MINETTE WALTERS PROVE SEPOLTE (Disordered Minds, 2003) a Benson e Hedges Nessun uomo è così buono da essere libero dal male, né così mal- vagio da non valere nulla. Michael Crichton 1 Colliton Park, Highdown, Bournemouth Lunedì 4 maggio 1970, ore 13.30 Non era granché, come parco: un quarto di ettaro di prato avvizzito vici- no a Colliton Way, dove la gente portava a spasso il cane la mattina e la sera. Durante il giorno non ci andava quasi nessuno, a parte bande di ra- gazzini che marinavano la scuola e, quando commettevano qualche piccolo reato, poi andavano a nascondersi fra gli alberi. La polizia non ci passava mai e in ogni caso i piccoli delinquenti lasciavano sempre un centinaio di metri di spazio aperto tra dove si nascondevano e l'unico ingresso. Nel tempo che avrebbe impiegato un poliziotto di quartiere sovrappeso a per- correrli, i ragazzi avrebbero avuto l'agio di filarsela saltando oltre le siepi ed entrando nei giardini delle case confinanti con il parco. Siccome, quan- do questo avveniva, i proprietari delle case facevano scoppiare un pande- monio, la polizia preferiva non complicarsi la vita e lasciare in pace i de- linquentelli con la scusa che, mentre erano nel parco, non facevano nulla di male. Insomma, era meglio chiudere un occhio e concentrarsi piuttosto sui reati commessi nelle vie del centro: nella cinica mentalità della polizia, oc- cuparsi di minorenni sbandati era all'ultimo posto nella lista delle priorità. Colliton Way, nella parte più povera di Highdown, aveva ben poche at- trattive. I disoccupati erano tanti e i ragazzi che andavano a scuola pochi. Quasi tutti i cantieri che erano stati aperti nella zona, con le loro promesse di nuove case e nuovi posti di lavoro, avevano chiuso i battenti. L'unico ancora in attività era quello della Brackham & Wright, una fabbrica di macchine utensili che stava per trasferirsi dallo stabilimento ormai anti- quato in Glazeborough Road in una nuova sede più moderna. Se i molti suoi dipendenti che abitavano a Colliton Way avrebbero dovuto rallegrarsi del miglioramento, la paura di perdere il lavoro era forte perché automa- zione e moderne tecnologie in genere portavano a una riduzione del perso- nale. Tra i frequentatori abituali del parco c'erano soprattutto tre ragazzoni, simpatici finché nessuno li contraddiceva e pericolosamente violenti quan- do la loro autorità veniva messa in discussione. Giravano spesso con un codazzo di teppistelli che facevano a gara per conquistarsi la loro attenzio- ne e sottovalutavano la loro crudeltà, non rendendosi conto di quanto fos- sero disturbati. E come avrebbero potuto insospettirsi, peraltro, visto che neppure i diretti interessati avevano coscienza dei propri problemi? Sape- vano a malapena leggere e scrivere, cercavano gratificazioni immediate e non avevano il minimo controllo sui propri impulsi aggressivi, benché si illudessero di essere padroni della propria vita. Quel lunedì di maggio era simile a tanti altri nella sua inutilità. Le madri dei tre ragazzi erano talmente abituate al fatto che i figli non andassero a scuola che non si preoccupavano più neppure di tirarli giù dal letto la mat- tina. Meglio non disturbare il can che dorme, pensavano, piuttosto che ri- schiare di prendere delle botte dai figli ormai grandi e grossi. I ragazzi non potevano svegliarsi presto: tornavano a casa a ore inconsulte, quando ci tornavano, e talmente ubriachi da cadere praticamente in catalessi. Tutte e tre le loro madri si erano rivolte ai servizi sociali, chi prima e chi dopo, chiedendo che i figli venissero seguiti, ma la loro determinazione era sva- nita molto presto, a causa sia del timore di rappresaglie sia di un concetto sbagliato di amor materno. Se ci fosse stato un uomo in casa, probabilmen- te le cose sarebbero andate diversamente, ma visto che non c'era le tre ma- dri facevano quello che dicevano i figli. Quel giorno i tre avevano attaccato discorso con due ragazzine tredicen- ni che avevano incontrato in centro e portato al parco. Non erano tanto in- teressati alla più magra, che era con il fratellino di dieci anni, quanto all'al- tra, già sviluppata e con lo sguardo seduttivo. Le ragazzine erano sedute una di fronte all'altra su una panchina, con il mento appoggiato sulle gi- nocchia e i piedi che si toccavano, mentre i quattro maschi si erano messi per terra per poter guardare loro le mutandine. Stivali al ginocchio, mini- gonna e maglia all'uncinetto che lasciava intravedere il reggiseno nero, le due ragazzine erano perfettamente consapevoli del proprio potere ed era chiaro che la cosa le divertiva. Parlavano fra loro di sesso, ignorando deli- beratamente i maschi. La reazione di questi fu fiacca: per un po' si passarono una bottiglia di vodka rubata facendo finta di niente, poi, visto che non si andava da nes- suna parte, cominciarono ad annoiarsi. La ragazzina più magra, irritata dal fatto che nessuno dimostrava interesse per lei, li prese in giro dicendo che erano vergini, ma la più alta, Cill, si voltò, posò i piedi per terra e si siste- mò meglio la gonna sul sedere. «Che barba!» disse. «Dai, Lou, torniamo in centro.» L'amica, che pareva un suo clone minuto e denutrito, con gli occhi truc- cati di nero e le labbra di rosa, la imitò, alzandosi in piedi e aggiustandosi la gonna. Avevano adottato lo stile di Cathy McGowan, la conduttrice del loro show televisivo preferito, Ready, Steady, Go!, che portava cinture basse sui fianchi e i capelli stirati con una lunga frangia sugli occhi. A Cill, che aveva un bel viso, quel taglio donava. Lou, invece, che era magra co- me Twiggy, avrebbe voluto portarli corti e sparati, ma Cill non glielo per- metteva. La loro amicizia prevedeva che si assomigliassero, per quanto po- tevano assomigliarsi una tredicenne già donna e una che doveva imbottirsi il reggiseno con la carta igienica. «Vieni o no?» disse Cill al fratellino di Lou, dandogli un calcetto. «Se ti beccano, sai quante te ne dà tuo padre, Billy? Te lo dico io.» «Mollami», borbottò il ragazzino, annebbiato dall'alcol. «Gesù!» Quando beveva, le veniva voglia di attaccar briga. Guardò con disprezzo i ragazzi stesi sull'erba. «Voi maschi fate pena. Io e Lou abbia- mo bevuto quanto voi, ma mica siamo ridotte così!» «Sta' attenta», minacciò uno dei ragazzi. Non era il più alto, ma aveva i capelli e gli occhi scuri e a lei ricordava Paul McCartney. Un altro, rosso di capelli e con le lentiggini, posò una mano sulla coscia di Lou e gliela strinse con forza. «Troia!» La ragazza strillò e si scostò da lui, mollandogli una sberla. «Verginello, verginello!» lo sfotté. «Non te la dà nessuna, perché sei troppo brutto.» Il rosso l'afferrò per una caviglia e la ragazza urlò a Cill di darle una mano. «Ahia! Mi fa cadere!» La ragazza più alta gli avvicinò uno stivale al petto. «Molla la mia ami- ca.» Lui la lasciò andare e fece un gran sorriso. «Cos'altro vi aspettate, se an- date in giro conciate così?» La ragazza gli puntò il tacco sul capezzolo. «Ridillo.» Il ragazzo era già entrato nell'adolescenza, aveva qualche pelo sopra il labbro e l'acne sul collo. Ubriaco com'era, non aveva nessuna intenzione di lasciarsi intimidire da una ragazza. «Sei una troia cicciona e ti sei fatta chiavare talmente tanto che nella fica ti ci entra un'automobile», biascicò. «Vuoi che te lo dimostri?» I suoi due amici si misero proni a osservare la scena con occhi accesi. Una ragazza più esperta avrebbe capito che non era un buon segno, ma Cill era troppo giovane. Spostò il peso in avanti e gli piantò il tacco nel torace, prima che lui la afferrasse. «Non darmi mai più della cicciona o la prossi- ma volta il tacco te lo pianto sull'uccello.» Il ragazzo si portò le mani sul petto. «Mi hai fatto male!» «Certo, cosa credevi?» Fece un cenno all'amica e si incamminò. Ma Lou non poteva scappare così facilmente. Era intrappolata fra i ra- gazzi e la panchina e, quando quello con i capelli scuri le saltò addosso, perse l'equilibrio. Il ragazzo l'afferrò per i polsi e la fece cadere a braccia larghe sull'erba. Nel sentire le sue grida terrorizzate, Cill tornò indietro di corsa. Le loro madri avrebbero dovuto avvertirle che giocare con il testo- sterone è pericoloso, invece l'unico consiglio che avevano saputo dare loro era stato: se ti vesti da troia, prima o poi qualcuno ti violenta e a quel pun- to la colpa è tua. Benché si credesse molto esperta, in realtà Cill era la più ingenua delle due. Spinta da una sorta di istinto animalesco, Lou cadde in uno stato cata- tonico, perdendo immediatamente interesse agli occhi dei tre adolescenti eccitati. Cill invece, ribellandosi, attirò su di sé tutta la loro aggressività. Chiamò Billy perché le desse una mano, ma il bambino, che aveva solo dieci anni ed era ubriaco, non riuscì a fare altro che coprirsi la faccia con le mani. Fu solo quando i tre ragazzi la presero per i capelli e la portarono fra gli alberi che Cill si arrese. Sentì un dolore atroce che le fece scendere le la- crime lungo le guance truccate, più intenso di qualsiasi altro dolore avesse mai provato. La volevano tutti e tre e fecero a turno. Quello con i capelli scuri la violentò due volte. Cill era troppo piccola per sapere che cosa fos- se un trauma psicologico, ma i vestiti tanto amati e desiderati ridotti in brandelli, il sudore, il calore e lo schifo, le espressioni lubriche e trionfanti dei suoi violentatori le provocarono danni ben più profondi della loro pe- netrazione maldestra e di breve durata. «Così non mi puoi più chiamare 'verginello'», disse il rosso rialzandosi e tirandosi su la cerniera. Quello con i capelli scuri le sferrò un calcio. «Se vai alla polizia, ti ripe- tiamo il trattamento. Hai capito, cretina?» Con un tardivo istinto di autoconservazione, Cill chiuse gli occhi per non vederli. Sapeva come si chiamavano, ma non avrebbe fatto nomi. Suo padre l'avrebbe ammazzata, se avesse saputo che era stata stuprata, e la po- lizia non le avrebbe creduto. Era pieno giorno in un parco di Bournemouth e nessuno era corso in suo aiuto. Si chiese se la strada era davvero troppo distante perché nessuno avesse visto quel che era successo, e nello stesso tempo si rimproverò di essersi vestita troppo sexy. Sua madre aveva ragio- ne, se l'era andata a cercare, quando in realtà quello che voleva era solo es- sere carina. Lou le si avvicinò sull'erba. «Se ne sono andati», le sussurrò, prendendo- la per mano. «Tutto bene?» Nooo! Quell'urlo le riecheggiò nella testa per giorni. «Sì. E tu?» La ragazzina si rannicchiò in posizione fetale e le posò la testa sulla spalla. «Tuo padre ti fa nuova, quando lo viene a sapere.» «Mica glielo dico.» «E se resti incinta?» «Abortisco.» «Vedrai che Billy a mia mamma lo dice.» «Lo ammazzo, se apre bocca.» Allontanò Lou con uno spintone e si tirò su a sedere. «Dov'è?» «Laggiù.» Lou indicò con la testa la panchina. «Non avresti dovuto pro- vocarlo, Cill. Mia madre dice che se un uomo si arrabbia, è sempre colpa della donna.» Cill si strinse la maglietta strappata sul petto, coprendosi il seno, e si guardò le cosce sporche di sangue. Non aveva bisogno di prediche, ma di riuscire a tornare a casa senza farsi vedere. Prese una ciocca di capelli di Lou e se la arrotolò sul pugno, tirandogliela con forza. «Non sarebbe suc- cesso niente, se tu non gli avessi dato del 'verginello'. Adesso cosa vuoi fa- re: mi aiuti o mi lasci di nuovo nella merda?» Lou si mise a piangere. «Ahi, mi fai male», disse. «Lo so», replicò Cill senza la minima emozione. «Non è colpa mia, se è successo.» «Sì, invece. È colpa tua che li hai presi in giro e gli hai detto che erano vergini. Sei un'idiota, Lou, e una stronza, perché non hai fatto niente per fermarli.» «Avevo paura.» «Sapessi io... Però io sono tornata indietro, quando ti sei messa a urla- re.» Lou scrollò le spalle. «Avrebbero violentato anche me. Non serviva a niente.» «È vero», disse Cill tirandole con forza un altro ciuffo di capelli. «Ma ti faccio di peggio, se tu o Billy fate la spia.» Guardò Lou negli occhi: tutte e due li avevano pieni di lacrime. «Hai capito? Perché se mio padre si prova a picchiarmi di nuovo, io me ne vado... e non torno mai più.» Il fatto che le due ragazzine non fossero più amiche come prima non passò inosservato né alle famiglie né ai professori. Il padre di Louise Bur- ton cercò di capire perché, ma lei, che continuava a insistere per farsi ta- gliare i capelli, rispose con un'alzata di spalle che Cill aveva un'altra ami- ca. Billy usciva dalla stanza ogni volta che si parlava di Cill, ma ai genitori non venne in mente che potesse sapere qualcosa. Forse la cosa non li inte- ressava abbastanza da indagare a fondo. Oltre tutto, libera dall'influenza di Cill, Louise aveva ricominciato a vestirsi come si deve e aveva smesso di marinare la scuola. Ai genitori di Priscilla Trevelyan la rottura di quell'amicizia risultò al- trettanto gradita. Con l'inizio dell'adolescenza la loro figlia era diventata più prepotente e il fatto di avere sempre appresso Louise Burton che la i- mitava in tutto peggiorava la situazione. Il signor Trevelyan, deluso che Cill fosse una scansafatiche e turbato dal fatto che si fosse sviluppata così in fretta, cercava di tenerla a bada con una severa disciplina e, benché evi- tasse di dirlo forte, fu ben contento che avesse smesso di frequentare Loui- se. E, pensando che il modo migliore per fargliela dimenticare del tutto fosse parlarne il meno possibile, proibì addirittura alla moglie di consolar- la. Interpretò i malumori della figlia come un effetto della rottura di quell'amicizia e non se ne preoccupò particolarmente, tanto più che Priscil- la aveva smesso di saltare la scuola. I professori erano meno ottimisti, anche perché le due ragazze ebbero un violento litigio durante una lezione di educazione fisica venerdì 29 mag- gio. Dopo tre settimane in cui non si erano mai rivolte la parola, Louise aveva detto qualcosa e Priscilla aveva reagito. Si erano messe le mani ad- dosso e la professoressa di educazione fisica, furibonda, le aveva dovute separare e portare dalla preside. Priscilla era rimasta zitta e impassibile, mentre Louise, che nella zuffa aveva avuto la peggio, piangeva e singhioz- zava dicendo che Cill le aveva tirato i capelli e aveva cercato di convincer- la a bigiare di nuovo. La preside non le credette, ma decise comunque che, in assenza di scuse o giustificazioni, Priscilla dovesse essere punita con una settimana di sospensione. Louise, invece, se la cavò con una nota. Prevedibilmente, il padre di Cill manifestò la propria disapprovazione picchiando la figlia e questa, come preannunciato, scappò di casa al matti- no presto di sabato 30 maggio. Quando la polizia gli chiese se ci fosse una motivazione dietro la fuga della ragazza, il signor Trevelyan disse di averle dato «un paio di scapaccioni» e dichiarò di non sapersi spiegare la fuga della figlia. Priscilla non si allontanava mai di casa senza avvertire, erano una famiglia unita, a scuola andava bene. Sì, aveva avuto qualche proble- ma per alcune assenze ingiustificate, ma la colpa era della riforma del si- stema scolastico: Priscilla si annoiava ad ascoltare lezioni pensate per ra- gazzi molto meno intelligenti di lei. Louise, interrogata da una poliziotta assai comprensiva, incominciò con il dire che, se Cill fosse venuta a sapere che glielo aveva detto, l'avrebbe ammazzata, ma dopo un po' le raccontò che la sua amica era stata violenta- ta. Non sapeva come si chiamavano i tre stupratori, disse, ma la descrizio- ne che ne fece fu sufficiente perché la polizia andasse a casa loro a control- lare che la ragazza scappata di casa non fosse li. I tre negarono tutto e di- chiararono di non conoscere né Priscilla Trevelyan né Louise Burton. Nel- le loro residenze non fu trovato nulla di incriminante. Louise non seppe fa- re i loro nomi, li descrisse soltanto in maniera vaga, non ricordava come fossero vestiti. Gli abiti strappati di Cill - maglia all'uncinetto, minigonna e slip - erano stati buttati via. Louise, in lacrime, disse che Cill se l'era anda- ta a cercare, bevendo e facendo la civetta con i ragazzi, ma la polizia non le credette. Forse i ragazzi le avevano messo le mani addosso, ma non c'era stato stupro. E, siccome la presunta vittima non era rintracciabile, alle 13.23 di lunedì 1° giugno i ragazzi vennero rilasciati dopo un interrogatorio solo pro for- ma. La violenza sessuale veniva presa meno sul serio, nel 1970. Segue un estratto dal capitolo 12 di Menti disturbate, di Jonathan Hu- ghes Jonathan Hughes è nato 34 anni fa a Londra, dove vive. Laureatosi con il massimo dei voti e menzione d'onore alla Oxford University nel 1992, è specializzato nello studio del Medio Oriente. Si occupa di religioni compa- rate e conflitti interreligiosi. I suoi primi due libri, La stereotipizzazione razziale, 1995, ed Emarginati, 1997, approfondiscono il tema della ghet- tizzazione e dell'emarginazione sociale. In Menti disturbate, Hughes pren- de in esame alcuni errori giudiziari del XX secolo, in cui vennero violati i diritti di individui particolarmente vulnerabili. Hughes, che è professore associato di antropologia europea alla University of London, è molto criti- co nei confronti delle democrazie occidentali, colpevoli secondo lui di non mettere mai in discussione i propri valori. 12 Howard Stamp: vittima o assassino? Non è esagerato affermare che il brutale assassinio della cinquantasettenne Grace Jefferies, avvenuto nel giugno 1970 a Bourne- mouth, nel Dorset, fu uno dei tanti casi in cui l'opinione pubblica ha in- fluenzato in maniera determinante la conduzione delle indagini da parte della polizia. L'ampio risalto dato dalla stampa all'atroce fine della disabi- le, che conduceva vita molto ritirata, scatenò il panico nella popolazione e la polizia si trovò a dover a tutti i costi trovare un colpevole. I quotidiani di sabato 6 giugno 1970 facevano paragoni con l'omicidio di Sharon Tate, per 1 il quale stavano per essere processati Manson e i suoi seguaci. La polizia sospetta un imitatore di Manson, Nonna torturata e uccisa nello stile di Manson, Orgia di sangue, Pareti pitturate col sangue. Non si può non pensare che la fonte di queste informazioni fosse la stessa polizia, visto che apparvero su tutti i giornali contemporaneamente. In ogni caso si trattò di un colossale abbaglio. Grace Jefferies era sola al momento dell'o- micidio, al contrario di Sharon Tate, i cui cinque ospiti furono massacrati con lei; dire che le pareti di casa Jefferies erano «pitturate col sangue» è un modo molto immaginifico di descrivere gli spruzzi provocati dalla recisio- ne delle arterie della vittima e portava a pensare che la polizia di Bourne- mouth avesse trovato parole scritte con il sangue, come sulla porta di casa di Sharon Tate. La popolazione precipitò nel panico, non del tutto senza ragione. L'omi- cidio di Sharon Tate, avvenuto a Los Angeles il 9 agosto 1969, seguito dal massacro dei La Bianca, aveva sconvolto il mondo intero. I giornali parla- rono di «violenze rituali perpetrate sotto l'effetto di sostanze stupefacenti». Era l'epoca dei Beatles e di Helter Skelter, della guerra nel Vietnam, di Woodstock, dei capelloni e del libero amore. La possibilità che questi «mali» americani avessero attraversato l'Atlantico e fossero sbarcati nella rispettabile Bournemouth era tanto sconvolgente che, quando Howard Stamp confessò, domenica 7 giugno, tutti tirarono un sospiro di sollievo. Non si era trattato di una setta di satanisti. Era stato un familiare a ucci- dere Grace Jefferies. Stamp, ventenne ritardato con il labbro leporino, era il nipote della vittima. Marinava spesso la scuola, si comportava in manie- ra bizzarra, non lavorava ed era morbosamente ossessionato dal complesso dei Cream, e in particolare dal batterista, Ginger Baker. Dopo trentasei ore di interrogatorio senza un avvocato a tutelare i suoi diritti, alle quattro del- la domenica mattina ammise di essere stato lui a uccidere Grace Jefferies. Non essendo in grado di farlo personalmente, la deposizione fu scritta per lui. Il caso fu rapidamente chiuso e l'imputato venne condannato nell'ago- sto 1971. Inquietanti parallelismi Casi chiusi altrettanto rapidamente portarono alla condanna di Timothy Evans e Derek Bentley negli anni '50, a quella di Stephen Downing per l'omicidio di Wendy Sewell nel 1973 e di Stefan Kiszko per l'omicidio di Lesley Molseed nel 1975. Anche costoro, come Stamp. erano semianalfa- beti e portatori di handicap fisici o mentali e pertanto facilmente influen- zabili dalla polizia. Timothy Evans, ventiseienne all'epoca della condanna, era ritardato e non sapeva né leggere né scrivere: Derek Bentley, diciannovenne, era por- tatore di un handicap mentale; Downing, diciassettenne fisicamente imma- turo, leggeva come un bambino delle elementari e Kiszko. affetto dalla sin- drome XYY e da ipogonadismo, aveva ventiquattro anni ma veniva de- scritto come «un bambino in un corpo di uomo». Tre di essi ritrattarono la confessione, pronunciata in assenza di un avvocato e, a loro detta, sotto coercizione della polizia, che in alcuni casi l'aveva addirittura scritta per loro. Il quarto, Derek Bentley, che era in stato di arresto quando il suo co- imputato sedicenne Christopher Craig uccise l'agente Sidney Miles, venne accusato dalla polizia di avergli ordinato di sparare e quindi di essere suo complice. Dando per scontata la colpevolezza degli imputati, le forze dell'ordine e il pubblico ministero condussero indagini affrettate e scorrette e soppresse- ro addirittura alcune prove. Benché i quattro imputati fossero emotivamen- te immaturi e avessero accertati problemi di apprendimento, negli interro- gatori e durante il processo non se ne tenne conto. Anzi, per certi versi se ne approfittò: la vulnerabilità degli imputati fu sfruttata per arrivare a un verdetto di colpevolezza. Ci vollero anni per riabilitarli, nel caso di Ben- tley quasi cinquanta, e per ammettere che furono vittime di quattro fra i più gravi errori giudiziari del ventesimo secolo.