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Rivoluzioni passive. Il mondo tra le due guerre nei Quaderni del carcere di Gramsci PDF

145 Pages·2022·6.466 MB·Italian
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Preview Rivoluzioni passive. Il mondo tra le due guerre nei Quaderni del carcere di Gramsci

Indice Prefazione 7 1. I «paesi che ammodernarono lo Stato» 15 2. Benedetto Croce e il «contraccolpo» 18 3. Guido De Ruggiero come fonte di Gramsci 23 4. Le rivoluzioni di Vincenzo Cuoco 30 5. Le due aggiunte al Quaderno 1 34 6. Rivoluzioni attive e passive 38 7. La «rivoluzione-restaurazione» di Edgar Quinet 43 8. Croce e le rivoluzioni passive 48 9. La «dialettica addomesticata» 52 10. Da Croce a Labriola 57 11. La Miseria della filosofia 66 12. Rivoluzioni passive e traducibilità 71 13. I due princìpi della volontà collettiva 76 14. La coscienza e la funzione dello Stato 80 15. Tre fonti della teoria del cesarismo 84 16. Il bonapartismo, Stalin e Trockij 97 17. Il cesarismo come forma politica delle rivoluzioni passive 102 18. La guerra di posizione 110 19. Americanismo: una rivoluzione passiva? 121 20. Riforma e Rinascimento 133 21. Fascismo e corporativismo 140 Indice dei nomi 147 Prefazione La teoria delle rivoluzioni passive è uno dei temi più frequentati dalla recente critica gramsciana. Messa a fuoco nel corso degli anni Settanta, que sta categoria ha sollecitato numerose analisi e diversi tentativi di attnaUzza zione, specie per la lettura dei processi di modernizzazione extra-europei, dall'America Latina alla Turchia. Gramsci la raccolse, con la mediazione di alcuni testi più recenti, dall'opera di Vincenzo Cuoco sulla rivoluzione napoletana del 1799, anche se essa proveniva da una lunga vicenda intellet tuale, che risaliva almeno ai Rights ofM an di Thomas Paine e ad altri autori italiani, come Michele Natale e Francesco Lomonaco. Certamente fu colpito dalla dissonanza tra il sostantivo e l'aggettivo, che gli sembrava esprimere un tratto saliente del ciclo delle rivoluzioni borghesi, al cui interno si col locava, in una posizione esemplare e come caso nazionale, il Risorgimento italiano. L'ossimoro del lemma rifletteva lo sviluppo paradossale della tran sizione all'Europa moderna. Da un lato il sostantivo sottolineava il carattere di autentico progresso disegnato dalla storia ottocentesca, conseguito senza la ripetizione di esplosioni violente, con interventi "dall'alto" e ondate rifor mistiche capaci di assimilare alcune esigenze dell'avversario di classe. D'al tro lato l'aggettivo indicava la persistente "passività" delle classi subalterne, le quali, a differenza di quanto era accaduto nei movimenti di tipo giacobino, non avevano partecipato al processo storico, restandone ai margini. Questi due tratti - rivoluzione, passività - detenninano con sufficiente precisione il dominio semantico della formula. In un significato iniziale la teoria delle rivoluzioni passive rappresenta un'articolazione e uno svolgimento del motivo che Marx ed Engels aveva no inaugurato nel Manifesto comunista e che Marx aveva ulteriormente in dagato nei suoi scritti storici. Il carattere «versteckten», latente, del conflitto 8 Rivoluzioni passive di classe in intere epoche della storia, l'immagine dello «Hexenmeister», dello sciamano, «che non riesce più a dominare le potenze degli inferi da lui evocate», la particolarità della lotta sociale che spiana la strada del potere a Luigi Bonaparte: questi e altri nuclei della lettura marxiana della moderni tà tornarono puntualmente nella meditazione di Gramsci e ne costituirono l'orizzonte problematico. Non sorprende, pertanto, che al centro di tutta l'elaborazione del concetto rimanga il confronto con l'opera di Marx, dalla Prefazione del '59 al Capitale, un confronto che Gramsci intraprese nel periodo della detenzione in una forma acuta e creativa, aggiungendovi le suggestioni che provenivano da Machiavelli o da Max Weber, consapevole (come lo era stato Antonio Labriola) del fatto che, per comprendere Marx, non giova ripeterlo o postillarlo ma occorre svolgerne le idee in maniera originale. Scavare dentro i testi di Marx per andare oltre Marx, seguendo le discontinue crepe del tempo storico e le esigenze sempre nuove della lotta sociale e politica, significa non solo essere "marxisti", nel senso autentico dell'espressione, ma penetrare nel livello più profondo della sua concezio ne. Per questo le non infrequenti invettive contro il marxismo (il «Marx critique du marxisme» e il marxismo come «scandalo universale» di cui, per esempio, parlò una volta Maximilien Rubel) rischiano di apparire astrat te e ingenerose, perché la conoscenza dell'opera di Marx rimane viva non solo nella opportuna precisazione filologica dei testi ma anche nel lavoro di rielaborazione che la teoria può e deve compierne. Così come, d'altronde, inesatta e fuorviante è la tesi, tante volte ripetuta dai critici liberali, di un Gramsci che avrebbe costruito un marxismo senza Marx o senza il Capita- le. È vero il contrario: Marx fu il suo classico e la riflessione su Marx costi tuì un impegno costante e irrinunciabile di tutto il suo lavoro intellettuale. Per la teoria delle rivoluzioni passive, come per altri aspetti del suo pensiero, fu decisivo l'incontro di Gramsci con il marxismo di Antonio La briola. Quando la stesura dei Quaderni del carcere iniziò, l' 8 febbraio del 1929, la frequentazione dei testi di Labriola era già di lunga data, risaliva probabilmente al periodo precedente la Grande guerra e si era intensificata negli anni trascorsi a Roma tra il 1924 e il 1926. Nei quaderni, però, assunse un rilievo che è lecito definire eccezionale, perché la riflessione labrioliana sul materialismo storico diventò il simbolo di ciò che il marxismo avrebbe potuto essere e, invece, non era divenuto. Il marxismo attuale era quello di Bucharin, non quello di Labriola. Gramsci assunse da Labriola alcuni temi determinati, dall'idea dell'autonomia del marxismo (per cui il marxismo non è un materialismo né un idealismo, ma una nuova posizione teorica) al progetto di una filosofia della praxis. Li ripensò e modificò in profondità, a Prefazione 9 cominciare dal concetto stesso di praxis, che per Labriola indicava l 'ope razione essenziale del lavoro umano, come mediazione con la natura e co stituzione di un "terreno artificiale", di un distacco della storia umana dalla storia naturale, e in Gramsci acquistò il carattere della ragione politica, della formazione delle volontà collettive e dei soggetti moderni della democrazia. Nel quarto saggio postumo (Da un secolo all'altro) Gramsci poteva leggere una compiuta distinzione tra «storia attiva» e «storia passiva» nell'àmbito di una considerazione complessiva del ciclo delle rivoluzioni borghesi e, in particolare, l'applicazione di questo paradigma alla storia d'Italia e al Risorgimento, con la conclusione che «il risorgimento italiano s'è svolto tutto per entro al secolo decimonono; ma ci si è svolto più nel senso della storia passiva che in quello della storia attiva». Parole che non ricordò nei quaderni, che almeno non trascrisse né commentò in forma diretta, ma che certamente conosceva e ricordava e che, con ogni probabilità, contribuirono alla costruzione del suo modello interpretativo. La filosofia della praxis (formula derivata dal terzo saggio di Labriola sul materialismo storico) costituisce il programma teorico dei Quaderni del carcere e la base di tutta la concezione dell'egemonia, in una relazio ne di fondazione reciproca. L'errore del marxismo della Seconda e della Terza Internazionale era indicato da Gramsci nell'incapacità di sviluppare una propria visione del mondo e della storia, una autonoma.filosofia, re stando perciò a uno stadio rozzo e "corporativo". Il nuovo livello della lotta rivoluzionaria presupponeva la soluzione di questo problema, la ri congiunzione di teoria e prassi, non in un senso astrattamente speculativo ma come teoria della soggettività, della costituzione del soggetto politico moderno, lungo la linea indicata da Marx nella Prefazione a Per la critica dell'economia politica: «come nasce il movimento storico sulla base della struttura?». Ecco la radice della filosofia della praxis e il motivo della ri cerca inquieta sul rapporto fra struttura e superstrutture, scolpito dapprima nella metafora del blocco storico, ripresa da Georges Sorel, poi rielaborato nella più plastica teoria dei "rapporti di forza". La rivoluzione passiva discende dunque dalla concezione dell'egemo nia e ne indica la condizione storica indispensabile. È proprio nella rivo luzione passiva continentale, ossia nel processo storico della rivoluzione borghese, che si afferma una nuova figura dello Stato, uno Stato integrale e allargato, capace di combinare l'elemento politico e quello sociale e di su perare l'antica visione puntuale della sovranità. Fin dal Quaderno 1 Gramsci riconobbe nella immagine hegeliana della bfirgerliche Gesellschaft, nella «società civile», la maggiore scoperta del pensiero politico moderno. Hegel 10 Rivoluzioni passive rappresentava ai suoi occhi non il filosofo della Prussia arretrata e autori taria ma della Rivoluzione francese, della fase espansiva e giacobina del moto borghese europeo. Per questo aveva saputo vedere, meglio di altri, il mutamento morfologico della politica moderna, tutto quello che nella rivo luzione borghese era implicito e destinato a compiersi: a cominciare dalla trasformazione dell'ordine statuale, che nell'epoca dell'unificazione eco nomica del mondo non era più quello disegnato da Bodin o da Hobbes agli inizi dell'età moderna, ma un potere diffuso, molecolare, articolato nei seg menti e nelle pieghe di una larga vita civile, interposta fra la base economica e il vertice governativo. Le rivoluzioni passive sono lo strumento attraverso il quale questa nuova fo~a della politica moderna si diffonde e acquista il carattere della normalità. E in tale processo di lungo periodo che la guerra di movimento si converte nella guerra di posizione e che viene esercitata la pratica dell'egemonia come metodo politico. Vi è dunque un nesso inestri cabile tra teoria dell'egemonia e rivoluzioni passive, al punto che questi due aspetti devono essere considerati unitariamente, l'uno dentro l'altro. La categoria di rivoluzione passiva possiede dunque un significato sto riografico (la transizione) e un preciso senso teorico (I' egemonia). Come tutte le categorie-chiave dei quaderni ha un carattere duplice, analitico e strategico, perché rappresenta al tempo stesso un paradigma di comprensio ne storica e uno strumento di trasformazione pratica. Come osservò Togliat ti nel 1958, Gramsci rimane sempre, anche nelle più complesse riflessioni teoriche, «un politico pratico», «un combattente», tutt'altro che incline alla ricerca disinteressata e, come si cominciò a equivocare (e strapolando una sua espressione) ,fiir ewig. Questo spiega perché, nello sviluppo dei quader ni, il concetto di rivoluzione passiva subisca una prevedibile dilatazione, che riguarda il giudizio del prigioniero sulla sua epoca e sul destino della civiltà europea. Come vedremo, questa dilatazione può essere seguita, grazie al metodo filologico e cronologico, passo dopo passo e nota per nota. La ne cessità di tale sviluppo risiede nel risultato stesso della transizione borghese. Nel suo ciclo espansivo, che Gramsci data tra il 1789 e il 1870, la borghesia aveva provveduto alla mondializzazione dell'economia e ali' edificazione degli Stati nazionali europei. Proprio queste conquiste storiche - gli Stati nazionali e il cosmopolitismo dell'economia-diventano, dopo la svolta di fine secolo, i poli di una contraddizione, le cui espressioni principali sono la Grande guerra e la crisi del '29. Come avevano insegnato Marx ed Engels, il mago borghese «non riesce più a dominare le potenze degli inferi» che ha sollevato dalle viscere della storia. Gramsci scrive nel Quaderno 8 che «la classe borghese è "saturata": non solo non si diffonde, ma si disgrega; non Prefazione 11 solo non assimila nuovi elementi, ma disassimila una parte di se stessa». Lo «spirituale» si distacca dal «temporale», in forme più acute e pericolose rispetto al periodo medievale, perché «i raggruppamenti sociali regressivi e conservativi si riducono sempre più alla loro fase iniziale, mentre i rag gruppamenti progressivi e innovativi si trovano ancora nella fase iniziale appunto economico-corporativa». Perciò «si ritorna alla concezione dello Stato come pura forza», si chiude il ritmo ascendente delle rivoluzioni pas- sive. Secondo la celebre formula del Quaderno 3, «il vecchio muore e il nuovo non può nascere». La necessità del passaggio dall' «individualismo borghese» all '«economia programmatica», indicata nei fogli iniziali del Quaderno 22, denota la trama drammatica della nuova epoca, il bisogno di uscire dalla contraddizione distruttiva instaurata dalla borghesia liberale e di "conguagliare" la ragione politica e lo sviluppo delle forze produttive. Il grande tema del cosmopolitismo di tipo moderno, di un universalismo comunista che promuova l'unificazione del genere umano, per molti versi conclude l'itinerario dei quaderni e rivela la mentalità di fondo del grande recluso. Uscire dalla contraddizione generata dalla borghesia, subordinare la politica-potenza alla politica-egemonia, distinguere industrialismo e capi talismo, riformare la democrazia all'altezza di un mondo unificato, significa anche restituire un senso concreto alla sfera etica, oltre la scissione che, fin dal suo primo apparire, il mondo borghese ha sancito tra morale e politica. La riflessione di Gramsci si muove sempre in una dimensione globale. Sia nell'analisi del ciclo espansivo delle rivoluzioni borghesi sia nella consi derazione del tempo presente il problema nazionale rappresenta il risultato di combinazioni internazionali, di un processo storico universale che, sul piano della teoria, è raffigurato dal principio di traducibilità. Tra «punto di partenz.a» nazionale e «prospettiva internazionale», come scrisse nel Quaderno 14, il rapporto è reciproco, circolare e inestricabile. Alla base di questa visione glo bale rimane la consapevolezza della crisi irreversibile dello Stato nazionale moderno, che rappresenta il motivo di fondo della critica al pensiero politico liberale e l'orizzonte di tutta la sua elaborazione. Chiudere Gramsci nella sfera nazionale significherebbe non comprendere i motivi ultimi e più radicali della sua riflessione. La ricerca di nuove forme politiche sovranazionali, orientate dal principio di interdipendenza, guida quella indagine sul mutamento mor fologico della politica moderna che costituisce il cuore pulsante dei quaderni e che, possiamo aggiungere, non ha equivalenti, in termini di drammatica consapevolezza del problema contemporaneo, nel pensiero politico europeo degli anni Trenta del Novecento. Dopo la morte di Max Weber (il 14 giu gno 1920), con la cui opera Gramsci intrattenne un rapporto significativo, 12 Rivoluzioni passive le grandi correnti teoriche, da Croce a Carl Schmitt, fallirono nel compito di individuare nel tramonto della sovranità nazionale e nella contraddizione con l'economia globale la radice della crisi attuale. Non così Gramsci, che proprio quel nodo collocò saldamente al centro della sua ricerca. La realtà degli anni Trenta del Novecento, quella in cui sviluppò la te oria delle rivoluzioni passive, mostrava il limite estremo a cui era giunta la divisione del genere umano, il punto in cui la contraddizione fra cosmopo- litismo dell'economia e nazionalismo politico aveva conseguito la tensione più drammatica. Nessuna delle «grandi potenze» - l'Europa, l'America, la Russia sovietica - sembrava in grado di esercitare una funzione egemonica, di compiere il passo decisivo in direzione di una «economia programmati ca». La decadenza della vecchia Europa, l'affermazione dei fascismi e l 'e mergere del nazionalsocialismo, spalancava il vortice di una crisi organica globale, dentro cui Gramsci non mancò di presagire le ombre inquietanti di nuova guerra e distruzione. Una rivoluzione passiva, come quella che aveva guidato la modernizzazione dell'Europa, avrebbe richiesto la capacità, da parte delle classi dirigenti, di assimilare e svolgere "dall'alto" le innovazio ni che il movimento operaio aveva introdotto nella storia mondiale. Ma la borghesia, declinata nel «langer Katzenjammer» (Marx), nella «lunga nau sea» della sua odissea, non trovò l'energia per un tale compito e precipitò l'umanità in un 'altra e più grande epoca di devastazione. M.M. La prima idea di questo saggio è derivata dall'invito a partecipare a un convegno internazionale di studi su Walter Benjamin and Antonio Gramsci. Dialectic ofa Mzs sed Encounter - Actuality ofa Comparison., che avrebbe dovuto svolgersi., nell'àm bito delle attività dell'Associazione Walter Benjamin., nell'ottobre 2020 e che, per il diffondersi della pandemia di Covid-19, è stato poi celebrato presso la sede di Villa Sciarra dell'Istituto Italiano di Studi Germanici il 25-27 novembre 2021. Desidero ringraziare Elettra Stimilli., Dario Gentili e Gabriele Guerra per l'invito, che mi ha dato l'occasione di approfondire questo tema. La dilazione della data del convegno e il confinamento a cui siamo stati costretti hanno detenninato una estensione sempre maggiore di quella che, nel proposito iniziale., doveva costituire solo una relazione congressuale. Ho pertanto deciso di proporre i risultati della ricerca in questo libro. Ringrazio Giuseppe Vacca per avere letto il manoscritto della prima stesura di questo lavoro., permettendomi., con i suoi consigli., di migliorarne diverse parti. Rivoluzioni passive Il mondo tra le due guerre nei Quaderni del carcere di Gramsci 1. I «paesi che ammodernarono lo stato» Gramsci adoperò per la prima volta la formula della "rivoluzione pas siva" in una nota della sezione miscellanea del Quaderno 4, alla carta 34r, che non venne ripresa o rielaborata nei successivi quaderni «speciali» .1 Tuttavia, nel periodo in cui si dedicò alla stesura degli «speciali» (presumi- bilmente nel 1932, quando lavorò ai Quaderni 10 e 11),ne cancellò il testo con larghi tratti di penna, considerandolo, in maniera caratteristica, alla stregua di una prima stesura. 2 Con ogni probabilità, il testo faceva parte di un gruppo di 29 note dedicate a Gli intellettuali, come risulta dal titolo indicato, con caratteri corsivi più grandi, in capo al lungo paragrafo iniziale della miscellanea, poi rielaborato in seconda stesura nel Quaderno 12.3 Si trattava, d'altronde, di un tema già enucleato nel saggio del 1926 sulla que stione meridionale e ulteriormente focalizzato nel § 43 del Quaderno 1.4 La 1. Nella edizione critica del 1975, Valentino Gerratanariportò lanotain corpo minore, classificandola nell'apparato critico come «testo A» e aggiungendo queste parole: «non risulta però ripreso nei testi C (inedito)». Cfr. A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, 4 voli., Torino,Einaudi, 1975, p. 504 e p. 2654. La nota, indicata da Gerratana come § 57 del Quaderno 4, non era stata inserita nell. . edizione tematica, apparsa per Einaudi a cura di Felice Platone tra il 1948 e il 1951. 2. A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione anastatica dei manoscritti a cura di G. Francioni, 8 voli., Cagliari, L .. Unione sarda, 2009, p. 85 {Q4, c. 34r). 3. Ivi, p. 39 (Q4, c. llr). 4. A. Gramsci, Note sul problema meridionale e sull atteggiamento nei suoi corifronti I dei comtmisti, dei socialisti e dei democratici, in L. Sturzo, A. Gramsci, Il Mezzogiorno e l'Italia, a cura di G. D'Andrea e F. Giasi, Roma, Studium, 2013, pp. 161-196 (con una importante Introduzione di Giasi alle pp. 139-159). Il tema degli intellettuali, indicato nel

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