PAOLO SPINICCI P ROBLEMI DI FILOSOFIA DELLA PERCEZIONE (Corso di Filosofia Teoretica I anno accademico 2000/2001) CUEM, Milano, giugno 2001 INDICE INDICE............................................................................................................0 LEZIONE ZERO...........................................................................................1 LEZIONE PRIMA.........................................................................................6 LEZIONE SECONDA.................................................................................27 LEZIONE TERZA.......................................................................................45 LEZIONE QUARTA...................................................................................63 LEZIONE QUINTA....................................................................................80 LEZIONE SESTA........................................................................................93 LEZIONE SETTIMA................................................................................108 LEZIONE OTTAVA.................................................................................118 LEZIONE NONA.......................................................................................136 LEZIONE DECIMA..................................................................................158 LEZIONE UNDICESIMA........................................................................175 LEZIONE DODICESIMA........................................................................194 LEZIONE TREDICESIMA.....................................................................210 LEZIONE QUATTORDICESIMA.........................................................225 LEZIONE QUINDICESIMA...................................................................240 LEZIONE SEDICESIMA.........................................................................257 LEZIONE DICIASETTESIMA...............................................................273 LEZIONE DICIOTTESIMA...................................................................286 LEZIONE ZERO 1. Il tema del corso di quest’anno — Problemi di filosofia della per- cezione — è, come vedete, piuttosto vago e non circoscrive se non in modo approssimativo il tema che intende affrontare. Parleremo appunto della percezione, e ci soffermeremo in modo particolare sulla natura dell’oggetto che le è proprio, immergendoci in una serie di problemi che hanno alle loro spalle una storia complessa: discute- remo gli argomenti volti a mostrare il carattere illusorio della perce- zione, mostreremo che cosa si intende quando si parla di rappresen- tazionalismo e, infine, cercheremo di chiarire che cosa siano gli og- getti della percezione in un approccio realistico fenomenologico. Sulla natura di questi problemi avremo modo in seguito di chiarir- ci le idee e di cogliere quale sia il nesso che li attraversa e che li rende meno distanti gli uni dagli altri di quanto si possa pensare. E tuttavia prima di addentrarci nei temi che ci accompagneranno in questi mesi è forse opportuno porsi una domanda cui il titolo del corso sembra implicitamente negare un effettivo interesse. Questa domanda potremmo formularla così: vi sono davvero problemi filo- sofici della percezione? Sul significato di questa domanda è necessario soffermarsi un po- co. Che una teoria della percezione si imbatta in molti problemi complessi è un fatto indiscutibile ed è altrettanto certo che le rispo- ste che oggi sappiamo dare per far luce sulla natura dei processi per- cettivi non sono tutte pienamente soddisfacenti e alcune verranno in seguito corrette o senz’altro rifiutate. Problemi dunque vi sono, — ma sono problemi filosofici? Su questo si deve essere chiari: la percezione non è un oggetto che appartenga alla riflessione filosofica e proporre una teoria filosofica dei processi che determinano la percezione del colore, dei suoni o dello spazio sarebbe, credo, altrettanto insensato quanto scrivere un trattato filosofico sull’assimilazione degli zuccheri. E ciò è quanto dire che la percezione appartiene di diritto al terreno della ricerca scientifica: i problemi di una teoria della percezione sono dunque problemi di natura psicologica, fisiologica, chimica e fisica. 1 Ma se le cose stanno così, che senso ha parlare di problemi filoso- fici della percezione? E se una teoria filosofica della percezione non c’è perché parlare in generale di una filosofia della percezione? Si tratta di domande legittime, cui vorrei cercare di rispondere innan- zitutto richiamando un passo delle Ricerche filosofiche che ha per oggetto la percezione visiva. Qui Wittgenstein osserva che ciò che gli interessa non è la natura dei processi percettivi, ma è il concetto di visione e il posto che esso occupa nel contesto degli altri concetti d’esperienza. Che cosa ciò significhi è presto detto: tra le parole del nostro linguaggio vi sono verbi come vedere, udire, sentire, osserva- re, ascoltare, avvertire, e questi — così come altri termini di natura percettiva — hanno un loro impiego ben definito nel linguaggio: li usiamo in circostanze che possiamo descrivere, in contesti che pos- sono assumere una valenza paradigmatica e che proprio per questo possono permetterci di scorgere la regola d’uso che è loro propria e che li differenzia gli uni dagli altri. Non tutto ciò che si sente lo si ascolta e non tutto ciò che si vede lo si può toccare con la punta delle dita, anche se vi sono casi in cui è possibile ascoltare ciò che si sente e vedere ciò che si tocca. E ancora: il la che ora risuona nell’aria stringe con il flauto da cui proviene la stessa relazione che lega lo stridere del treno alle ruote pesanti che mordono il ferro delle rotaie? I nostri problemi sono questi, e sono filosofici perché con- cernono la dimensione dell’analisi concettuale: ciò che ci interessa sono i concetti della percezione ed il posto che occupano nel voca- bolario della nostra esperienza. Da questa prospettiva generale di fatto non ci allontaneremo, e tuttavia la nettezza con cui Wittgenstein circoscrive quello che, a suo avviso, è il terreno di una filosofia della percezione non deve farci troppo presto distogliere lo sguardo dall’intreccio dei problemi che ci si pongono non appena cerchiamo di chiarire meglio come e dove debba essere tracciato il discrimine che separa la percezione come processo reale di cui fisica, fisiologia e psicologia debbono rendere conto dalla percezione come concetto che occupa un posto nel dizionario della nostra esperienza. È anche per cercare di tracciare in modo più persuasivo questa di- stinzione che il corso prenderà l’avvio dalla discussione di un classi- 2 co della riflessione filosofica che si muove in una prospettiva inte- ramente diversa da quella che abbiamo appena indicato — comince- remo infatti a ragionare sui nostri problemi leggendo il Saggio sull’intelletto umano (1690) di John Locke. Ora, di questo lungo e complesso libro non leggeremo che poche pagine, e tuttavia è im- portante fin da principio indicare in che modo ci avvicineremo a questo e ai pochi altri testi che discuteremo insieme nelle lezioni del corso. Una prima osservazione è relativamente ovvia: questo non è un corso di storia della filosofia, e questo significa che possiamo ri- sparmiarci almeno in parte la fatica di contestualizzare le pagine di Locke all’interno della filosofia del suo tempo e che non ci soffer- meremo più di tanto a rendere conto del dibattito filosofico che pure è chiaramente implicato dalla lettura di quel testo. Un libro si può leggere anche così: facendo attenzione solo, o almeno prevalente- mente, a ciò che dice e al modo in cui lo dice — agli argomenti che danno una dimensione filosofica ed uno spessore teorico alle deci- sioni che vengono di volta in volta prese. Theodor Lipps scriveva nella sua Estetica che le opere d’arte è come se fossero cadute dal cielo, ed io vi invito a fare qualcosa di simile con un testo filosofico: per noi tutti il Saggio deve essere anche un libro caduto dal cielo e precipitato nell’aula 510 il 15 febbraio del 2001. Certo, noi tutti sappiamo che Saggio sull’intelletto umano è stato pubblicato molti anni fa — nel 1690, per essere precisi — e non è possibile leggere queste pagine senza avvertire di pagina in pagina la distanza che ci separa da quel tempo lontano. Questa distanza la si avverte in molti modi: la si legge nello stile espositivo, nei riferi- menti agli autori e ai dibattiti vivi nell’ultimo scorcio del XVII seco- lo, ma la si avverte e, soprattutto, la si misura quando ci si stupisce del fatto che Locke non dica ciò che ci aspetteremmo dicesse o che lo dica seguendo un sentiero di cui non conoscevamo l’accesso o confidando in argomenti che traggono la loro plausibilità da un in- sieme di certezze che non sappiamo più condividere. Ma ciò è quanto dire che vi è un senso in cui la distanza storica di un testo non si coglie quando si sa pronunciare il nome del suo autore ac- canto a quello dei suoi contemporanei, ma si manifesta quando lo prendiamo sul serio e cerchiamo di ripensare i suoi problemi come 3 se fossero nostri. Di qui il modo in cui ci accosteremo alle pagine del secondo vo- lume del Saggio sull’intelletto umano: leggeremo queste pagine così ragionate e belle assumendoci innanzitutto il compito di coglierne i problemi per ripensarli dall’interno, seguendo non la loro forma espositiva, ma quello che mi sembra essere il filo obiettivo dei ra- gionamenti che Locke ci propone. Ora, che questo non sia suffi- ciente per comprendere un libro importante come il Saggio è un fatto di cui dobbiamo essere consapevoli: molte (e forse troppe) cose mancano in ciò che dirò su questi primi nove capitoli del secondo volume del Saggio, ed è un fatto che molte cose possono dirsi sol- tanto se ci si dispone nella prospettiva dello storico delle idee e del pensiero. Si può forse dire di più: si può sostenere che cercare di ri- pensare da capo ciò che Locke dice senza dar troppo peso al conte- sto o alle molte pieghe in cui il suo argomentare si arricchisce e in- viluppa, vuol dire necessariamente fermarsi ad un livello elementare di analisi, e se qualcuno avanzasse proprio questa obiezione ai nostri discorsi io non saprei davvero che cosa rispondere e non avrei nulla da ridire se non questo — che le cose elementari vanno tuttavia fat- te, e per prime. 4 2. Due parole debbono essere spese infine sulla forme delle consi- derazioni che seguono. Si tratta di una dispensa universitaria che raccoglie la traccia delle lezioni proposte nel corso di filosofia teo- retica che ho tenuto nell'anno accademico 2000/2001. Non si tratta, dunque, di un libro e questo è vero sia per la forma esteriore in cui il testo è raccolto — un insieme di lezioni scandite nella loro ampiezza da esigenze di natura didattica — sia per il loro carattere mosso e, in più punti, tutt'altro che definitivo. Di qui anche la scelta di lasciare interamente da parte il rimando alla bibliografia secondaria e alla discussione delle diverse ipotesi interpretative. Aprire anche questo fronte avrebbe reso davvero troppo faticoso un corso che è, e vuole restare soltanto un tentativo di avviare una discussione filosofica sui problemi che si legano alla filosofia della percezione. 5 LEZIONE PRIMA Il Saggio sull’intelletto umano è un libro che è stato scritto da più di tre secoli — i quattro volumi di cui consta vengono pubblicati nel 1690 — e tuttavia, come abbiamo osservato nella precedente lezio- ne, vorremmo egualmente cercare di trarre dalle sue pagine qualcosa che ci aiuti a comprendere meglio che cosa sia la percezione. In modo particolare, dalle pagine di Locke vorremmo trarre uno sti- molo per riflettere su alcuni problemi che sorgono quando il feno- menologo si confronta con il fatto che la percezione è anche una relazione reale che lega gli organismi viventi al mondo esterno, — a quell’insieme di cose che sono diverse da come ci appaiono nelle nostre percezioni, anche se ne sono la causa. Su questo Locke è chiaro. Noi uomini percepiamo così perché siamo fatti così e ciò che vediamo dipende dal modo in cui i nostri organi di senso e il nostro cervello reagiscono alla determinatezza fisica e chimica degli stimoli. Così, se questo mondo ci appare nel gioco mutevole e vario dei colori che si dispiegano alla vista, ciò ac- cade perché la nostra retina è sensibile alla luce e sa discriminare al- cune delle sue lunghezze d’onda — quelle site tra 400 e 700 nano- metri (un nanometro è pari a un miliardesimo di metro). Di questo nostro privilegio — che tra i mammiferi dividiamo solo con i pri- mati ma che ci accomuna ad animali assai meno nobili come gli in- setti o i pesci — è forse lecito rallegrarsi, anche se non possiamo per questo dimenticare che della smisurata quantità di informazione che la luce veicola solo una piccola parte supera la barriera dei nostri occhi: tutto il resto cade semplicemente al di là di ciò che possiamo avvertire. E ciò è quanto dire che il modo in cui il mondo sensibil- mente ci appare è del tutto contingente: lo spettacolo avrebbe potuto essere diverso, anche se non possiamo davvero immaginare come avrebbe potuto essere. Vi è dunque un senso in cui è davvero legit- timo sostenere che il mondo che i sensi ci dischiudono è soltanto no- stro e che quello che ci sembra essere il teatro delle nostre vicende e quindi lo spazio entro cui si costituisce ogni nostro avere a che fare 6 con il mondo non è che l’eco della relazione reale che la totalità delle cose stringe con una sua parte: l’organismo umano. Si tratta appunto di un fatto indiscutibile, e tuttavia non è facile di- re quale sia la posizione che di fronte a questo fatto si deve assume- re e quali le conseguenze filosofiche che è lecito trarne. Non vi è dubbio, infatti, che se ci poniamo in una prospettiva di stampo natu- ralistico la percezione deve apparirci proprio così — come un evento di natura causale che ha origine in un processo di natura fisica e fi- siologica e che termina in un fatto mentale. E tuttavia riconosce la natura causale dell’evento percettivo non significa ancora aver deciso qualcosa sul senso che attribuiamo alla nostra esperienza quando osserviamo non il processo da cui dipende il suo esserci, ma il modo in cui si presenta il suo contenuto. L’esperienza non è solo un evento, ma ha anche una sua dimensione fenomenologica che è accessibile prima di quanto non lo sia una considerazione puramente obiettiva del nesso percettivo: prima an- cora di essere effetti sulla cui causa ci si possa interrogare, le nostre percezioni sono manifestazioni fenomeniche immediate. Ma ciò è quanto dire che è in linea di principio possibile sostenere che le per- cezioni sono immediatamente accessibili solo nella loro dimensione contenutistica e soggettiva e non nel loro porsi come eventi obiettivi che accadono in un mondo la cui conoscenza poggia evidentemente sui contenuti della nostra esperienza. Di qui sembra derivare una conclusione che può apparirci plausibile: se si vuole parlare della percezione come di un evento causale attruibuendo a queste consi- derazioni qualcosa di più che il valore di una ragionevole ipotesi sembra necessario riconoscere una qualche priorità alla dimensione fenomenologica, per vedere poi se, muovendo da questo terreno, non sia possibile trovare le ragioni che giustifichino una simile inte- pretazione dei fenomeni percettivi. Locke di fatto ragiona proprio così, e nel secondo volume del Saggio getta le basi di una concezione causalistica della percezione che, tuttavia, non intende disporsi sul terreno delle scienze naturali, poiché ritiene necessario prendere le mosse da un’indagine descritti- va, — da quel metodo «storico e piano» che è caratteristico del Sag- gio. 7