Il libro S e è vero che la Chiesa è, come dice papa Francesco, un «ospedale da campo» che deve occuparsi anche dei corpi, è altrettanto – se non più – vero che la sua missione primaria è prendersi cura della salvezza delle anime e dei bisogni spirituali dei credenti. Perché, parola di Gesù, «non di solo pane vive l’uomo». Per aiutarci a ricordare questa dimensione trascendente, l’Aldilà ci invia dei «segni», a volte grandi e vistosi (i miracoli, le apparizioni), a volte piccoli e privati, che spesso trascuriamo di interpretare, preferendo parlare di «coincidenze», di «casualità», magari di «eventi bizzarri». Dunque, non è che il Cielo non ci parli: siamo noi a essere sordi. E non è che Dio non si mostri: siamo noi a essere ciechi. In pagine singolari e avvincenti, in cui si scopre l’atmosfera della confessione personale, Vittorio Messori racconta – non certo da visionario ma da cronista legato ai fatti oggettivi e da studioso razionale qual è – alcuni «segni» ricevuti nel corso della vita. La telefonata rassicurante ricevuta dallo zio defunto a un anno esatto dalla morte. L’«inesistente» e insieme concreta ragazza tedesca che ristorò il padre soldato, addestrato duramente in Germania. Il benefico incontro a Torino sui «murazzi» del Po, in un momento di sconforto, con un enigmatico pensionato, svanito poi nel nulla. Il messaggio affidato in sogno alla domestica di casa con cui il beato Francesco Faà di Bruno – marchese e scienziato, che nell’Ottocento dedicò la sua vita a soccorrere le vere proletarie dell’epoca, le «serve» – invitava Messori, suo biografo e devoto, a partecipare a un convegno di particolare importanza. Ma ecco «segni» celesti ancor più evidenti, riconoscibili in figure come Padre Pio, che, per diretta esperienza dell’autore, aveva anche il dono di far giungere a destinazione lettere appena scritte, o come la mistica austriaca Maria Simma, con lo straordinario carisma di incontrare ogni notte le anime del purgatorio. Nel sollecitare il lettore a decifrare – e a confidare senza timore agli altri – la natura soprannaturale dei «piccoli misteri quotidiani» in cui ciascuno di noi si imbatte nella propria esistenza, Messori rende testimonianza alla verità della celebre massima di Blaise Pascal: «L’ultimo passo della ragione umana è riconoscere che vi è un Mistero con una infinità di cose che la superano». L’autore Di Vittorio Messori, questo è il ventiquattresimo libro, tutti su temi religiosi e quasi tutti tradotti in molte lingue. Anticlericale per tradizione familiare e agnostico per gli studi nelle scuole torinesi, dove si è laureato in scienze politiche, è diventato, a sorpresa, il più noto apologeta cattolico non solo italiano, vista la diffusione internazionale dei suoi scritti. Il suo colloquio con Giovanni Paolo II (Varcare la soglia della speranza, Mondadori 1994) è stato tra i maggiori best seller della storia editoriale, uscito in una cinquantina di lingue. Vittorio Messori QUANDO IL CIELO CI FA SEGNO Piccoli misteri quotidiani Quando il cielo ci fa segno Il mondo dello Spirito non è sbarrato. È il nostro cuore a essere chiuso. JOHANN WOLFGANG GOETHE I Pane e Paradiso Questo è un piccolo libro che – partendo da esperienze mie, ma che ciascuno (ne sono certo) ha vissuto e vive, pur a suo modo – azzarda qualcosa sulle realtà più grandi. Poco più che un promemoria, un taccuino che prende l’avvio anche da una esortazione del cardinale Carlo Caffarra, arcivescovo emerito di Bologna, recentemente passato a miglior vita: «È d’urgenza drammatica che la Chiesa ponga fine al suo silenzio circa il Soprannaturale». È un avvertimento che condivido e che mi ha ricordato un’altra frase, altamente significativa, del testamento spirituale di un altro cardinale, l’arcivescovo di Magonza Karl Lehmann, per molti anni presidente della Conferenza episcopale tedesca. Fu uno dei principali rappresentanti del progressismo cattolico postconciliare, discepolo di Karl Rahner, difensore di Hans Küng, anima della corrente più «aperta» della gerarchia non solo tedesca. Più volte manifestò – sia pubblicamente che privatamente – il suo dissenso nei riguardi del pontificato di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. Il cardinale Lehmann è morto nel marzo scorso e solo dopo la sua scomparsa è stato reso noto il testamento spirituale di cui dicevo. Qui, dopo avere ringraziato Dio per i doni ricevuti, scrive una frase sorprendente per un porporato fautore dell’adeguamento dei cattolici al mondo in nome dei tanto spesso invocati «segni dei tempi». Scrive, dunque, Sua Eminenza Lehmann avvicinandosi alla morte: «Tutti noi, anche nella Chiesa, ci siamo immersi nel mondo e abbiamo sepolto e occultato l’Aldilà. Questo vale pure per me. Ne chiedo perdono a Dio e ai fratelli nella fede». In effetti – ormai da decenni – non molti, tra il clero, ricordano ai fedeli la realtà principale, il dono più prezioso della Rivelazione evangelica: la vita sulla Terra come preambolo alla vita gioiosamente eterna, la «valle di lacrime» che si allargherà per sempre nella gloria della visione di Dio. Queste pagine vorrebbero contribuire a rompere un silenzio che contrasta gravemente con il ruolo che il Cristo ha affidato alla sua Chiesa: da tempo, il cristianesimo pur benemerito e necessario ma «secondario» (quello delle opere di bene per migliorare la vita terrena) sembra precedere e magari oscurare quello essenziale, il cristianesimo «primario» (quello dell’annuncio del Vangelo per la salvezza delle anime). Come conferma anche il Codice canonico, la salus animarum è la suprema lex della Chiesa cattolica – ci ritorneremo nell’ultimo capitolo –, Chiesa che non è una multinazionale o una ONG fondata e gestita da filantropi generosi, da sindacalisti che rivendicano eguaglianza sociale, da politici di buoni sentimenti, magari da fervorosi ecologisti. Non occorre la fede per aiutare a fronteggiare i mali materiali del mondo: agnostici e atei ci hanno dato e ci danno, in questo, opere e impegno esemplari. La Chiesa come «ospedale da campo»? L’immagine, suggestiva è, come noto, di papa Francesco. E non sarò certo io – ego, parvus et laicus – a ricordare al successore di Pietro ciò che egli di sicuro sa bene. Io cerco solo di spiegare le cose a qualche cattolico che equivocasse, per evitare malintesi sul significato di quella immagine «sociale» cara al Vescovo di Roma. Immagine suggestiva, dicevo, ma anche potenzialmente ricca di molti significati, alcuni dei quali inesatti. E dunque: se la Chiesa ha da essere un ospedale, lo sia, anche per curare i corpi e per venire incontro ai bisogni materiali, ma innanzitutto per prendersi cura delle anime, spesso malate, e dei loro bisogni spirituali. Il Figlio del Dio Padre si sarebbe incarnato e sarebbe morto in croce perché i suoi seguaci facessero ciò che il «mondo» può fare (e sempre più spesso fa) da solo e sovente con successo? La filantropia, la compassione, l’aiuto ai miseri precedono il cristianesimo e furono predicati da filosofi greci e romani (la chiamavano humanitas, compassio, misericordia, caritas, pietas) e messi spesso in pratica da sacerdoti e devoti pagani se non, talvolta, dagli imperatori stessi. Giuliano detto l’Apostata mostrò – pur interrotto dalla morte precoce – che anche i credenti negli dèi dell’Olimpo potevano praticare un’attenzione per gli uomini e i loro bisogni simile a quella cristiana. Seneca – che non a caso, secondo una tradizione, seppur molto discussa, avrebbe scambiato con san Paolo alcune lettere colme di empatia – raccomanda la beneficenza (beneficium) e l’impegno per alleviare le sofferenze materiali di ogni uomo. Nell’islam la beneficenza per i bisognosi è tra i cinque precetti fondamentali, è uno dei pilastri della fede in Allah. La Catholica diverrebbe una semplice istituzione umana, una fra tante, se volesse affiancarsi o gareggiare – per citare l’esempio più importante – con la specialista per eccellenza degli «ospedali da campo», la Croce rossa internazionale. Questa prese nome e stendardo – ingannevoli! – dall’inversione dei colori della bandiera svizzera con la croce al centro, ma solo perché Henri Dunant (che era un massone militante, non a caso le Logge hanno sempre rivendicato l’istituzione come «cosa loro») era ginevrino. Ma dall’inizio sino a oggi, la CRI dichiarò e difese la sua laicità rigorosa e il totale agnosticismo religioso: si volevano medici e infermieri, non preti o pastori, si cercava sapienza medica, non teologica. Anzi, per marcare ancor più la distanza dal cristianesimo, di recente l’istituzione ha deciso di togliere la croce per sostituirla con un rombo rosso. Nei Paesi islamici il simbolo è da sempre la mezzaluna di Muhammad. Fino a qualche decennio fa, era scontato che la Chiesa dovesse fare ciò che ella sola può fare e che nessuna istituzione umana potrà mai fare: il kérygma, cioè l’annuncio della Buona Novella superiore a ogni altra, il Cielo che attende per l’eternità chiunque lo desideri e si sforzi per meritarlo. Per sorreggere i fedeli nella strada verso questa meta meravigliosa, alla Chiesa spetta l’amministrazione dei sacramenti, su cui primeggia il maggiore (e il più nascosto) dei miracoli nel mondo, quello eucaristico. Certo: come ci ricorda Paolo, al vertice di ogni azione cristiana c’è la carità. Ma per i credenti nel Cristo (che non venne per cambiare governi e leggi bensì, uno a uno, i cuori degli uomini) la carità spirituale deve precedere quella materiale, che altro non è che una conseguenza spontanea della fede: il bien croir, il credere bene, osserva Blaise Pascal, porta necessariamente al bien agir, alle opere buone. Fede e carità sono inscindibili. Ma nell’ordine. Prima la carità per l’anima e per le miserie spirituali, poi la carità per i corpi e per le miserie materiali e le ingiustizie sociali. Qualcuno può replicare: e come la mettiamo con i grandi santi