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Questione della lingua PDF

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Claudio Marazzini Questione della lingua Enciclopedia dell'Italiano 2011 Indice: 1. Definizione, origine e limiti 2. La questione della lingua nel Cinquecento 3. Dal Seicento a Manzoni 4. Dall’Unità alla metà del Novecento 5. Dagli anni Sessanta a oggi Studi 1. Definizione, origine e limiti Per contrastare l’interpretazione riduttiva della questione della lingua, considerata come un dibattito sulle varie denominazioni fiorentino, toscano, lingua comune o italiano, cioè equiparata a un’oziosa disputa nominalistica, si può ricordare il parere di Antonio Gramsci: Ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la quistione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l’egemonia culturale (Quaderni del carcere, Quaderno 29, § 3) Gramsci, in questa riflessione, si riferiva soprattutto alle tesi di Alessandro Manzoni, che collegava al dibattito della prima metà del Novecento. Poco oltre affermava (ibid.: § 7) che il De vulgari eloquentia di Dante era da intendere come un atto di politica culturale-nazionale (pur nel senso che la parola nazionale aveva al tempo di Dante), e che «un aspetto della lotta politica è stata sempre quella che viene chiamata ‘la quistione della lingua’che da questo punto di vista diventa interessante da studiare». Essa, nell’interpretazione di Gramsci, era consistita nella «reazione degli intellettuali allo sfacelo dell’unità politica» e «alla disintegrazione delle classi economiche e politiche», al fine di «conservare e anzi rafforzare un ceto intellettuale unitario, la cui esistenza doveva avere non piccolo significato nel Settecento e Ottocento (nel Risorgimento)». Collocandosi a mezza strada tra l’affascinante interpretazione integralmente ‘politica’ di Gramsci e quella nominalistica riduttiva, è possibile affermare che la questione della lingua è in sostanza il lungo dibattito attorno alla norma e all’identità dell’italiano, quale si è concretizzato nella trattatistica, da Dante in poi (in questa forma la materia è stata trattata in Vitale 1978, che è il riferimento specifico più autorevole; si veda anche Marazzini 2009), e quale ancora si svolge non di rado anche oggi, quando si riapre in qualunque modo la discussione su temi come: i destini dell’italiano, i suoi caratteri costitutivi, il suo ruolo di lingua ufficiale o nazionale, la lingua nella scuola, i rapporti con i dialetti, con le lingue di minoranza o con le lingue straniere. Vi rientrano le relazioni tra italiano e fiorentino, la definizione della norma linguistica (anche le questioni di grafia e i tentativi di riforma ortografica), la distanza maggiore o minore che si vuole interporre tra scritto e parlato, l’uso della lingua antica o la preferenza per la modernità, l’adozione o il rifiuto di novità lessicali, il rapporto tra uso letterario e uso corrente della lingua. Le ragioni di un dibattito così ampio stanno in parte nella natura stessa della lingua, al di là della specificità italiana, perché sempre e dovunque esistono differenze tra scritto e parlato, ed è normale che il livello elevato, letterario e colto, si contrapponga all’uso corrente. Tuttavia, alcune ragioni del dibattito sono da ricondurre alle caratteristiche specifiche della storia d’Italia, paese in cui la lingua si è splendidamente sviluppata in assenza di uno Stato politico, come strumento pressoché esclusivo di una comunità di dotti e di letterati. I rapporti con il popolo, nella sua complessa stratificazione sociale, si sono resi necessari solo quando già esisteva una possente tradizione letteraria. Da ciò emerge quanto possa essere vasta la questione della lingua, intesa nella sua valenza letteraria e sociale, e come possa costituire parte rilevante dell’intera storia nazionale (non solo di quella linguistica), in riferimento alle idee sulla lingua, alla politica scolastica, oltre che alle scelte di intellettuali e scrittori messe in atto per fini d’arte. In gran parte, comunque, la definizione di questione della lingua si applica a un dibattito teorico, e potrebbe essere rimpiazzata dall’espressione teorie sulla lingua italiana (cfr. Marazzini 1993). Va precisato, infine, che la questione della lingua non è esclusiva dell’Italia. Basti pensare alla Francia, dove prese corpo nel Cinquecento il tentativo di vantare la (supposta) vicinanza del francese al greco, dove l’Académie française assunse la funzione di istituto garante e custode della lingua, dove si identificò la buona lingua nel miglior uso della corte reale, e dove poi alcune teorie settecentesche attribuirono alla costruzione sintattica del francese il primato universale della razionalità logica, dunque il primato sulle altre lingue. La Francia fu anche il paese in cui si crearono le basi del cosiddetto giacobinismo linguistico, avverso alle parlate locali. Un altro confronto interessante può essere istituito con la Grecia, un paese costretto a fare i conti, a partire dall’indipendenza ottenuta nell’Ottocento, con una grande tradizione: qui la questione della lingua si è sviluppata nel confronto tra la katharèvousa, la lingua «pura», arcaica, simile al greco antico, e la lingua popolare, la dimotikì, esito normale della koinè ellenistica. Lo scontro tra i fautori delle due diverse soluzioni è stato talora molto forte, fino al prevalere della lingua popolare, per decisione politica, nel 1976, al momento della proclamazione della nuova Repubblica. Dunque, anche in altre nazioni si è discusso di lingua. Tuttavia in Italia il dibattito si è caratterizzato per la maggior durata e per la speciale vitalità, almeno a partire dal Cinquecento. Quanto alla data di inizio, può esser giudicato discutibile l’inserimento nella questione della lingua delle teorie di Dante esposte nel De vulgari eloquentia, non per la pertinenza dei contenuti, innegabile, ma per la semplice ragione che l’opera non suscitò un dibattito, in quanto non risulta abbia avuto interlocutori, almeno fino al XVI secolo. Quanto alle discussioni tra umanisti a proposito dell’origine del volgare e delle sue eventuali possibilità di miglioramento qualitativo, esse possono forse essere assunte come punto di avvio della questione della lingua, perché vertono sul confronto tra italiano e latino, quindi segnano la prima definizione delle qualità che si richiedono al volgare per raggiungere la perfezione. Anche Dante aveva confrontato volgare e latino, soppesando i vantaggi dell’uno e dell’altro, ma, come si è detto, la sua posizione è quella di un gigante solitario, mentre la questione della lingua, per essere tale, richiede un dibattito, la cui pienezza si raggiunse appunto nel primo Cinquecento, secolo che, assieme all’Ottocento, rappresenta il momento culminante di queste discussioni. 2. La questione della lingua nel Cinquecento Le Prose della volgar lingua di Pietro Bembo, pubblicate nel 1525, sono il libro in cui meglio si valuta il confronto fra le diverse teorie linguistiche che allora si fronteggiavano. Occorre tuttavia premettere che la discussione sulla ‘lingua migliore’ aveva investito in precedenza il latino, e ciò costituisce una fondamentale premessa. Già nel Quattrocento, Paolo Cortese aveva avuto una disputa con il Poliziano, fautore di un modello stilistico eclettico che attingeva ad autori latini di varie epoche. Cortese, per contro, fissò alcuni punti della teoria dell’imitazione dello stile ciceroniano. Pietro Bembo, prima di essere protagonista della questione della lingua per l’italiano, discusse con Giovanni Pico della Mirandola sul modello da

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