Racconta Oreste del Buono che alcuni anni dopo la guerra Giorgio Scerbanenco gli depositò sulla scrivania un mucchietto di fogli ingialliti e gli chiese un parere. "Non era il solito genere di Scerbanenco. Era un racconto di guerra. Amaro, spietato, non ossequiente alla retorica in voga. Sbagliai esprimendo più la perplessità su dove pubblicarlo che l'apprezzamento per quanto letto. Lui riprese il dattiloscritto e non me ne parlò più. Ma spesso mi tornava il ricordo di "Lupa in convento". Cresceva nel ricordo. Glielo domandai e lui disse che non lo trovava più". Fu scoperto anni dopo in una vecchia cassa, insieme ad altri scritti degli anni trascorsi in Svizzera dove era fuggito nel '43. Sono opere che si distinguono per la durezza dei temi e dei toni, per l'orrore e la pietà che le pervade. Un convento in montagna, un gruppo di soldati in fuga alla ricerca di un rifugio. Minacciano le suore, sequestrano coperte, cibo, denaro, caricano i muli, pronti a ripartire. Ma la stanchezza vince e il capitano decide di fermarsi. Non solo per far recuperare forze agli uomini. E' per Lupa, divorata dalla febbre, forse dalla setticemia. Donna del capitano, ma anche di tutti i soldati, "Aveva centinaia di amici, quasi tutti li aveva veduti morire. Presso una pianta, vicino a un sasso, in una buca, sotto le macerie, sparpagliati a pezzi o urlanti per il delirio di una ferita infetta, o fulminati dalla stanchezza. Con quasi tutti era stata insieme. Era l'unica cosa che poteva fare per loro"