Un inedito di Pietro Piffetti? Ipotesi di studio Ideato nel rispetto della consuetudine, questo inginocchiatoio /tavola 1/ riflette la struttura del tipico comò romano della metà del Settecento quasi ad imitare il movimento di volumi, caro al primo barocco architettonico, dal quale trae ispirazione e al quale rende omaggio attraverso l'utilizzo delle molteplici incorniciature ebanizzate. A tal riguardo ricordiamo i due comò ben noti agli studi, pubblicati da Alvar Gonzalez Palacios, uno laccato e decorato a “chinoiserie”, l'altro “alla fiamminga”, la cui foggia non si allontana molto da quella che connota il nostro inginocchiatoio.1 La straordinarietà dell’inginocchiatoio consiste nella magnificenza della decorazione a tarsia, ottenuta con l'utilizzo di diverse varietà di essenze e piccole incrostazioni in avorio e metallo, che ne rivestono l'intera superficie, disegnando un soggetto a Natura Morta: - sul piano, un rigoglioso ornato floreale, vivacizzato dalla presenza di uccelli, farfalle, e carnose volute di foglie di acanto - sul fronte dei cassetti, una teoria di girali di acanto - sulla pedana un mascherone grottesco, sormontato da un canestro colmo di fiori. / tavola 2/ - sui fianchi un vaso poggiato sul consueto supporto con ricco bouquet. /tavola 3/ La Natura Morta affonda le proprie radici in terra nordica, e raggiunge l'apice del successo in epoca barocca. In molti dipinti troviamo raffigurate composizioni floreali, ricche di attenzioni naturalistiche. Anche in Italia, in pieno manierismo, più maestri affini tra loro, si cimentarono nella raffigurazione di vasi di fiori. La predilezione per questa tipologia di ornato, è attestata anche dalla serie di stampe, documentata già a partire dal 1582 con le incisioni di Cherubino Alberti (1553-1596) che riproducono i cosiddetti “Vasi Polidoreschi”.2 Il francese Jacques Vauquer3 (1621- 1686) incise stampe con vasi di fiori, animati dalla presenza di uccelli e farfalle; è nell'ambito di questi incisori che vanno ricercati i modelli per questo genere di decorazione. Tale soggetto ornamentale, a natura morta, grazie alla grande diffusione dei modelli a stampa in tutta Europa, e alla facilità di potersi adattare a qualsivoglia tipologia di manufatto, fu ampiamente utilizzato da ornatisti, ceramisti, ebanisti, i quali ne rimasero letteralmente infatuati; in particolare, verso la fine del Seicento l'editoria francese invase il mercato di modelli ornamentali. I Poilly4, Pierre Jean Mariette5, pubblicarono modelli per stoffe, per carte, per la decorazione degli interni, per aiuole e giardini, ispirati al mondo vegetale.6 L'avventura della tulipe 7 nacque è vero nel Cinquecento, ma sarà durante il corso del Seicento che l'attenzione inizierà a fissarsi su altri punti di interesse, quali lo studio di altre varietà di fiori come gli anemoni, giacinti e narcisi. Il divertimento consisterà nel ricercare le varietà più sconosciute. Esuberanti composizioni floreali o “tulipomania”, come continuerà ad essere definita, sorta di koinè dialectos, invase a macchia d'olio tutta quanta l'Europa, investendo ogni campo delle cosiddette Arti Minori. A quale maestro o a quale scuola si debba ricondurre l’origine della tarsia lignea pittorica, a soggetto floreale, resta a tutt'oggi problema irrisolto. L'ipotesi più accreditata vuole che la sua divulgazione sia avvenuta grazie alla presenza, ormai ampiamente documentata presso le corti e capitali europee, di maestranze nordiche. Ed è a Parigi, alla corte di Luigi XIV, indiscusso tempio del gusto, che la decorazione floreale, attraverso il suo naturalismo, raggiunse l’apice del perfezionamento grazie a personalità d'eccellenza come Charles Boulle (1642- 1732) Utilizzando numerosissime essenze di legni e la tecnica dell'ombreggiatura delle tessere ottenuta immergendole nella sabbia calda, Charles Boulle riuscirà a fissare la sensibilità della sua epoca, votata allo studio dei fiori con un’ammirazione senza precedenti. Svilupperà il virtuosismo dei petali, osservando le parti più nascoste, facendone percepire una sensazione quasi tattile e materica. Realizzerà anche tulipani spampanati, introdurrà in un contesto classico l'elemento tardo rinascimentale e manierista del mascherone grottesco, da quel momento spesso presente in questa tipologia di ornati. All'inizio della sua carriera Charles Boulle, licenziò per l'Elettore di Baviera Max Emanuel (fra il 1694 e il 1695), sia il medagliere, la cui superficie è interamente rivestita con tarsie raffiguranti vasi di fiori, uccelli e farfalle, degne di un manuale ornitologico, sia l'armadio (fra il 1690 e il 1700) oggi conservato al Museo di Stato dell’Hermitage a San Pietroburgo. Stessa fortuna e celebrità ebbe Leonardo Van der Vinne,8 anch'egli fiammingo, che incontriamo alla corte dei Medici, protagonista delle Botteghe Granducali, (muore a Firenze nel 1715) il quale si meritò il soprannome di Tarsia. A lui sono stati concordemente attribuiti lo stipo9 (1667), il tavolo10 (1664), entrambi conservati a Palazzo Pitti nel Museo degli Argenti oltre ai quattro piani di tavoli, due in collezione privata e due conservati nella Villa della Petraia,11 per i quali la paternità a Van der Vinne è condivisa con un altro intarsiatore attivo in quegli anni a Firenze; dai documenti della Guardaroba medicea spicca infatti anche il nome di Charles Le Brun, italianizzato in Riccardo Bruni, menzionato per aver eseguito due “puffetti” e la porta per l'alcova12 del Gran Principe Ferdinando nel 1698. Gli intarsi realizzati da Riccardo Bruni, a carnose foglie di acanto, girali e ghirlande, ben riflettono la tendenza di gusto della corte medicea che, a partire dal terzo quarto del secolo, tende sempre più ad adottare soluzioni decorative care al barocco romano. Nell'ambito delle Botteghe Granducali questo tipo di decorazione naturalistica trovò un humus favorevole su cui germogliare, Jacopo Ligozzi,13 ( 1547-1627) eccellente pittore, al servizio del Granduca Francesco I Medici, divenne celebre grazie alle sue tavole botaniche e zoologiche. Maestranze fiamminghe che praticavano la tarsia lignea, si spinsero anche nell'entroterra di Venezia come Padova e Verona. Molti arredi, ancora purtroppo anonimi14, ne sono la testimonianza. Si fermarono in quelle città, forse quale tappa dopo avere disceso la valle del Brennero, oppure attratti dal fascino che ancora la Serenissima era in grado di emanare in fatto di gusto. Il nostro excursus arriva e si conclude a Roma, meta del nostro viaggio virtuale, attraverso l'universo della tarsia floreale, laddove la nostra indagine porta ad avanzare una timida ipotesi di provenienza dell'arredo preso in esame. Dalla fine del Cinquecento numerosi artisti mossero dalle Fiandre verso Roma, richiamati dal clima cosmopolita, bacino di accoglienza delle più svariate culture e tendenze. In seguito, con la riconquista del suo predominio, durante il periodo della controriforma, la chiesa cattolica, attraverso la grande stagione barocca, celebrava il suo trionfo e la città Eterna diventava con le sue ricche committenze la capitale culturale d’Europa. Artisti provenienti da ogni dove, si incontravano scambiandosi stimoli ed esperienze; per i francesi divenne addirittura tappa obbligata, quando fu fondata, a partire dal 1660, l'Accademia di Francia, dove fecero confluire le incisioni dei loro decorativisti. Per quanto concerne la tipologia di tarsia, di cui ci stiamo occupando, come suggerisce Alvar Gonzalez Palacios15 non era consueta a Roma. Semplici composizioni floreali o asciutti girali erano i motivi che con maggior frequenza completavano gli arredi di ambito romano, più vicini al gusto di un Jan van Mekeren16, intarsiatore olandese, che non all'esuberanza barocca delle tarsie di Boulle. Bisognerà aspettare infatti il 1730, anno in cui Pierre Daneau,17 intarsiatore di origine francese, firma due tavoli per la famiglia Barberini,18 /tavole 4-5/ i cui piani proporranno l’ornato a fiorami “alla olandese”, con la presenza di un mazzo di carte /tavola 6/ e stemma della famiglia /tavola 7/, rese a trompe l'oeil. A distanza dunque di anni venne proposta una versione settecentesca della tarsia floreale per una prestigiosa committenza, a dimostrazione che ancora a quella data era considerata di grande attualità. I due tavoli riflettono, con ogni evidenza, il gusto di Charles Boulle che Daneau deve aver conosciuto nella sua città natale. Figlio di un ebanista con bottega a Parigi, Daneau, giunge a Roma dopo aver ultimato la sua formazione probabilmente presso un importante centro, voglia essere Firenze o Parigi, esponente e portavoce di quella corrente di gusto di respiro internazionale. Proprio intorno agli anni Trenta è documentata la presenza nell'Urbe anche di Pietro Piffetti (1701-1777) che diverrà in seguito prima ebanista della corte sabauda, dove vive con il fratello. Da un carteggio19 tra Carlo Vincenzo Ferreo Marchese d’ Ormea, primo ministro piemontese e Ignazio Giuseppe Conte di Gros, ministro del Re di Sardegna, si evince che il giovane Piffetti, molto apprezzato dal marchese, approntò per lui diversi lavori, puntualmente spediti a Torino. Dagli stessi documenti si viene a conoscenza che su richiesta del Re, Carlo Emanuele III, lasciò Roma il 16 Gennaio del 1731 per stabilirsi a Torino. Alla corte il Piffetti consegna un tavolo parietale, oggi al Museo Civico di Arte Antica di Palazzo Madama di Torino,20 il cui piano lo si può ben considerare chiara derivazione della coppia di tavoli firmati da Daneau ed un coppia di tavoli21, uno conservato al Victoria and Albert Museum /tavola 8/ e l’altro all'Istituto San Paolo di Torino, /tavola 9/, la cui sintassi compositiva dell'ornato presenta somiglianze assai rilevanti con i piani dei tavoli Barberini di Daneau. Dopo aver evidenziato la inconfondibile foggia romana dell’inginocchiatoio l'indagine ci porta ora, a conclusione della nostra trattazione, ad entrare più specificatamente in merito all’ornato. Si è cercato dunque di avanzare un confronto con alcuni lavori, già attribuiti al Piffetti, licenziati durante i primi lustri del suo arrivo nella città sabauda, che presentano la stessa tecnica decorativa e consuetudine iconografica. Si tratta del tavolo da muro con scansia, attualmente a Palazzo Reale di Torino,22 /tavola 10-11/, che non solo esibisce nell’esplosione dei fiori lo stesso impasto compositivo, ma tra le molteplici varietà, il Piffetti inserisce delle piccole campanule, rese in questo caso utilizzando l’avorio, che ritroviamo, pressoché uguali, nell’ornato del fianco del nostro inginocchiatoio. Sorprendente è la resa grafica del canestro di vimini sulla pedana del nostro mobile, che ci viene restituita identica non solo sulle ante del tavolo con scansia, di cui sopra, ma anche sui piani della coppia dei tavoli parietali dell’Istituto Bancario San Paolo di Torino e del Victoria and Albert Museum di Londra. A nostro avviso, l’inginocchiatoio potrebbe rappresentare la prima produzione del Piffetti, quella giovanile degli anni Trenta trascorsi a Roma o dei primissimi a Torino, quando già in possesso di una egregia perizia tecnica in fatto di intarsio, il suo modus operandi era ancora influenzato da idee, frequentazioni e disegni che nel prosieguo degli anni avrebbe abbandonato in virtù di quella produzione di eccellenza ben nota23. Anche se poco o nulla sappiamo circa gli arredi realizzati a Roma, resta un'indicazione rilevante e condivisa: l'esperienza presso la bottega del Daneau, che lascia aperta l'ipotesi di una possibile collaborazione tra i due ebanisti a Roma. L'inginocchiatoio potrebbe appartenere a quella produzione che dovette catturare l'attenzione del Marchese d’ Ormea, tanto da indurlo sia a commissionarne arredi per suo personale diletto, che a segnalarne le straordinarie capacità presso la corte sabauda. Ancora all'inizio della sua carriera, il Piffetti sembra incarnare quella particolare osmosi tra varie culture, accordando mirabilmente la tecnica fiamminga, minuziosa e analitica, con l'attenzione naturalistica cara al Boulle e alla morbidezza esplosiva e prorompente del barocco romano. La grande avventura artistica floreale, esplosa sull'onda dell'inaspettato interesse economico prima che estetico, verso il tulipano ed in seguito verso altre varietà, attraversa nell'arco di quasi due secoli le principali corti d’Europa, arricchendosi di nuove soluzioni e adattandosi nel contempo a criteri autoctoni già consolidati. Il Piffetti lungo il suo iter, iniziato a Roma e concluso a Torino, ben potrebbe rappresentare con questo arredo il fenomeno; una sintesi che raccogliendo citazioni di artisti fiamminghi, francesi, italiani, ha contribuito a portare l'intarsio ad una definitiva dimensione cosmopolita e il nostro inginocchiatoio, seppur rappresenti l'incipit della sua produzione, ne potrebbe essere chiara testimonianza. 1 Comò inginocchiatoio in legno intagliato, dipinto, laccato e parzialmente dorato. 1725 circa. Roma, Palazzo Pallavicini. Cassettone con gradino impiallacciato ed intarsiato in legni vari. Collezione privata. Si veda Alvar Gonzalez Palacios, Arredi ed Ornamenti alla Corte di Roma, pp 169-188 Milano, 2004. 2 M. Gregori, J.G Hoenzoleern, Natura Morta italiana tra Cinquecento e Settecento p. 46 Monaco di Baviera, 2002. 3 Allievo di Jean Baptiste Monnoyer, noto per le sue incisioni di fiori usati per l’oreficeria e casse di orologi. 4 Poilly famiglia di incisori, librai ed editori francesi. I membri più noti sono Francois il Vecchio (Abeville 1622-Parigi 1693), Nicolas (Abeville 1626-Parigi 1690) e Jean Baptiste (Parigi 1669-1728). 5 Pierre-Jean Mariette (Parigi, 7 Maggio 1694- Parigi 10 Settembre 1774), incisore, collezionista d’arte e libraio francese. 6 M. Trionfi Honorati, Ipotesi per il Piffetti e il Decorativismo del Tardo Seicento, in “Antichità viva”, N.1 1977, p. 44. 7 M. Dash, La febbre dei tulipani, la prima grande crisi economica della storia, Milano, 2009. 8 Per un approfondimento su Leonardo van der Vinne vd appendice documentaria (regesto degli artigiani attivi per la corte medicea) in Enrico Colle, I mobili di Palazzo Pitti Il periodo dei Medici 1537-1737, Firenze. 9 Enrico Colle, op.cit., p. 203. 10 Enrico Colle, op. cit., pp. 53-148. 11 Enrico Colle, op. cit., p. 151. 12 Enrico Colle, op. cit., p. 235. 13 F. Rossi, La Pittura di Pietra, Firenze-Milano, 2002. A. Zobi, Notizie storiche sull’origine e progressi dei lavori di commesso in pietre dure che si eseguiscono nell’I. e R. Stabilimento di Firenze, p. 231, Firenze, 1853. 14 C. Santini, Mille Mobili Veneti, Modena 1999 15 Alvar Gonzales Palacios, op.cit., pp.169-188 16 Jan van Mekeren (Tiel 1658- Amsterdam 1733) fu uno dei più importanti costruttori di cabinets del tardo XVII secolo, specializzato in marchetteria floreale. aggiungi bibliografia 17 Poche notizie ci sono pervenute circa questo ebanista. Nacque probabilmente intorno al 1710, e a sedici anni lasciò la Francia. Il tavolo, in coppia con un’altro di uguale struttura ma con ornati a tarsia leggermente diversi, è stato reso noto da Alvar Gonzalez Palacios in Fasto Romano dipinti, sculture, arredi dai Palazzi di Roma, Catalogo della mostra, Roma, Palazzo Sacchetti, 15 Maggio-30 Giugno, 1991, a cura di Alvar Gonzalez Palacios, Roma, 1991. 18 Alvar Gonzalez Palacios, op. cit., p.71 19 La lettera risale all’8 Novembre del 1730, il Marchese d’Ormea, ministro del re di Sardegna, informa l’ambasciatore piemontese a Roma, conte Gros, di aver parlato di Piffetti al re, il quale dispone “che debba venirsene qua ove S. M. non lo lascierà mancare nè d’occupazione, nè di ricompensa”. Roberto Antonetto, Il mobile piemontese nel Settecento, volume primo Torino p.130 20 Giancarlo Ferraris, Pietro Piffetti e gli ebanisti a Torino 1670 – 1838, p.110. 21 Giancarlo Ferraris, Op. cit., pp. 50-51. 22 L’arredo in realtà era nato per il Gabinetto del pregadio del re. È da identificare con il “coffano forte con tiretti e secreti di noce nera l’ossatura del quale di noce nostrale, con il tavolino e scansia sopra impellicciata di fiorami di legno con uccelli, cornici di madriperla” del pagamento del 5 Aprile 1734. In seguito modificato da Gabriele Capello. Roberto Antonetto Op. cit. p. 149 23 R. Antonetto, Minusieri ed Ebanisti del Piemonte, Torino 1985. R. Antonetto, Il mobile piemontese nel Settecento, Torino 2010 Bibliografia: Roberto Antonetto, Minusieri ed Ebanisti del Piemonte, Torino 1985. Roberto Antonetto, Il mobile piemontese nel Settecento, Torino 2010 Enrico Colle, I mobili di Palazzo Pitti, Il periodo dei Medici 1537-1737 , Ed. U. Allemandi, Firenze 1997. Alberto Cottino, Il Trionfo della Natura, Viaggio nella Natura Morta dell'Italia Barocca, Milano 2004 Alvar Gonzalez Palacios, Fasto Romano, Roma 1991 Alvar Gonzalez Palacios, Il tempio del Gusto, La Toscana e l'Italia Settentrionale, Milano 1986 Alvar Gonzalez Palacios, Arredi e Ornamenti alla Corte di Roma, Milano,2004 Giancarlo Ferraris, Pietro Piffetti Torino 1992. Luigi Salerno, La Natura Morta Italiana, Roma, 1984 Maddalena Trionfi Honorati, “Ipotesi per il Piffetti e il decorativismo del tardo seicento”, Antichità viva, Firenze Ed. Edam, AnnoXVI N. 1, 1977,pp. 38 – 47. Autori Vari Andrè Charles Boulle, Un Nouveau Style pour l'Europe in occasione dell'esposizione al Museum fur Angewandte Kunst Frankfurt, 30 ottobre 2009- 31 gennaio 2010. Tavole
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