetto dei propri studi, impadronirsi del nucleo delle analisi economiche, anzi dovrebbe essere invitata a farlo come cittadina consapevole. Di che si discute in politica, dopotutto? Di “cuore e denari”, come nella simpatica trasmissione mattutina di Radio 24, o più precisamente di economia e di diritti civili. Ora l’Europa ci lascia discutere solo dei secondi. Ragione di più per occuparci della prima. Economia e politica, dunque. Professore, ma se l’economia è una chiave per la politica (e viceversa), essa è o no da considerarsi una scienza? Bella domanda. Alfred Marshall (1842-1924), uno dei fondatori della teoria dominante, introdusse la strana creatura dell’impresa rappresentativa, temo che lei quale lettore rappresentativo mi farà molte domande nel corso di queste lezioni. Distinguiamo due aspetti della questione che pone. In primo luogo, molti fenomeni economici hanno una manifestazione quantitativa. Parliamo dunque di prezzi, quantità prodotte, redditi, investimenti, risparmi e quant’altro. Questa manifestazione numerica invita non solo alla quantificazione statistica dei fenomeni, ma anche alla rappresentazione delle loro interazioni attraverso modelli logico-matematici più o meno complessi. I torni devono contare, come dice un mio vecchio amico. Non v’è dubbio che questo dia all’economia un certo rigore analitico, un’abitudine alla consequenzialità nel ragionamento. Tante volte, conversando, qualcuno mi ha detto: si sente che lei è un economista. Questo mi piace dell’economia: rigore nel ragionamento e politica. Ma certamente la matematica non è tutto in economia (anzi!) e il vero piacere di questa disciplina è soprattutto nel ragionamento verbale stringente. Il famoso suggerimento che ci proviene da Marshall è di utilizzare la matematica come notazione abbreviata e come strumento di controllo del ragionamento, ma non come strumento di ricerca fine a se stesso; di tradurre in inglese (a parole insomma) i risultati dell’indagine, verificandone, infine, il riscontro con i fatti reali. Marshall aveva infatti a cuore la penetrazione culturale della teoria dominante, e che questa fosse dunque comprensibile e legata alla realtà. Il suo suggerimento metodologico è comunque condivisibile. In secondo luogo, le relazioni quantitative studiate in economia non sono mere interazioni fra numeri, ma sono da ultimo manifestazioni della relazione fra individui, gruppi sociali, istituzioni, e della evoluzione storica di queste relazioni. Il prezzo è una relazione fra un produttore e un consumatore; il salario esprime una relazione fra imprenditori e lavoratori; la bilancia dei pagamenti esprime una relazione fra Paesi e così via. La scelta se l’analisi debba partire dall’individuo o da aggregati sociali, e da quali gruppi sociali, dipende dalla teoria che adottiamo. L’abbici della filosofia della scienza che ci ammonisce sul fatto che noi interpretiamo la realtà attraverso le lenti di una teoria, anche quando non ce ne accorgiamo. La teoria propria agli economisti classici e a Marx li portava a parlare di classi sociali, cioè a raggruppare gli individui sulla base dei rapporti di proprietà: la classe dei proprietari terrieri che possedeva la terra, i capitalisti proprietari dei mezzi di produzione, i lavoratori possessori solo della propria forza lavoro. L’economia “moderna” muove dal singolo soggetto o magari da gruppi sociali definiti sulla base dell’impiego dei redditi (come consumatori e risparmiatori), anche se non può poi fare a meno di riferirsi alle classi sociali intese nel senso dei Classici, raggruppando gli individui sulla base del reddito percepito (per esempio lavoratori salariati e capitalisti percettori dei profitti). Una volta introdotta la distribuzione del reddito fra le classi sociali, l’economia si fa politica, e in politica, riprendendo una semplificazione precedente, si discute di due cose: di come suddividersi la torta che si è prodotta (e magari come farla crescere) e di diritti civili. La teoria attualmente dominante cerca in verità di espungere il tema politico dall’economia parlando di distribuzione naturale del reddito, intendendo con questo che vi sono delle leggi economiche che indicano con precisione quale fetta della torta debba andare ai lavoratori e quale ai capitalisti (e classi affini). C’è una suddivisione “naturale” della torta: a ciascuno il suo, fine della storia. La politica finirebbe in tal modo a doversi occupare di soli diritti civili. L’esempio nostrano sono i radicali italiani, secondo i quali l’economia dovrebbe essere lasciata alle leggi di mercato senza interferenze, mentre “l’iniziativa radicale” della prima pagina del buon Massimo Bordin è tutta e solo volta alle battaglie sui diritti individuali. Invero, anche altre forze politiche hanno talvolta utilizzato il tema delle battaglie civili per nascondere l’incapacità o l’impotenza ad agire sul terreno economico, in particolare da quando il nostro Paese ha perso la sovranità democratica sulle scelte di politica economica con l’ingresso nell’euro. Ma non anticipiamo troppo. Riassumendo, le relazioni sociali e le scelte politiche si manifestano (spesso) in economia attraverso relazioni quantitative di natura logico-matematica. Se da un lato questo rende il discorso economico più preciso, dall’altro non deve farci dimenticare il legame profondo fra economia, storia e politica di cui quelle relazioni sono manifestazioni. L’ingresso della politica nell’economia la rende meno scientifica? Per David Ricardo (1772-1823), il più raffinato degli economisti classici, e per il suo “allievo” Marx (1818-1883) no. Anzi, per Ricardo oggetto dell’indagine economica sono proprio le leggi che governano la distribuzione. Ricardo esemplifica bene quello che vogliamo dire: fra salari e profitti v’è una relazione inversa (se cresce l’uno, diminuisce l’altro) esprimibile matematicamente. Questa funzione inversa rappresenta una relazione sociale fra lavoro e capitale. Su quale punto “della curva” ci si collocherà – cioè quale sarà la distribuzione effettiva del reddito – dipenderà dai rapporti di forza fra i due gruppi sociali, lavoratori e capitalisti. Personalmente trovo intrigante questo mix di logica e politica che si ritrova in economia, in particolare in quella classica. Nella teoria dominante è infatti un po’ l’opposto, la politica si deve adeguare al laissez-faire, è l’economia che detta alla politica: è il mercato, bellezza! Certo, professore, che parlare di ricerca scientifica in economia è complicato, con tutti gli interessi in gioco! Sì, infatti Marx non aveva dubbi al riguardo, e vale la pena citare un suo famoso passo dell’introduzione al Capitale: Nel campo dell’economia politica la libera ricerca scientifica non incontra soltanto gli stessi nemici che incontra in tutti gli altri campi. La natura peculiare del materiale che tratta chiama a battaglia contro di essa le passioni più ardenti, più meschine e più odiose del cuore umano, le Furie dell’interesse privato [corsivo nell’originale]. Vale a dire, specifici interessi materiali condizionano la “libera ricerca”. E come poteva non essere così visto che il suo oggetto principale è precisamente il conflitto fra interessi materiali? Marx ha le idee molto chiare su quando l’economia politica smette di essere scienza. Questo accade dopo la morte di Ricardo nel 1823. Quest’ultimo aveva dato espressione sul terreno logico-matematico alla relazione conflittuale fra borghesia capitalista e aristocrazia terriera in Inghilterra. Quest’ultima era interessata ai dazi sul grano importato, sì da rendere più competitive le proprie colture da cui estraeva la rendita fondiaria. La mancata importazione di cereali a più buon mercato ne avrebbe, tuttavia, accresciuto il prezzo all’interno del Paese, in particolare per i lavoratori, la cui sussistenza consisteva innanzitutto di cereali (impiegati, per esempio, per produrre pane e birra). Questo avrebbe imposto ai capitalisti del settore manifatturiero di pagare salari più alti a discapito dei profitti. Ricardo, che era anche parlamentare, parteggiava per i capitalisti e non per gli agrari, ritenendo che dai profitti dipendesse l’accumulazione del capitale, vale a dire gli investimenti che avrebbero fatto progredire l’economia. Si apra dunque alle importazioni di grano, sostiene Ricardo. I rentier ne soffriranno, ma profitti e accumulazione se ne gioveranno. Racconta Marx che, tuttavia, una volta conquistato il potere politico, la borghesia ripudiò l’impostazione ricardiana, e pour cause. Qualcuno aveva cominciato infatti ad accorgersi che se non v’era una distribuzione naturale del reddito fra rendite (aristocrazia terriera) e profitti (capitalisti), tale principio si applicava anche alla distribuzione fra salari (lavoratori) e profitti (capitalisti). Era una questione di rapporti di forza, fra industriali ed agrari in Parlamento nel primo caso; fra industriali e lavoratori nel mercato del lavoro nel secondo. Il termine “sfruttamento” cominciò a fare capolino ben prima di Marx, tanto che qualche anno dopo la morte di Ricardo un economista americano, Henry Carey (1793-1879), definì quella ricardiana come la teoria della disarmonia fra le classi sociali. Per ragioni identiche, Richard Scrope (1797-1876), un altro economista americano, nel 1831 definì la diffusione della teoria ricardiana un “crimine”. E così Marx conclude: La borghesia aveva conseguito il potere politico in Francia e in Inghilterra. Da quel momento la lotta fra le classi raggiunse, tanto in pratica che in teoria, forme via via più pronunciate e minacciose. Per la scienza economica borghese quella lotta suonò la campana a morto. Ora non si trattava più di vedere se questo o quel teorema era vero o no, ma se era utile o dannoso, comodo o scomodo al capitale, se era accetto o meno alla polizia. Ai ricercatori disinteressati subentrarono pugilatori a pagamento, all’indagine scientifica spregiudicata subentrarono la cattiva coscienza e la malvagia intenzione dell’apologetica. Ma basta questo a criticare l’economia dominante? No, evidentemente. Infatti, la medesima accusa di piegare la ricerca scientifica ai pregiudizi ideologici o agli interessi di parte può facilmente essere ritorta a chi si muova in maniera critica dell’economia dominante. Si deve dunque lavorare duro per dimostrare che la teoria dominante presenta delle serie incongruenze analitiche. La “teoria dominante” che Marx aveva di fronte era in realtà un guazzabuglio di teorie post-ricardiane che egli definì “volgari”. Solo verso la fine del secolo XIX, infatti, gli economisti borghesi vennero a capo di una nuova e più coerente teoria. Per attribuirgli quarti di nobiltà, essa fu definita neo-classica, ma coi Classici aveva poco a che vedere e, per le ragioni che diremo, sarebbe meglio definirla teoria marginalista. Ma Marx non fece in tempo ad avvedersi di questa teoria, la forma compiuta dell’economia volgare. L’italiano Vilfredo Pareto (1848-1923) fu fra i padri fondatori del marginalismo. Quest’ultima teoria incontrò due grandi sfide nel corso del XX secolo. La prima fu la “rivoluzione keynesiana” avviata dalla Teoria generale dell’occupazione, interesse e moneta che John Maynard Keynes (1883-1946) pubblicò nel 1936. La seconda fu portata dal grande economista italiano, Piero Sraffa (1898-1983), che negli anni Sessanta fece tremare le fondamenta analitiche dell’edificio marginalista. È alle analisi di questi due economisti che, soprattutto, ci rifaremo per vedere cosa c’è di analiticamente sbagliato nella teoria dominante. C ? HI C’È OGGI ALLA PRIMA ORA Per le prime due o tre lezioni ho deciso di seguire un filo storico. Mostrare cioè come la teoria dominante nasca sul finire del XIX secolo come reazione alla teoria di Ricardo e Marx. Si noti che in questo contesto Marx compare come l’allievo di Ricardo: il nucleo della teoria economica di Marx era il medesimo di Ricardo, dunque del più rigoroso economista borghese sino a quel tempo, e perciò nucleo ben più pericoloso. Marx poteva ben dire di non aver inventato nulla sulla base di un pregiudizio anti- borghese, era già tutto in Ricardo! Naturalmente Marx contestualizza storicamente la teoria di Ricardo, non ritenendo le leggi di funzionamento della società borghese come eterne e immutabili. Ma ciò detto, la teoria economica di Marx è quella di Ricardo. Dopo aver dunque raccontato nella prima lezione l’impostazione degli economisti classici e di Marx, nella seconda esporremo la teoria dominante mostrandone le implicazioni per il dibattito odierno, per esempio sulla flessibilità del mercato del lavoro o sulla costituzione economica europea. Nella terza lezione vedremo come il combinato disposto della teoria classica e della critica keynesiana costituiscano un formidabile strumento di analisi delle crisi economiche, inclusa la crisi attuale. Nella quarta lezione illustreremo il ruolo della moneta, cercando di mostrare come non vi sia nulla di misterioso o mistico attorno ad essa. In questa lezione illustreremo anche quello che per gli economisti non conformisti è lo snodo centrale della politica economica, il vincolo della bilancia dei pagamenti (da questo dissentono i miei amici della MMT). Nelle due ultime lezioni ritorneremo sulla questione dell’Europa e dell’euro, e come poteva essere altrimenti per chi come me, dal 2009 ha fatto da battistrada su questo tema (mi sembra passato un secolo!). Se alla fine di queste letture vi sentirete di dire: “Tutto questo mi sembrava già di saperlo, però adesso mi è più chiaro”, vuol dire che sarò riuscito nel mio intento. In questi anni, sotto la sferza della crisi, l’attività di divulgazione economica è stata massiccia e favorita dai social media. Decine di migliaia di persone, fortunatamente moltissimi giovani, si sono appassionate ai temi economici sentendoli come decisivi per il proprio destino. In alcun casi ciò ha preso forme organizzate, come nel caso dell’MMT e per certi versi del benemerito blog Goofynomics di Alberto Bagnai che, assieme al volume Il tramonto dell’euro, ha avuto grandissimi meriti nel disvelare che il re è nudo. Scopo di queste lezioni è di rafforzare il background analitico del lavoro fatto in questi anni assieme a un gruppo di tenaci economisti eterodossi a partire dal tema europeo. (Un rammarico c’è, che questo lavoro si sia svolto in maniera troppo sparpagliata, facendo prevalere un certo individualismo molto italico, condito di narcisismo. L’eccezione è forse stata l’e-book di MicroMega del 2012 curato da Massimo Pivetti e dal sottoscritto). Non perderemo dunque mai il contatto con la realtà confermando, sperabilmente, che conoscere è anzitutto un piacere che ci rasserena nelle nostre convinzioni, preparandoci alla lotta per cambiare, naturalmente. Vorrei infine commentare due possibili fonti d’incomprensione sull’economia. Quando come tante ragazze e ragazzi mi accostai all’economia negli anni Settanta si era molto interessati ai dibattiti teorici, allora molto accesi. Eravamo molto consapevoli che il mondo lo si legge attraverso il filtro della teoria. In questo davamo implicitamente ragione a Keynes (anche se studiavamo più Marx), secondo il quale ciascun politico (e ciascuno di noi) ragiona avendo inconsapevolmente in testa teorie formulate da qualche economista defunto qualche decennio prima. Nell’epoca post-ideologica a cui ci hanno convinto di appartenere, i ragazzi guardano ai dibattiti teorici con più insofferenza, e considerano alcune categorie sociali come capitale e lavoro quali retaggi del secolo passato. La mia impressione è che essi finiscano così per ritenere l’economia una scienza prettamente empirica, e sono infatti spesso bravi in econometria (la disciplina che cerca di stimare empiricamente i modelli teorici), guardando alla teoria come una “scatola per gli attrezzi”, un menu in cui c’è un po’ di tutto e da cui attingere à la carte. (Anche questa idea della teoria economica come scatola degli attrezzi è di Keynes, confermandoci la sua versatilità mentale, spesso però pasticciona). La verifica empirica è ovviamente importante, e l’analisi storica e la mera osservazione dei dati lo è molto più dei metodi meccanici dell’econometria, ma lo è altrettanto l’analisi teorica, in un nesso inscindibile. Anche perché i dibattiti economici che si svolgono sul mero piano empirico-econometrico sono spesso i più inconcludenti (i risultati dipendono da quali dati e variabili si considerano, dalle tecniche di stima, sono svolti su moli enormi di dati trascurando le vicende storicopolitiche ecc.), e comunque nessuna verifica empirica può essere presa per buona se condotta sulla base di una teoria sbagliata. Chi parla male, pensa male. Riuscire a mettere in luce le incongruenze delle teorie, quando riesce, aiuta a tagliare la testa al toro. Se sarò riuscito a convincere qualche ragazza o ragazzo a una maggiore sensibilità per l’analisi teorica, questo libro sarà stato un successo. Un esempio riguarda il tema della crescente diseguaglianza, che certamente appassiona i più giovani. Superficialmente esso non sembra richiedere alcuna analisi teorica complessa, ma solo misurazioni statistiche. Ma il tema non può essere affrontato senza comprendere le trasformazioni del capitalismo, senza averne una teoria. Del resto lo studioso francese Thomas Piketty, che ha reso ancor più popolare il tema, adotta schemi di pensiero rigidamente neoclassici, il che non può che rendere spuria l’interpretazione delle sue pur importanti risultanze empiriche. Un’altra incomprensione circa l’economia, diffusa soprattutto fra i nipotini del movimento no-global, scaturisce dal confonderla con “l’altra economia”, il commercio equo e solidale, il microcredito, le empresas recuperadas e quant’altro. I tentativi di creare un’economia “non capitalistica” sono lodevolissimi, anche se spesso un po’ ingenui. L’economia come cercheremo di capirla assieme volerà tuttavia a un livello più macro, guardando alle dinamiche complessive, piuttosto che al micro delle singole esperienze. Se questo lo ritenete troppo astratto, questo libro non fa per voi. Ma ricordate che rischierete di condividere modi di pensiero creati da qualcuno che avete nei fatti delegato a pensare per voi. Le piccole esperienze esemplari sono inoltre destinate a rimanere tali proprio per la mancanza di una prospettiva politica ed economica più ampia e consapevole (dunque realistica). Non si deve confondere il dito con la luna. Gufi e poiane. Ricardo dà una definizione di economia molto netta: «La determinazione delle leggi che regolano [la] distribuzione è il problema fondamentale dell’economia politica». Non che per i marginalisti la questione distributiva non sia centrale, ma meglio mascherarlo un poco, per cui Lionel Robbins (1898-1984) si incarica negli anni Trenta di dare la definizione “ufficiale” di economia secondo la teoria dominante: «L’economia è la scienza che studia la condotta umana nel momento in cui, data una graduatoria di obiettivi, si devono operare delle scelte su mezzi scarsi applicabili ad usi alternativi». In altri termini: l’umanità soffre di scarsità di risorse (più specificatamente dei “fattori produttivi” lavoro, capitale e risorse naturali), che sono in ciascun periodo di tempo date, per cui si deve scegliere razionalmente il loro impiego, per esempio fra la soddisfazione dei bisogni correnti (consumo) o l’impiego per assicurare un benessere futuro maggiore (investimento). Fra queste scelte v’è quella della distribuzione del prodotto ottenuto da quelle risorse ai possessori delle risorse medesime, ossia al lavoro (salari), al capitale (interessi/profitti) e alle risorse naturali (rendita). Tutte queste scelte razionali dipenderanno da fattori oggettivi come le dotazioni iniziali dei “fattori produttivi”, i gusti prevalenti dei consumatori e le tecnologie. Non c’è spazio per il conflitto sociale. Come vedremo, leggi oggettive detteranno “a ciascuno il suo”. L’economia si riduce a un esercizio “ingegneristico” su come allocare risorse scarse fra fini alternativi. Lasciando per un attimo questi giganti e venendo ai nostri giorni, Goofynomics ci propone la seguente definizione (la discuto perché è la prima cosa che balza agli occhi accedendo a quel benemerito e popolare blog): «L’economia esiste perché esiste lo scambio, ogni scambio presuppone l’esistenza di due parti, con interessi contrapposti: l’acquirente vuole spendere di meno, il venditore vuole guadagnare di più. Molte analisi dimenticano questo dato essenziale». Karl Polany (1886-1964), un famoso economista e antropologo, si sarebbe però inalberato di fronte a questa definizione. Egli è infatti celebre per aver criticato il fondamento antropologico del liberismo secondo cui la pulsione fondamentale dell’attività economica sarebbe, seguendo Smith, la «propensione al baratto, al commercio e allo scambio di una cosa con l’altra». All’opposto, sostiene Polanyi: «Nonostante il coro di invenzioni accademiche tanto insistente nel diciannovesimo secolo, il guadagno e il profitto nello scambio non hanno mai prima svolto una parte importante nell’economia e per quanto l’istituzione del mercato fosse abbastanza comune a partire dalla tarda Età della Pietra, il

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