Bertrand Russell SAGGI SCETTICI Longanesi & C., Milano 1975 Traduzione dall'originale inglese "Sceptical Essays" di Sergio Grignone. Copyright © Berne Convention Copyright © George Allen & Unwin Limited Copyright © Act, 1956. E' possibile essere del tutto razionali ai nostri tempi? Sì, risponde Bertrand Russell tracciando una via netta e chiara attraverso il labirinto provocato dalla confusione di idee, di teorie e di ipotesi che popolano l'epoca presente. In questi saggi, scritti durante la sua maturità, il filosofo esamina l'influenza della psicanalisi, la teoria della relatività, la decadenza dell'impulso scientifico nel pensiero occidentale e la caparbia resistenza del moralismo, terminando con un'importante discussione sulla libertà. Alla base di questi saggi, naturalmente, c'è sempre il suo famoso scetticismo che non si conclude mai come un comodo invito alla sospensione di giudizio, ma piuttosto come uno stimolo alla critica, alla eterodossia, all'erosione dei miti del nostro tempo che, soffocando i migliori slanci umani, ritardano indefinitamente «la liberazione dalla tirannia della paura, che fa degli uomini vermi striscianti». «Soltanto una buona dose di scetticismo», conclude il filosofo, «potrà lacerare i veli che ci nascondono questa verità. Lacerati i quali, potremo cominciare a costruire una nuova morale, basata non sull'odio e sulla costrizione, ma sul desiderio di una vita piena e sulla convinzione che gli altri esseri umani sono un aiuto e non un ostacolo, una volta che sia stata sanata la follia dell'odio». INDICE. SAGGI SCETTICI. 1. Sul valore dello scetticismo. 2. Sogni e fatti. - Cap. 1. - Cap. 2. 3. La scienza è superstiziosa? 4. Possono gli uomini essere razionali? 5. La filosofia del secolo ventesimo. 6. Macchine e emozioni. 7. Comportamento e valori. 8. Ideali di felicità orientali e occidentali. 9. Il male che fanno i buoni. - Cap. 1. - Cap. 2. - Cap. 3. 10. La recrudescenza del puritanesimo. 11. Necessità dello scetticismo in politica. 12. Libertà di pensiero e propaganda ufficiale. 13. La libertà nella società. 14. Libertà e autorità nell'educazione. 15. Psicologia e politica. 16. Il pericolo delle guerre di religione. 17. Prospettive rosee e nere. - Cap. 1. - Cap. 2. - Cap. 3. - Cap. 4. SAGGI SCETTICI "Aimer et penser: c'est la véritable vie des esprits". VOLTAIRE Saggio 1. SUL VALORE DELLO SCETTICISMO. Vorrei proporre alla benevola considerazione del lettore una teoria che potrà forse sembrare paradossale e sovversiva. La teoria è questa: che sarebbe opportuno non prestar fede a una proposizione fino a quando non vi sia un fondato motivo per supporla vera. Ammetto, naturalmente, che se questa opinione divenisse comune, ne risulterebbero completamente trasformati la nostra vita sociale e il nostro sistema politico, il che non deporrebbe a favore della mia tesi, dato il perfetto funzionamento dell'una e dell'altro, oggi. E so anche bene una cosa forse più seria, che una dottrina di questo genere provocherebbe una diminuzione delle entrate dei chiaroveggenti, dei "bookmakers", dei vescovi e di tutte quelle altre persone che vivono sulle speranze irrazionali di coloro che non hanno fatto nulla per meritarsi una buona sorte in questo o nell'altro mondo. Ma nonostante questi gravi argomenti in contrario, sono convinto che sul mio paradosso vale la pena di aprire la discussione, ed è appunto questo che cercherò di fare. Innanzitutto, vorrei evitare che qualcuno ritenesse estremistica la mia posizione. Sono un "whig" inglese, e nutro un amore tutto inglese per il compromesso e la moderazione. Si ricordi l'aneddoto che si racconta di Pirrone, il fondatore del pirronismo (come veniva chiamato una volta lo scetticismo): egli sosteneva che noi non sappiamo mai abbastanza da poter dire con sicurezza che un'azione sia più saggia d'un'altra. Da giovane, passeggiando un pomeriggio vide il suo maestro di filosofia (dal quale aveva appreso i suoi princìpi) caduto a testa bassa in un fosso, donde non riusciva a cavarsi fuori. Dopo essere stato a contemplarlo per un po', se ne andò via senza aiutarlo, convinto che non vi fosse nessun motivo sufficiente per pensare che avrebbe fatto bene a tirare il vecchio fuori dal fosso. Altri discepoli, meno scettici, dettero una mano al maestro, biasimando Pirrone per la sua spietata durezza; ma il maestro, fedele ai princìpi, lo lodò per la sua costanza. Orbene, io non ho nessuna intenzione di patrocinare uno scetticismo così eroico. Sono disposto ad ammettere le ordinarie credenze del senso comune, in pratica almeno se non in teoria. Sono disposto ad ammettere qualsiasi fondato risultato della scienza, non certamente come vero, ma come probabile in misura sufficiente a permettere una base di azione razionale. Se mi dicono che il tal giorno vi sarà un'eclissi di luna, credo che valga la pena di andarla a vedere. Pirrone l'avrebbe pensata in maniera diversa; ma da questo lato mi sembra giustificato affermare che quella che io sostengo è una posizione mediana. Vi sono dei fatti sui quali coloro che li hanno indagati si trovano d'accordo: a esempio, le date delle eclissi. Su altri fatti invece gli esperti non concordano tra di loro. E anche quando concordano, può ben darsi che sbaglino tutti. Vent'anni fa l'opinione di Einstein sull'ampiezza della deviazione della luce per effetto della forza di gravità sarebbe stata respinta da tutti gli esperti; eppure si è dimostrata esatta. Tuttavia l'opinione degli esperti, quando è unanime, deve essere accettata dai non esperti come assai più probabilmente esatta dell'opposta. Lo scetticismo che io auspico si riduce soltanto a questo: 1) che quando gli esperti concordano nell'affermare una cosa, l'opinione opposta non può più essere ritenuta certa; 2) che quando essi non sono d'accordo, nessuna opinione può essere considerata certa dai non esperti; 3) che quando concordemente gli esperti affermano che non esiste alcun motivo sufficiente per un'opinione positiva, l'uomo comune farebbe bene a sospendere il suo giudizio. Queste proposizioni sembrano forse semplicissime: eppure, una volta accettate, rivoluzionerebbero completamente la vita umana. Le opinioni in forza delle quali la gente è disposta a combattere e a perseguitare appartengono tutte a una delle tre classi che lo scetticismo condanna. Quando un'opinione poggia su motivi razionali, la gente si contenta di esporli e di attendere che facciano la loro opera. In tal caso nessuno sostiene con passione le proprie opinioni; ciascuno le sostiene con calma, esponendo pacatamente le proprie ragioni. Le opinioni sostenute con passione sono sempre quelle per le quali non esiste alcuna buona giustificazione: la passione, infatti, non è che la misura della mancanza di convinzione razionale da parte dell'opinante. Le opinioni politiche e religiose vengono sostenute sempre in maniera appassionata. Salvo che in Cina, l'uomo è dappertutto considerato meschino se manca di robuste opinioni in tali materie; e lo scettico riscuote maggiori antipatie dell'appassionato fautore dell'opinione avversaria. Si crede che le esigenze della vita pratica impongano di avere un'opinione su tali questioni, e che, se divenissimo tutti più razionali, l'esistenza sociale sarebbe impossibile. Io credo esattamente il contrario, e cercherò di spiegare il perché. Vediamo a esempio la questione della disoccupazione degli anni seguiti al 1920. Un partito sosteneva che essa era dovuta alla inettitudine dei sindacati, un altro che la causa doveva cercarsi nella confusione economica che regnava in Europa. Un terzo partito, pur ammettendo che entrambe queste cause avevano parte nella crisi, attribuiva la maggior parte della responsabilità alla politica che la Banca d'Inghilterra seguiva nel tentativo di accrescere il valore della sterlina. Questo terzo partito, per quel che so, era formato dalla maggior parte degli esperti, e da nessun altro. Gli uomini politici non si sentono affatto allettati da giudizi che non si prestano a declamazioni di partito, e i comuni mortali preferiscono le opinioni che attribuiscono le disgrazie alle macchinazioni dei loro nemici. Di conseguenza si combatte pro e contro misure irrilevanti, senza prestare minimamente ascolto a quei pochi che sostengono un'opinione razionale, giacché essi non concedono nulla alle passioni. Per far proseliti, sarebbe stato necessario convincere la gente che la Banca d'Inghilterra era un covo di sfruttatori; per convertire il partito laburista, sarebbe stato necessario dimostrare che i direttori della Banca d'Inghilterra erano ostili ai sindacati; per convertire il vescovo di Londra, sarebbe stato necessario dimostrargli ch'essi erano persone «immorali». E soltanto allora, di conseguenza, tutti avrebbero pensato che le opinioni dei direttori della Banca sulla moneta erano sbagliate. Prendiamo un altro esempio. Si afferma spesso che il socialismo è contrario alla natura umana, e questa asserzione viene negata dai socialisti con lo stesso calore con cui l'esprimono i loro avversari. Il problema fu discusso dal dottor Rivers in una conferenza tenuta all'università di Londra e pubblicata nel suo libro postumo, "Psychology and Politics". E' questa l'unica discussione sull'argomento che, a mio giudizio, possa definirsi scientifica. Comincia col portare alcuni dati antropologici da cui risulta che il socialismo non è contrario alla natura umana degli indigeni della Melanesia; fa poi notare che noi non sappiamo se la natura umana sia identica in Melanesia e in Europa; e conclude dicendo che l'unica maniera per scoprire se il socialismo sia o no contrario alla natura umana europea è quella di provarlo. Ed è interessante il fatto che sulla base di questa conclusione egli si disponeva a presentarsi alle elezioni come candidato laburista. Ma certamente egli non avrebbe portato nessun contributo al calore e alla passione di cui solitamente si rivestono le polemiche politiche. Avventuriamoci ora in un argomento che di solito riesce anche più difficile trattare spassionatamente, ossia gli usi matrimoniali. La maggior parte della popolazione di qualsiasi paese è convinta che tutti gli usi matrimoniali diversi dai propri siano immorali, e che coloro che combattono questa convinzione lo facciano soltanto per giustificare la propria vita dissoluta. In India, per tradizione, l'idea che una vedova torni a prender marito è troppo orribile per potersi concepire. Nei paesi cattolici, il divorzio è considerato cosa pessima, pur tollerandosi qualche mancanza alla fedeltà coniugale, da parte degli uomini almeno. In America, ottenere il divorzio è facile, ma le relazioni extraconiugali sono condannate con la massima severità. I maomettani praticano la poligamia, che noi consideriamo invece degradante. Tutte queste diverse opinioni sono sostenute con estrema veemenza, e crudelissime pene vengono inflitte a coloro che vi contravvengono. Pure, che vi fosse anche uno solo, nei vari paesi, che si prendesse la minima pena di dimostrare che le consuetudini del proprio paese contribuiscono più di quelle d'altri all'umana felicità! Se sfogliamo un trattato scientifico sull'argomento (come, a esempio, la "History of Human Marriage" di Westermarck), ci troviamo immediatamente immersi in un'atmosfera completamente diversa da quella dei pregiudizi popolari. Apprendiamo che sono esistiti usi d'ogni specie, molti dei quali tali che si crederebbe persino che ripugnino alla natura umana. La poligamia crediamo di riuscire a spiegarcela come un uso imposto alle donne dai maschi oppressori. Ma che dire delle consuetudini tibetane, per le quali è la donna che ha più d'un marito? Eppure coloro che sono stati nel Tibet assicurano che la vita familiare in quelle regioni è armonica almeno quanto nei paesi europei. Dovrebbero bastare poche pagine di questa lettura per ridurre ogni persona schietta al più completo scetticismo, dal momento che non esiste nessun dato che ci permetta di affermare che una consuetudine matrimoniale sia migliore o peggiore d'un'altra. Quasi tutte implicano punizioni di crudele intolleranza nei riguardi di coloro che offendono il codice locale; ma oltre a ciò esse non hanno altro in comune. Pare che il peccato sia tale soltanto nell'ambito di certi limiti geografici. Da questo, non è che breve il passo alla conclusione che il concetto di «peccato» è illusorio, e inutile la crudeltà solitamente praticata nel castigarlo. Ma è proprio questa conclusione che suona sgradita a molti, tanto riesce delizioso ai moralisti infliggere atrocità in buona coscienza. Ed è anzi per questo motivo che essi inventarono l'inferno. Il nazionalismo è naturalmente un esempio estremo di fervida fede in cose assai dubbie. Non credo di sbagliare se dico che uno storico scientifico che scriva oggi una storia della guerra mondiale è costretto a esprimere giudizi che, se espressi durante la guerra, lo avrebbero esposto al rischio di andare a finire in prigione, in qualsiasi paese belligerante delle due parti. Fatta anche qui la debita eccezione per la Cina, non c'è paese la cui popolazione tolleri di sentirsi dire la verità sul proprio conto: in tempi normali la verità è considerata semplicemente inopportuna, in tempi di guerra addirittura criminosa. Si costruiscono opposti sistemi di violente credenze, la falsità delle quali risulta evidente dal fatto che a prestarvi fede sono soltanto coloro che partecipano delle stesse tendenze nazionali. Ma l'applicazione della ragione a questi sistemi di fede è considerata perversa quanto lo era un tempo per i dogmi religiosi. E quando si sfida qualcuno a spiegare perché mai lo scetticismo sarebbe perverso in tali questioni, la sola risposta che si riceve è che i miti aiutano a vincere le guerre, quelle guerre che una nazione razionale perderebbe anziché vincere. L'opinione che ci sia qualcosa di vergognoso nel salvare la propria pelle a prezzo d'un'assoluta diffamazione degli stranieri non ha trovato finora, per quanto io sappia, altri sostenitori fuor dei quaccheri, tra i moralisti di professione. Se poi si avanza l'ipotesi che una nazione razionale saprebbe trovare la maniera per non lasciarsi coinvolgere affatto nelle guerre, la risposta è di solito un insulto. Quale sarebbe l'effetto della diffusione di uno scetticismo razionale? Le vicende umane nascono dalle passioni, le quali generano sistemi di miti collaterali. Gli psicanalisti hanno studiato le manifestazioni individuali di questo processo nei folli, accertati o meno. L'uomo che ha sofferto una qualche umiliazione si inventa una teoria, secondo la quale egli è il re d'Inghilterra, e sviluppa ogni sorta di ingegnose ragioni per spiegare il fatto di non essere trattato con tutto quel rispetto che la sua altissima posizione imporrebbe. In questo caso, la sua illusione non è tale da suscitare le simpatie dei suoi vicini, i quali perciò lo rinchiudono in un manicomio. Ma se invece di asserire unicamente la sua grandezza, il paziente asserisce anche quella della sua nazione o della sua classe o del suo credo, egli riesce a guadagnarsi schiere di seguaci, e diventa capo politico o religioso, anche se, a un osservatore imparziale, le sue opinioni possano sembrare non meno assurde di quelle d'un ricoverato al manicomio. In tal modo si origina una psicosi collettiva, che segue leggi assai simili a quelle della psicosi individuale. Ognuno sa quanto sia pericoloso discutere con un pazzo che si creda re d'Inghilterra; ma poiché egli è isolato, è facile averne ragione. Quando tutta intera una nazione ha subìto una delusione, la sua ira è dello stesso genere di quella del singolo pazzo quando le sue pretese sono messe in discussione: ma non c'è che la guerra che la possa ridurre alla ragione. Gran disaccordo è tra gli psicologi in merito alla parte che nel comportamento dell'uomo hanno i fattori intellettuali. Ci si presentano due distinti problemi: 1) fino a che punto le credenze sono cause efficienti delle azioni? 2) in quale misura le credenze derivano, o possono derivare, da prove logicamente adeguate? In entrambi i problemi, gli psicologi concordano nell'attribuire ai fattori intellettuali una parte assai minore di quella che gli attribuirebbe un profano; ma è sulla precisa misura di esse che si verificano notevoli diversità di vedute. Esaminiamo uno alla volta i due problemi. 1) Fino a che punto le credenze sono cause efficienti delle azioni? Senza stare a discutere la cosa in teoria, guardiamo alla vita di una persona normale, nel corso di una giornata qualunque. Questa persona comincia con l'alzarsi la mattina, per la forza dell'abitudine probabilmente, senza l'intervento di nessuna credenza. Fa colazione, piglia il tram, legge il giornale, e va in ufficio, tutto per la forza dell'abitudine. Vi fu un tempo nel passato in cui egli si formò queste abitudini, e nella scelta dell'impiego, almeno, le sue credenze ebbero una loro parte. Probabilmente egli allora credeva che l'impiego offertogli fosse il migliore che gli potesse capitare. Nella maggior parte degli uomini la credenza ha peso nella scelta iniziale della carriera, e perciò, di conseguenza, in tutto ciò che da questa scelta deriva. In ufficio, se egli è un semplice impiegato, continua quasi certamente ad agire per abitudine, senza alcuna attiva volizione, e senza l'esplicito intervento delle proprie opinioni. Si potrebbe pensare che, se addiziona colonne di cifre, egli crede alle regole aritmetiche che viene applicando. Ma sarebbe un errore: quelle regole sono semplici abitudini del suo corpo, come quelle di un giocatore di tennis. Le prese da ragazzo, non perché fosse intellettualmente convinto che esse corrispondessero alla verità, ma per far piacere al maestro, così come il cane impara a sedere sulle zampe di dietro e a chiedere da mangiare. Non voglio dire con questo che tutta l'educazione sia di questa specie, ma certamente lo è la massima parte dell'abbiccì. Se però il nostro amico è socio o direttore, può capitargli nel corso della giornata di essere chiamato a prendere difficili decisioni. In queste è probabile che le sue credenze vengano ad esercitare un loro peso. Egli è convinto che alcuni prodotti aumenteranno di prezzo e che altri ribasseranno, che Tizio ha una posizione finanziaria ben solida e che Caio è sull'orlo della bancarotta. Poggiandosi su queste credenze egli agisce. E proprio perché è chiamato ad agire in base a convinzioni piuttosto che a mere abitudini egli viene considerato tanto più importante d'un semplice impiegato, e può