S. GIOVANNI BOSCO LA STORIA D'ITALIA raccontata alla Gioventù Visto: nulla osta alla stampa Torino, 31 luglio 1935. Sac. LUIGI CARNINO Rev. Del. Imprimatur Torino, 31 luglio 1935. Can. FRANCESCO PALEARI Provic. Gen. AVVERTENZA Eccovi, o giovanetti, una nuova edizione della Storia d'Italia scritta dal Sacerdote GIOVANNI Bosco. Il desiderio di porvi tra le mani un libro che accoppii alla verità storica la sana morale, la rettitudine dei giudizi e la purità della patria lingua mi ha consigliato a dar mano a questo lavoro. Affinché poi abbiate una preventiva conoscenza che tali diverse qualità trovansi riunite nella presente Opera, ho creduto non inopportuno il far precedere i giudizi pubblicati da alcuni periodici e da un celebre scrittore italiano, ciascuno dei quali per la parte sua gode meritamente la estimazione delle persone colte. Vi auguro che la lettura di questo libro possa produrre in voi que' salutari effetti che mossero l'Autore a dar mano a questo faticoso lavoro e me a pubblicarlo. Vivete felici. L'EDITORE (I). GIUDIZI PUBBLICATI DALLA "CIVILTÀ CATTOLICA" Il nome dell'egregio Sac. D. Bosco è oggimai un'arra più che sufficiente della bontà de' suoi scritti improntati tutti di zelo e diretti alla coltura della gioventù, al bene di cui da tanti anni lavora con lodevolissima fatica. Questa sua Storia d'Italia in particolare merita elogio per la rara discrezione con cui fu scritta, in maniera che nell'angusto spazio di 558 pagine in 16° vi si raccolgono con diligenza tutti i principali avvenimenti della patria nostra. Noi pertanto facciam voti, perchè, dato bando a tante Storie d'Italia scritte con leggerezza od anche con perverso fine, questa del Bosco corra per le mani dei giovani, che s'iniziano allo studio delle vicende della nobilissima Penisola. (Anno VIII [1857], serie III, vol. V. pag. 482) (2). In un tempo come il nostro, nel quale della menzogna storica si fa un manicaretto per avvelenare le menti giovanili, molto importa rendere note le opere che nell'educazione della gioventù possono servire d'antidoto alle predette corruttele. E che tale sia questo veramente egregio libro del chiarissimo D. Bosco non ci bisogna di provarlo alla lunga. Altrove parlando di questa storia indicammo i meriti particolari che in sé contiene, e che sono di assai cresciuti nella nuova edizione che annunziamo. Per lo scopo che l'Autore si propone, che è d'insegnare la storia patria ai giovanetti Italiani con facilità, con brevità, con chiarezza, noi non esitiamo ad affermare che il libro nel suo genere non ha forse pari in Italia. È composto con grande accuratezza e con una pienezza rara a trovarsi nei compendi. Tutto il lavoro è diviso in quattro epoche, la prima delle quali incomincia dai primi abitatori della penisola, e l'ultima giunge sino alla guerra del 1859. Un confronto dei nomi geografici dell'Italia vetusta coi nomi moderni chiude il libro a maniera di appendice. Sotto la penna dell'ottimo D. Bosco la storia non si tramuta in pretesto di bandire idee di una politica subdola o principii di un ipocrita libertà, come pur troppo avviene di certi altri compilatori di Epiloghi, di Sommarii, di Compendii che corrono l'Italia e brulicano ancora per molte scuole godenti riputazione di buone. Alla veracità dei fatti, alla copia della materia, alla nitidezza dello stile, alla simmetria dell'ordine, l'Autore accoppia una sanità perfetta di dottrine e di massime, vuoi morali, vuoi religiose, vuoi politiche. E questa è la qualità che ci sprona a raccomandare caldamente questo libro a quei padri di famiglia, a quei maestri, a quegli istitutori che desiderano di avere figliuoli e discepoli eruditi nella germana istoria patria, ma non dalla falsa storia patria attossicati. Convien pur dirlo, giacché è per nostra grande sciagura troppo vero. Quella colluvie di scritti elementari e pedagogici che ora allaga la nostra penisola, è per la massima parte appestata dagli errori moderni contro il Papato, contro la Chiesa, contro il clero, contro l'autorità divina ed umana. La diabolica congiura dei figliuoli delle tenebre contro la Luce eterna opera indefessamente a guastare fino dal seme le tenere anime dei giovanetti. Quindi noi stimiamo di fare un atto di amicizia suggerendo ai cattolici nostri lettori un libro elementare il quale né procede da un congiurato contro la verità, né ha le magagne che corrompono ai di nostri le menti inesperte. (Anno XIII [1862,] serie V, vol. III, pag. 474). SCOPO E DIVISIONE DI QUESTA STORIA (5) Egli è un fatto universalmente ammesso che i libri devono essere adattati all'intelligenza di coloro a cui si parla, in quella guisa che il cibo deve essere acconcio alla complessione degli individui. Giusta questo principio, io divisai di raccontare la Storia d'Italia alla gioventù, seguendo nella materia, nella dicitura e nella mole del volume le stesse regole già da me praticate per altri libri al medesimo scopo destinati. Attenendomi pertanto ai fatti certi, più fecondi di moralità e di utili ammaestramenti, tralascio le cose incerte, le frivole congetture, le troppo frequenti citazioni di autori, come pure le troppo elevate discussioni politiche, le quali cose (6) tornano inutili e talvolta dannose alla gioventù. Posso nondimeno accertare il lettore, che non iscrissi un periodo senza confrontarlo cogli autori più accreditati, e, per quanto mi fu possibile, contemporanei o almeno vicini al tempo cui si riferiscono gli avvenimenti. Neppure risparmiai fatica nel leggere i moderni scrittori delle cose d'Italia, ricavando da ciascuno quello che parve convenire al mio intento. Questa storia è divisa in quattro epoche particolari: la prima comincia da' primi abitatori d'Italia e si estende fino al principio dell'Era volgare, quando tutto il Romano Impero passò nella dominazione di Augusto. Questa epoca ho io denominata Italia antica o pagana. La seconda, dal principio dell'Era volgare va sino alla caduta del Romano Impero (7) in Occidente nel 476; ed io la chiamai Italia cristiana, perché appunto in quello spazio di tempo il Cristianesimo fu propagato e stabilito in tutta l'Italia. La terza, dalla caduta del Romano Impero in Occidente fino alla scoperta dell'America fatta da Cristoforo Colombo nell'anno 1492, e si suole appellare Storia del Medio Evo. La quarta comprende il resto della Storia sino ai nostri tempi, comunemente appellata Storia Moderna. Ho fatto quello che ho potuto perché il mio lavoro tornasse utile a quella porzione dell'umana società, che forma la speranza di un lieto avvenire, la gioventù. Esporre la verità storica, insinuare l'amore alla virtù, la fuga del vizio, il rispetto all'autorità ed alla religione fu lo scopo finale di ogni pagina. Affinché poi tornasse utile ad un maggior numero di persone e specialmente alla studiosa gioventù, questa ultima (8) edizione fu accomodata ai programmi di storia destinati dal Ministero sopra la pubblica istruzione per l'esame di Licenza, ed anche per quello dei maestri e pegli allievi delle classi elementari e delle scuole tecniche. Fu aggiunto un confronto de' nomi geografici dell'Italia antica coi nomi moderni. Le buone accoglienze fatte dal pubblico ad altre mie operette, e specialmente alle molte (9) precedenti edizioni di questa Storia, mi fanno eziandio sperar bene della presente novella ristampa. Se riuscirà di qualche vantaggio, se ne renda gloria al Dator di tutti i beni, al quale io intendo di consacrare queste mie tenui fatiche. EPOCA PRIMA L'ITALIA PAGANA DAI PRIMI ABITATORI D'ITALIA FINO AL PRINCIPIO DELL'ERA VOLGARE I. Geografia dell'Italia Antica (10). Allora che, miei cari giovani, leggeste la Storia Sacra, avrete senza dubbio notato come i prodi Maccabei centosessanta anni circa prima della venuta del Salvatore (1 l) mandarono ambasciatori a Roma per fare alleanza coi Romani già divenuti padroni di tutta l'Italia (*).[(*) v. Capo XXIII della presente Storia (a)]. È questa la prima volta che nei Libri santi si parla chiaramente dei nostri paesi, sebbene fossero già lungo tempo innanzi abitati. Io credo che non vi sia paese del nostro più fecondo di avvenimenti e più ricco di uomini illustri per coraggio e per ingegno; perciò io giudico di farvi cosa piacevole narrandovi distintamente i fatti più luminosi che nei passati tempi in questi paesi avvennero. Ma prima di cominciare i racconti e nominarvi personaggi celebri, i quali ci precedettero, sarebbe necessario che imparaste a conoscere in una carta geografica i fiumi principali, le catene delle montagne, le città più importanti di questo paese, a fine di poter essere in grado di meglio comprendere i molti fatti di cui l'Italia fu campo glorioso. I monti (12) d'Italia sono le Alpi e gli Apennini. Si è dato il nome di Alpi a quella catena di montagne che, cominciando da Nizza, corrono verso settentrione sino al lago di Ginevra, quindi piegandosi a levante si stendono fino al mare Adriatico, e quasi baluardo naturale separano l'Italia dalla Francia, dalla Svizzera e dall'Allemagna. In quella parte delle Alpi, che sovrasta al Piemonte, sorge il Monviso. Ivi ha sorgente il fiume che in antico denominavasi dai latini Padus, dai Greci Eridano, da noi chiamasi Po, e dai poeti re dei fiumi, perché maggiore di tutti gli altri fiumi d'Italia. Questo nel suo corso passa presso Torino, serpeggia nel Piemonte (13), va a scaricare le sue acque nel mare Adriatico, vicino alla città di Venezia. Parecchi fiumi concorrono ad ingrossare la corrente del Po, tra cui alla sinistra la Dora Riparia, che nasce alle falde del Monginevra e si congiunge al Po presso Torino; la Dora Maggiore ossia Baltea, che scende da quel tratto delle Alpi detto Piccolo S. Bernardo, e si scarica nel Po nelle vicinanze di Crescentino; il Ticino a poca distanza da Pavia, una volta capitale del regno de' Longobardi; l'Adda e il Mincio, principali fiumi della Lombardia, vanno ad ingrossare le acque del Po. Alla destra il Tanaro e la Trebbia sono i principali suoi affluenti. Vicino a Savona, quasi dove cominciano le Alpi, sorge un'altra giogaia di monti detti Apennini. Staccandosi essi dalle Alpi segnano come un semicircolo intorno a Genova, capitale degli antichi Liguri, poi sotto a Bologna si piegano verso mezzodì attraversando e dividendo l'Italia fino all'estremo confine delle provincie Napoletane (14). Molti fiumi traggono la sorgente dagli Apennini. Il Rubicone nasce dalle parti orientali di questi monti e scorrendo tra Cesena e Rimini va a scaricarsi nell'Adriatico. Sulle medesime vette degli Appennini d'Etruria, ma un po' più a mezzodì, trae la sorgente il gran fiume Tevere, il quale passa nel mezzo di Roma e va a scaricare le sue acque nel mare di Toscana vicino al porto d'Ostia. Il primo tratto d'Italia che da Nizza si prolunga sino a Venezia è bagnato al mezzodì dal mare Mediterraneo. Il secondo tratto che da Venezia si piega verso mezzodì quasi gamba umana, è bagnato a levante dal mare Adriatico, a ponente dal Mediterraneo (15). Per chiarezza della storia sarà bene altresì di ricordarvi che anticamente questa nostra Italia fu appellata con vari nomi. Fu detta Saturnia da Saturno, che le memorie antiche ci dànno per primo legislatore dei nostri paesi, e che visse circa mille e dugento anni prima della venuta di Cristo. Fu di poi nominata Enotria dagli Enotri, antichi abitanti d'una parte d'Italia. Esperia ovvero occidentale dai Greci, perché appunto ha questa posizione rispetto alla Grecia. Talora vien nominata Tirrenia dai Tirreni, che sono forse i più antichi abitatori d'Italia, di cui ci sia rimasta memoria. La parte più meridionale, che corrisponde alle provincie Napoletane, fu appellata Ausonia e talora Magna Grecia dagli Ausoni, popoli della Grecia, i quali vennero ivi a stabilire la loro dimora. Gallia Cisalpina fu per qualche tempo nominata la parte compresa tra la catena delle Alpi e la Toscana fino a Venezia. Ebbe questo nome dai Galli, antichi invasori del nostro paese, dei quali avrò più cose da raccontarvi. Ma il nome che a tutti prevalse fu quello d'Italia, nome che gli eruditi fanno derivare da Italo re dell'Enotria, oggidì Calabria; il quale, avendo grandemente promosso la civiltà nelle nostre contrade, meritò che fosse col suo nome appellato tutto quel paese che oggidì si nomina Italia. Premessa la cognizione di questi nomi, miei cari amici, voi potrete mettervi a leggere la Storia d'Italia. Tuttavia potendovi occorrere nomi di città o di paési da voi non ancora conosciuti, o ai nostri tempi altrimenti nominati, ho pensato di togliervi cotesta difficoltà col mettere infine di questo libro una più ampia descrizione d'Italia ed un piccolo dizionario con una carta geografica, mercé cui voi potrete con un semplice colpo d'occhio confrontare i nomi antichi con quelli di oggigiorno. II. Etnografia, ovvero dei primi abitatori d'Italia (16). (Dall'anno 2000 all'anno 900 avanti Cristo). Molti anni erano già trascorsi dopo il diluvio, e niun popolo ancora era venuto nel fertile paese, nell'ameno clima dell'Italia. Laonde i fiumi si versavano qua e colà senza alcun letto regolare; le colline e le montagne erano ingombre da folte selve, da oscure foreste; la superficie delle valli e delle pianure era coperta da acque stagnanti, da paludi e da fanghiglia. Non prati, non campi, non giardini o vigne. Niuna città, niun borgo, o villaggio; in nessuna parte udivasi suono di voci umane. Quando un popolo discendente da Tiras, figlio di Giafetto, venne a stabilirsi in quelle regioni dell'antica Italia, ove oggidì presso a poco trovasi la Toscana, che perciò anticamente era detta Tirrenia. Da Tiras fu appellato Tirreno quel mare che bagna le coste occidentali della Toscana. Ciò credesi avvenuto circa l'anno duemila prima del Salvatore. Ora immaginatevi quante fatiche abbiano dovuto sostenere quei nostri antenati per rendere fruttifero il terreno. Colla massima premura gli uni si diedero a formare argini e rive a fine di far prendere ai fiumi un corso regolare; gli altri a scavar canali in mezzo alle paludi, perché avessero libero scolo; altri sradicare alberi e selve, acciocché potessero utilmente seminare campi, piantare vigne, raccogliere frutti. Mentre costoro si occupavano con alacrità a coltivare le terre, molti altri si diedero a costruire case, donde cominciarono a sorgere borghi, villaggi e città. Devo premettere con mio rincrescimento come le memorie spettanti quei primi abitatori dei nostri paesi andarono in grande parte perdute, e quelle che si conservarono vennero mischiate con molte favole. Soltanto si può sapere con qualche certezza che i Tirreni crebbero bentosto in gran numero; perciò si divisero in tre popoli conosciuti dagli antichi sotto il nome di Taurini, Etruschi, Osci. I Taurini, quasi provenienti dal Tauro, che è una lunga ed alta catena di montagne dell'Asia, andarono ad abitare tra le Alpi ed il Po e da loro fu appellata Torino l'antica capitale del Piemonte. Etruschi furono detti quelli che restarono nel primo loro paese. Gli Osci poi andarono ad abitare l'Italia meridionale. Sparsasi intanto la fama della bellezza e della fertilità dell'Italia, vennero a stabilirvisi successivamente altri popoli stranieri circa l'anno 1700 avanti Cristo. I Pelasgi, così detti da Phaleg, quarto discendente dopo Noè (17), venuti in Italia presero diversi nomi, e si appellarono Umbri quelli che abitarono oltre l'Apennino. Da loro derivò il nome dell'Umbria ad una provincia dell'Italia centrale. Sabini si chiamarono quelli che abitarono le coste occidentali dell'Apennino verso la parte centrale dell'Italia. Siculi o Siciliani furono detti quelli che abitarono la parte meridionale dell'Italia. Una colonia di essi passò lo stretto siculo e andò a popolare quell'isola, che da loro fu detta Sicilia. Ceth nipote di Noè diede nome alla grande nazione dei Celti, che scesero ad abitare intorno all'Adriatico, nella Germania e nella Gallia, ora Francia, circa l'anno 1300 avanti Cristo. Tutti questi popoli, figli di un Dio Creatore, tutti discendenti dal comun padre Adamo, avrebbero dovuto amarsi come fratelli ma non fu così. Fosse per ragione di commercio, fosse per gara di possesso, nacquero discordie e fin d'allora si cominciò a far guerra. I Tirreni degli altri meglio ammaestrati ordinavano i loro eserciti, e a suon di tromba li guidavano alla pugna in modo tale, che mettevano in fuga chiunque avesse osato assalirli, facendo così continue conquiste sopra i loro nemici per mare e per terra. La grande isola di Sardegna fu da essi conquistata. Dopo molto spargimento di sangue, ben conoscendosi che la guerra non apporta nessun vantaggio alle nazioni, gli Etruschi deposero le armi, e stretta alleanza coi loro vicini, si diedero indefessamente a coltivare la terra, a costruire città, a far fiorire il commercio. Fondarono Veio, Mantova, e moltissime altre città tra di loro confederate ed amiche. Avevano un sistema di monete e di pesi; praticavano cerimonie religiose, avevano riti e sacerdoti. Lavoravano con maestria l'oro e l'argento in filigrana e col cesello. Eranvi tra di loro abilissimi scultori in marmo e in bronzo. Dalle quali cose apparisce quanto quegli antichi Italiani fossero dati al lavoro, facendo consistere la loro prima gloria nel guadagnarsi il pane colle loro fatiche. III. L'Idolatria (18). (Dall'anno 900 all'anno 752 avanti Cristo). La religione, o giovani, è quel vincolo che stringe l'uomo col Creatore, quella che c'invita a riconoscerlo ed a servirlo. Gli uomini essendo tutti creati da un medesimo Dio, discendenti da un medesimo padre, in principio avevano tutti la medesima religione e praticavano le stesse cerimonie, gli stessi sacrifizi con un culto puro e scevro di errore. Ma dopo il diluvio universale ben si può dire che la vera religione si conservò solamente tra discendenti d'Abramo detti Ebrei. Le altre nazioni sparsesi a popolare le varie parti del mondo, di mano in mano che si allontanavano dal popolo Ebreo, confusero coi falsi dèi l'idea di un Dio Creatore, e si diedero all'idolatria, cioè cominciarono a prestare alle creature quel culto che a Dio solo è dovuto. Di cosiffatto errore erano eziandio miseramente imbevuti gli antichi abitatori d'Italia. Conviene tuttavia notare che l'idolatria degli Italiani fu sempre meno mostruosa di quel che fosse presso alle altre nazioni; e parecchie istituzioni, almeno nella loro origine, parvero assai ragionevoli. Persuasi che tutto dovesse avere principio da un Essere Supremo, consideravano Giano come il maggiore di tutti e Reggitore del mondo; e lo rappresentavano con due facce per indicare che egli vedeva il passato e l'avvenire. Come poi i Romani ebbero maggiori relazioni coi Greci, ne adottarono tutte le divinità. Giove era riconosciuto per padre degli Dei e degli uomini, e chiamato Giove Feretrio, Statore, Salvatore, secondochè a quella buona gente pareva di aver da lui ricevuto questo o quell'altro beneficio. Giunone, sposa di Giove, era la dea sovrana ed universale, cui davasi talvolta il nome di Giunone Sospita o Salvatrice, di Moneta o Consigliera. Nettuno presiedeva al mare, Cerere all'agricoltura, Vulcano al fuoco, Marte alla guerra, Diana alla caccia, Minerva alle scienze, Apollo alla poesia ed alla musica. Che più? La Pudicizia, la Gioventù, la Virtù, la Pietà, la Mente, l'Onore, la Concordia, la Speranza, la Vittoria erano altrettante divinità cui s'innalzavano templi ed altari. Credo che voi di leggieri scorgerete ove stesse l'errore riguardo a queste divinità. Gli uomini, invece di praticare queste virtù per amor di Dio Creatore, adoravano le virtù medesime. I Sabini poi veneravano la dea Tellure o Vesta che significa terra, la quale conoscevano come larga produttrice di tutte le cose necessarie alla vita umana, e in questa guisa gli uomini erano eccitati alla coltura dei campi per motivo di religione. I Latini ed anche i Sabini i quali abitavano le spiagge del Tevere, adoravano la dea Matuta che vuol dire aurora, divinità non per altro immaginata, che per animare i popoli a mettersi di buon mattino al lavoro. Da ciò l'uso di far passare i soldati a rassegna avanti al levare del sole. Numa Pompilio, primo legislatore religioso dei Romani, propose all'adorazione la dea Fede, Affinché tutti fossero eccitati a mantenere la parola data in ogni genere di contratti. Lo stesso Numa voleva che fosse tenuto in gran e venerazione il Dio-Termine, a fine di avvezzare i suoi popoli a non invadere i poderi dei vicini. Laonde questo dio non solo era adorato con feste particolari dette terminali, ma di più quelli che avevano terreni limitrofi si radunavano sui confini, e presso ai segni divisori dei loro poderi facevano offerte e sacrifizi, ed amichevolmente banchettando riconosceva Ciascuno i termini del suo campo. Altri popoli pure dell'Italia prestavano culto ad altre divinità più ridicole, ma sempre con una certa ragione. Per esempio adoravano il bue, perché quest'animale serve a condurre i carri, e a coltivare la terra. Rendevano omaggio al cane, perché custodisce la casa, ossequiavano il gatto perché distrugge i sorci, e così dite di altre divinità. Ma questa superstizione o idolatria, la quale in mezzo all'errore aveva un'apparenza di ragionevolezza, col progresso del tempo degenerò e giunse a deplorabili eccessi. Chiunque si fosse reso celebre in qualche azione, eziandio malvagia, aveva dopo morte gli onori divini. Animali immondi e talora de' più schifosi ricevevano quell'onore che solamente a Dio onnipotente è dovuto. Fra i sacrifizi le offerte alcune erano ridicole, altre esecrande a segno, che in qualche luogo si giunse fino ad offrire vittime umane alle insensate divinità. Voi farete certamente le meraviglie, o giovani miei, in vedere tante divinità adorate dagli antichi abitatori di questa nostra Italia, e che solo siasi costantemente ricusato di riconoscere il Dio degli Ebrei e dei Cristiani. Perché mai? Le altre religioni si contentavano di prescrivere sacrifizi e mere cerimonie, senza imporre alcun obbligo di verità da credersi o di virtù da essere praticate. Tutti erano padroni di credere ciò che loro talentava; molti negavano una vita avvenire; tutti si abbandonavano alle più brutali passioni, di cui avevano molti esempi nella vita dei loro Dei incontinenti, ladri, vendicativi, ingannatori. Laddove la religione degli Ebrei frenava l'orgoglio dell'intelletto coi dommi da credersi, e regolava la condotta della vita colle virtù da praticarsi; senza la fede e senza la morale le cerimonie non servono a nulla. È ben vero che i filosofi, ossia i dotti, negavano credenza alla religione pubblica, anzi ne ridevano; e vollero provarsi ad introdurre qualche sano principio e qualche esercizio di virtù; ma non ottennero effetto veruno. Discordavano fra loro anche sulla natura di Dio e sull'esistenza della vita futura. Le poche virtù, che ostentavano, nascevano da uno spirito d'orgoglio e non dall'amore di Dio e del bene. Platone, il più dotto di questi filosofi, riconobbe che bisognava aspettare un Dio che venisse ad abitare cogli uomini per insegnare a loro la vera religione. IV. Fondazione di Roma e Romolo primo re (19) (Dall'anno 752 all'anno 714 avanti Cristo). Vi ricorderete, cari amici, della famosa visione di Nabucodonosor, colla quale Iddio prenunziava quattro grandi monarchie. Una fu quella degli Assiri, l'altra dei Persiani, la terza dei Greci, la quarta dei Romani. Di questa ultima sono io ora per parlarvi. Essa fu la più vasta e di maggiore durata delle altre. Eccone l'umile origine. Circa l'anno 750 avanti la venuta di Gesù Cristo vivevano, secondo le antiche tradizioni, due fratelli, uno di nome Remo, e l'altro Romolo, nella città di Alba situata nelle vicinanze del Tevere a poca distanza dal mare Mediterraneo. Devo qui farvi notare che la discendenza, la nascita di questi due fratelli e la fondazione di Roma sono mischiate di molte favole; ond'io esporrò quanto sembrami più degno di essere creduto nelle storie antiche. Dicesi adunque che 400 anni prima della fondazione di Roma un principe di nome Enea, dopo la distruzione di una città dell'Asia Minore detta Troia, approdasse nel Lazio, paese dell'Italia centrale. In questo paese aveva anticamente regnato Giano, sotto al cui regno Saturno cacciato da Giove si ritirò fra i Latini. Enea pertanto fondò quivi una città nominata Lavinia, ed Ascanio figliuolo di lui ne fondò un'altra appellata Alba Lunga. Da Ascanio ebbe origine una serie di re, di cui il decimoterzo fu chiamato Numitore, al quale fu rapito il trono dal fratello Amulio. Dalla figliuola di Numitore, detta Rea Silvia, credesi che nascessero Remo e Romolo. Amulio temendo che questi dovessero poi un giorno spogliarlo del trono, come egli aveva spogliato il loro avolo Numitore, appena nati li fece gittare nel Tevere, donde furono dalla corrente rigettati sulla riva. Allattati da una lupa, vennero poi trovati da un pastore di nome Faustolo, il quale li allevò come suoi propri figliuoli. Cresciuti in età, ed informati della loro origine reale, si unirono ad altri pastori ed assalirono improvvisamente Amulio. Riuscirono a cacciarlo dal regno, e quindi diedero principio alla fondazione di Roma in quel medesimo luogo ove erano stati salvati. Ma quello che parmi potersi credere con qualche certezza, si è che cioè Faustolo vedendo i due fratelli bizzarri, rissosi, incorreggibili, pensò di licenziarli da casa sua, lasciando che si andassero a cercare fortuna. Abbandonati così a sé stessi associaronsi ad altri uomini al par di loro vagabondi e andarono a gettare le fondamenta di una città sopra un angolo del Tevere al confine degli Etruschi, dei Sabini e dei Latini, popoli dell'Italia centrale. Nella costruzione della nuova città nacquero gravi discordie fra i due fratelli. Venuti a contesa nel decidere a chi dei due toccherebbe dare il nome alla novella città, consultarono gli auspizi, vale a dire il volo degli uccelli. Remo vide il primo sei avvoltoi, Romolo poco dopo ne vide dodici. Derivò quindi la questione, pretendendo l'uno la superiorità per averli veduti prima, l'altro per averne veduti di più. Nel bollor della rissa Romolo, trasportato dalla collera, gettò sul capo di Remo uno strumento di ferro, di cui era armato e lo uccise sull'istante. Così quella che doveva divenire la regina delle città fondavasi da un'orda di avventurieri, e Romolo fratricida le dava il suo nome, chiamandola Roma e, facendola ricettacolo di ogni sorta di masnadieri, si costituì loro Re. Roma fu fondata alle falde di un colle detto Palatino, e coll'andare del tempo ampliata venne a rinchiudere nella sua cerchia fino a sette colli. In mezzo al recinto della città era una vasta piazza detta Foro, dove il popolo si radunava per deliberare intorno agli affari pubblici. L'adunanza del popolo nel Foro veniva significata con questa frase: tenere i comizi. Nel Foro s'innalzava la ringhiera, specie di cattedra su cui salivano quelli che dovevano parlare al popolo. V. Regno di Romolo e di Tito Tazio. Sebbene molti abitanti fossero corsi a popolare la nuova città, tuttavia per niun modo i paesi vicini volevano maritare le loro figliuole a quei malfattori. Perciò Romolo studiò di ottenere coll'inganno quello che non poteva per amicizia. Finse egli di voler celebrare in Roma una grande festa e la fece annunziare a suon di tromba, invitando i popoli vicini ad intervenirvi. Gli abitanti d'Alba e i Sabini accorsero in folla al promesso spettacolo; ma nei grandi spettacoli vi sono spesso grandi pericoli. Mentre stavano attenti a guardare i giuochi che si celebravano, i Romani ad un segno convenuto, tradita l'ospitalità, a mano armata piombarono addosso ai Sabini, e loro rapirono le fanciulle, malgrado la resistenza dei loro padri e dei loro fratelli. I Sabini erano a quei tempi i più forti e nel fatto dell'armi i più rinomati popoli d'Italia. Tito Tazio loro re era tenuto pel più valoroso guerriero del suo tempo. Questi altamente sdegnato per l'oltraggio fatto a' suoi sudditi si pose alla testa di un formidabile esercito e mosse contro i Romani, i quali in breve furono costretti a rinchiudersi dentro le mura di Roma. Ma difficilmente i nemici avrebbero potuto entrare in città se una donzella di nome Tarpea loro non ne avesse con perfidia aperta una porta. Quella donzella poi chiese ai Sabini, che in premio del suo tradimento le dessero ciò che ognuno di essi portava al braccio sinistro, volendo intendere un braccialetto d'oro o d'argento; ma fingendo queglino di non comprenderla, le gettarono tutti insieme addosso certi arnesi di ferro, grandi e rotondi che portavano eziandio al braccio sinistro, i quali si appellavano scudi. Tarpea morì in quel modo a piè di una rupe, che dal suo nome dicesi ancora oggidì Rupe Tarpea. Entrati così i Sabini in città, appiccaronvi tre sanguinose battaglie, ed i Romani sarebbero forse stati interamente distrutti, se le zitelle dei Sabini, divenute spose dei Romani, non si fossero colle loro preghiere interposte per far cessare le ostilità. Allora fu conchiusa la pace a queste condizioni: I Sabini lasciando la loro città detta Curi o Quiri verranno a porre le loro stanze in Roma; Tazio regnerà congiuntamente a Romolo sui due popoli uniti. Infatto i Sabini vennero a stanziarsi sul colle Capitolino e sul Quirinale, e dal nome della loro antica città, Quiriti si chiamarono i due popoli in un solo allora costituiti. Due re di eguale potere non possono alla lunga andare d'accordo; perciò trascorsi appena cinque anni, Tazio venne ucciso nell'occasione di una festa, non si sa da chi, ma probabilmente per una trama ordita da Romolo istesso. Romolo rimasto solo divise tutto il popolo in tre tribù chiamate dei Ramnensi, Tiziensi e Luceri. Primeggiavano i Ramnensi perché compagni di Romolo e primi abitatori della città; essi dominarono soli sino alla fusione dei Romani coi Sabini, che formarono la seconda tribù, quella dei Tiziensi. La tribù dei Luceri, inferiore dapprima alle altre due, venne più tardi ad esse eguagliata in tutti i diritti. Ogni tribù comprendeva dieci Curie, ed ogni curia si suddivideva in dieci Decurie. Alla testa di ciascuna di queste divisioni Romolo aveva preposto capi, che perciò chiamavansi Tribuni, Curioni e Decurioni. Tutti questi capi formavano una nobiltà ereditaria, detta Patrizi, ossia Padri. Cento di questi patrizi furono scelti da Romolo per formare il Senato, ossia il Consiglio supremo dello Stato, a cui furono aggiunti cento Sabini, dopo che questi furono uniti coi Romani. Appellavansi senatori ossia vecchi, perché appunto vecchi per età, per esperienza e per senno. Eravi dunque un Senato, che proponeva le leggi e consigliava quanto fosse a farsi. Eravi l'assemblea composta dei soli patrizi, detta Curiata. Questa sanciva le leggi, decideva su tutte le proposte del Senato, e nominava i magistrati presi dal suo seno. Il restante popolo, cioè l'infima plebe, non aveva pressoché alcun diritto; era bensì convocato nel Foro, ma non dava quasi mai voto alcuno, solamente udiva ad esporre i partiti presi dai Patrizi, serviva alla milizia, esercitava le arti ed i mestieri. Romolo così ci insegnò, che ad occuparsi dello Stato sono inabili tutti coloro che o per età o per occupazione non hanno acquistata la scienza indispensabile nel governo dei popoli. Siccome per professare con lode una scienza bisogna attendervi di proposito, così i patrizi dovevano occuparsi della sola scienza dello Stato ed erano proibiti di esercitare qualunque commercio od arte, ad eccezione dell'agricoltura. Ogni cittadino era soldato; ma fra i cittadini Romolo ne prese cento di ciascuna tribù, i quali servivano a cavallo, perciò denominati Cavalieri. Il loro numero da trecento crebbe presto a mille ed ottocento, e col tempo formarono i cavalieri un ordine intermedio tra i patrizi ed il popolo. Altri del popolo servivano in qualità di littori. Dodici di questi, armati di un fascio di verghe con entrovi una scure, accompagnavano il Re, ne eseguivano i comandi e punivano i malfattori. Romolo oltre avere ordinato lo Stato lo ampliò portando le armi contro i Veienti, popoli dell'Etruria. Li sconfisse e fermò con essi la pace obbligandoli a cedere sette dei loro borghi. Stava egli un giorno passando in rivista le schiere, quando levossi un fiero temporale accompagnato da tenebre. Cessato questo, Romolo più non si vide. Vogliono alcuni che i senatori, non potendo più sopportare i modi altieri di Romolo lo tagliassero a pezzi e lo dispergessero in quella oscurità del temporale. Dopo la morte di Romolo un uomo di nome Proculo si presentò al popolo, indi al Senato, dicendo che aveva veduto Romolo salire al cielo, il quale gli aveva detto che voleva essere adorato dai Romani sotto il nome di dio Quirino. Si prestò fede al racconto e gli fu innalzato un tempio sul vicino monte, detto d'allora in poi monte Quirinale, dove presentemente (20) sorge il palazzo dei Pontefici romani col medesimo nome appellato. La vita di Romolo deve ammaestrarci a non essere superbi e crudeli verso dei nostri simili, perché avvi un Dio giusto che a tempo e luogo rende il meritato castigo. VI. Il filosofo Pitagora (21). (Circa il 712 avanti Cristo). Al vedere i primi Romani tanto rozzi e feroci non pensatevi che così fossero tutti gli altri italiani. Imperciocchè eziandio in quei remoti tempi non pochi davansi con tutta sollecitudine alla coltura della terra, altri attendevano a diversi mestieri, e sappiamo che fin d'allora le arti erano in grandissimo fiore (*). [(*) PLUT. in Numa, cap. 15. - LIVIO, lib. 1. - POLIBIO, lib. II (22) (a)].. Presso gli Etruschi sono particolarmente menzionati gli amatori della musica, detti trombettieri, gli orefici, i fabbri, i tintori, i calzolai, i cuoiai, i metallieri e vasellai. La pittura e l'architettura degli antichi offrono ancora oggidì monumenti degni di alta ammirazione. Il credereste, o giovani miei, che in mezzo a tanto commercio le scienze fossero col più vivo ardore coltivate? Ci assicura la storia che molte scuole erano stabilite per l'istruzione dell'alta ed anche della bassa classe del popolo, perché fu sempre conosciuto che senza la coltura delle arti belle il commercio illanguidisce e vien meno. Fra le scuole rinomate nell'antichità fu quella di Pitagora di Crotone, città dell'Italia Meridionale. Egli è soprannominato il filosofo, perché quelli che davansi allo studio prima di lui dicevansi sofi o sofisti ovvero sapienti. Pitagora cangiò quel pomposo nome in altro più modesto facendosi chiamare filosofo, vale a dire amante della sapienza. Egli amava veramente la sapienza, e dopo essersi profondamente istruito in tutte le scienze degli Etruschi e degli altri popoli più eruditi d'Italia, spinto da desiderio di ulteriore sapere, viaggiò in Grecia, in Egitto, nella Palestina e da per tutto trattò coi più dotti personaggi di quei tempi. Fattosi un nobile corredo di cognizioni, egli ritornò in patria dove aprì una scuola detta Itala che fu modello di tutte le altre nei tempi posteriori stabilite. Così la scienza, da lui acquistata con grande fatica, tornava anche utile al suo simile. Era solito di non accettare alcun allievo in iscuola se prima in confidenza non gli faceva una dichiarazione, ossia una specie di confessione delle azioni di tutta la vita. Dipoi lo sottometteva alla prova del silenzio che durava tre, quattro o cinque anni secondo che lo scorgeva più o meno inclinato a cianciare. Maestro ed allievi mettevano i loro beni in comune, e dormivano tutti in un vasto edifizio. La frugalità de' loro pasti non ammetteva né carne, né pesce, né vino. La rigida temperanza, lo scarso sonno, la seria e continua occupazione li faceva maravigliosamente progredire nelle scienze. Tale austerità di vita era per altro temperata dal passeggio, dal canto, dal suono, dalla ginnastica e dalla lettura dei poeti, ossia da una specie di piccolo teatro. Voleva che Dio fosse il fondamento d'ogni sapere. Dio è un solo, loro diceva, né egli abita fuori de' confini del mondo, come credono tal uni, ma tutto intiero risedendo in se stesso contempla nell'orbita universale tutte le generazioni. Egli è il centro di tutti i secoli; l'artefice di tutte le podestà e di tutte le opere; il principio di tutte le cose; il padre di tutti; il motore di tutte le sfere. (V. S. GIUSTINO, fil. e m.). Voleva che tutti avessero la religione per guida. Chi avesse detto o fatto oltraggio a Dio od alla religione era immantinente cacciato dalla sua scuola. In questa maniera egli divenne capo di numerosissima scolaresca e poté introdurre certi metodi di disciplina nei maestri, di tanta moralità, puntualità e docilità negli alunni, che potrebbero in più cose proporsi per esemplari ai collegi dei nostri giorni. Ma lo studio torna inutile ove si perda in minute sottigliezze, e non vada unito all'operosità. Pitagora mentre occupavasi a promuovere le scienze filosofiche e letterarie amministrava alte cariche a pubblico vantaggio. Egli si rese assai benemerito in una guerra mossa a' suoi concittadini. Mercé l'opera e le sollecitudini di Pitagora fu impedito il saccheggio della città, e risparmiato molto sangue. Così il grande Pitagora nel mezzo dell'idolatria ravvisava quel divino ammaestramento per cui gli uomini devono amare la scienza e la virtù procurando nel tempo stesso di adoperarsi in quelle cose che possono tornare di giovamento al nostro simile. Pitagora ebbe molti allievi degni di tanto maestro. Fra gli altri è celebre Archita tarantino o di Taranto. Questi erasi dato allo studio della geometria e riuscì un famoso matematico. Egli tenne per molti anni il supremo potere in sua patria e più volte guidò la milizia con gran successo in tempo di guerra. Seguendo i ricordi del suo maestro, raccomandava a tutti, ma specialmente a' suoi allievi, la purezza dei costumi. Nulla avvi nell'uomo, loro diceva, più pernicioso e più micidiale che la disonestà. Da essa i giovani sono tratti alla rovina; da essa i tradimenti della patria, i sovvertimenti degli Stati, le pratiche segrete coi nemici; né havvi delitto cui non sia tratto chi è affetto da questo vizio. Quando l'uomo vi è immerso diviene incapace di far uso della ragione; e giunge a spegnere perfino il lume della mente. (V. CIC., De senect., 12). Da tutte le parti si correva in folla al gran Pitagora, ed i più nobili personaggi ambivano divenire suoi discepoli. Malgrado tante belle doti questo filosofo cadde nell'invidia di alcuni malevoli, i quali mossero contro di lui una persecuzione tale, che un giorno fra gli urli, gli schiamazzi ed i tumulti fu ucciso. Fatto abbominevole che ci dimostra come anche gli uomini più pii e benemeriti possono cadere vittima dei malvagi. VII. Numa Pompilio legislatore, secondo re di Roma (23). (Dall'anno 712 all'anno 670 avanti Cristo). Dopo la morte di Romolo i Sabini ed i Romani disputarono due anni per sapere chi avrebbero scelto per loro Re. Da ultimo prevalse il partito dei Sabini e fu eletto un uomo di loro nazione, conosciuto per la sua bontà e giustizia, chiamato Numa Pompilio. Egli frequentò la scuola di Pitagora e studiò a fondo la dottrina degli Etruschi, e da questa aveva imparato ad essere benefico e giusto verso di tutti; veniva perciò da tutti amato. Era nel quarantesimo anno dell'età quando si presentarono due messaggeri ad offrirgli la dignità reale a nome del popolo e del Senato di Roma. Egli amava più di vivere col vecchio suo genitore, che addossarsi un carico tanto pericoloso; laonde rispose agli ambasciatori: «perché volete che io
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