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Privacy. Il sogno americano: che cosa ne è stato? PDF

40 Pages·2003·0.29 MB·Italian
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LDB Indice Frontespizio Colophon PRIVACY La solitudine del profeta - di Mario Materassi Il Paradiso Perduto della privacy - di Piero Boitani William Faulkner Privacy IL SOGNO AMERICANO: CHE NE È STATO? Traduzione di Mario Materassi Con due saggi di Mario Materassi e Piero Boitani Adelphi eBook : Privacy TITOLO ORIGINALE The American dream: what happened to it? Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata Un’edizione italiana, fuori commercio, di Privacy è uscita nel 2001 per iniziativa del Garante per la protezione dei dati personali, Stefano Rodotà, che qui sentitamente si ringrazia. Prima edizione digitale 2014 © 1955 WILLIAM FAULKNER © 1965 RANDOM HOUSE, INC This translation published by arrangement with Random House, an imprint of the Random House Publishing Group, a division of Random House, Inc. © 2003 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO www.adelphi.it ISBN 978-88-459-7605-6 PRIVACY Questo era il Sogno Americano: un asilo sacro, un santuario in terra per l’uomo in quanto individuo: una condizione nella quale egli potesse essere libero non soltanto dalle vecchie istituzioni gerarchiche del potere arbitrario, chiuse e corporative, che lo avevano oppresso in quanto massa, ma libero da quella massa nella quale le gerarchie della chiesa e dello stato lo avevano costretto e tenuto schiavo come individuo e, come individuo, impotente. Un sogno simultaneo comune ai singoli individui, talmente isolati e dispersi da non avere alcun contatto che consentisse loro di unire i sogni e le speranze comuni alle vecchie nazioni del Vecchio Mondo che esistevano in quanto nazioni sulla base non della cittadinanza bensì della sudditanza, e che sopravvivevano soltanto sulla base della quantità e della docilità della massa assoggettata; i singoli, uomini e donne, che dissero simultaneamente, come un’unica voce: «Noi fonderemo una nuova terra dove l’uomo possa presupporre che ogni individuo – non la massa degli uomini ma gli uomini in quanto individui – abbia il diritto inalienabile alla dignità e alla libertà individuale all’interno di un tessuto di coraggio individuale, di lavoro onorevole e di responsabilità reciproca». Non semplicemente un’idea, ma una condizione: una vivente condizione umana intesa a essere coeva alla nascita dell’America stessa, generata e creata simultaneamente all’aria e alla parola America, la quale di colpo, in quell’istante, avrebbe ricoperto la terra intera con un unico sospiro simultaneo come l’aria o la luce. E così fu, così avvenne: irradiandosi a coprire perfino le vecchie, stanche, ripudiate nazioni ancora soggiogate, finché in ogni dove gli individui, che tutt’al più ne avevano udito il nome ma che di sicuro neppure sapevano dove l’America fosse, furono in grado di risponderle, levando non soltanto i loro cuori ma anche le speranze che fino a quel momento non sapevano – o comunque non osavano ricordare – di avere. Una condizione nella quale l’uomo non soltanto non sarebbe mai stato re, ma neanche avrebbe mai voluto esserlo. Non avrebbe neppure dovuto preoccuparsi di essere pari ai re perché adesso era libero da re e da simili congerie; libero non soltanto dai simboli ma dalle stesse vecchie arbitrarie gerarchie che quei simboli fantoccio rappresentavano – tribunali e governi e chiese e scuole –, agli occhi dei quali egli aveva sempre avuto valore non in quanto individuo bensì in quanto numero, un numero il cui valore era calcolato in immutabile proporzione rispetto alla mera, scervellata quantità, all’aumento bestiale della docile massa priva di volere. Il sogno, la speranza, la condizione che i nostri progenitori non lasciarono in eredità a noi in quanto eredi e assegnatari – piuttosto lasciarono noi, loro successori, al sogno e alla speranza. Noi neppure avemmo la possibilità di accettare o di declinare quel sogno, per la ragione che il sogno già ci possedeva e noi gli appartenevamo dal momento della nascita. Non era la nostra eredità poiché eravamo noi a costituire la sua, noi stessi, generazione per generazione, lasciati in eredità al sogno dall’idea di quel sogno. E non soltanto noi, i figli nati e cresciuti in America, ma uomini nati e cresciuti nelle vecchie terre straniere ripudiate, anch’essi sentivano quel respiro, quell’aria, udivano quella profferta, quella promessa che, per l’individuo, v’era una cosa chiamata speranza. E le stesse vecchie nazioni, tanto vecchie e talmente fossilizzate nelle loro vecchie concezioni dell’uomo da considerarsi ormai al di là d’ogni speranza di cambiamento, rendevano omaggio al nuovo sogno di quella nuova concezione dell’uomo donando monumenti ed insegne a marcare i portali di quel diritto e quella speranza inalienabili: «V’è qui posto per voi da ogni parte della terra, per tutti voi individui senza patria, oppressi in quanto individui, individualmente privati della vostra individualità». Un libero dono lasciatoci da coloro che insieme avevano faticato e individualmente avevano sofferto per crearlo; noi, i loro successori, non abbiamo neppure dovuto guadagnarcelo, meritarlo, tanto meno conquistarlo. Non abbiamo neppure dovuto nutrirlo e coltivarlo. Dovevamo soltanto ricordare che, essendo vivo, sarebbe pertanto potuto morire e andava dunque difeso nei suoi momenti di crisi. Alcuni di noi, forse la maggior parte di noi, non sarebbero stati nemmeno capaci di provare con una definizione che sapevano con esattezza cosa fosse. D’altra parte non ve n’era la necessità: noi non avevamo bisogno di definirlo più di quanto avessimo bisogno di definire quell’aria che respiravamo o quella parola, le quali, l’una e l’altra, con il loro semplice esistere simultaneo – il respirare l’aria americana che aveva fatto l’America – avevano, insieme, generato e creato il sogno in quel primo giorno dell’America così come l’aria e il movimento crearono il clima e la temperatura nel primo giorno del tempo. Quel sogno costituiva infatti l’aspirazione dell’uomo nel vero senso della parola aspirazione. Non era soltanto la cieca e muta speranza del suo cuore: era il vero e proprio inspirare dei suoi polmoni, la sua vista, il suo vivo e insonne metabolismo, così che in realtà il Sogno noi lo vivevamo. Noi non vivevamo nel sogno: vivevamo il Sogno stesso, così come non viviamo semplicemente nell’aria e nel clima, bensì viviamo l’Aria e il Clima; noi stessi come individui, rappresentanti del Sogno, e il Sogno stesso realmente avvertibile nelle forti voci spigliate che non temevano di gridare a squarciagola dei cliché, dando a questi cliché – incarnazioni di quei «Datemi la libertà o datemi la morte» oppure «Questo dovrà essere a tutti lampante, che tutti gli individui sono stati creati uguali nel comune diritto alla libertà», i quali comunque erano sempre stati delle verità se si presuppone che la speranza e la dignità sono verità – una validità e un’immediatezza che li assolvevano financo dall’essere dei cliché. Quello era il Sogno: non l’uomo creato uguale nel senso che era stato creato nero o bianco o marrone o giallo e a quel colore era condannato irrevocabilmente per il resto dei suoi giorni – o piuttosto, non tanto condannato all’uguaglianza quanto benedetto dall’uguaglianza, lui che senza alzare un dito se ne stava raggomitolato a sonnecchiare in quel suo bagno caldo e privo d’aria come l’embrione ancora nell’utero; bensì una libertà all’interno della quale poter partire alla pari verso l’uguaglianza insieme a tutti gli altri, una libertà all’interno della quale poter difendere e conservare quella uguaglianza con il coraggio individuale, l’onesto lavoro e la reciproca responsabilità. Ma poi lo perdemmo, quel sogno. Ci abbandonò, dopo che ci aveva sostenuti e protetti e difesi mentre la nostra giovane nazione, con le sue idee nuove circa l’esistenza umana, prendeva abbastanza piede da ergersi fra le nazioni della terra, chiedendoci in cambio soltanto di non dimenticare mai che, essendo vivo, il sogno poteva morire e pertanto doveva essere sempre trattato con assidua responsabilità e protetto con coraggio, onore, orgoglio e umiltà. Ora è svanito. Noi ci assopimmo, ci addormentammo, ed esso ci abbandonò. E adesso in quel vuoto non risuonano più le voci alte e forti non solo impavide ma neppure consapevoli dell’esistenza della paura, quelle voci che parlavano all’unisono di un’unica comune speranza e volontà. Ciò che udiamo adesso è una cacofonia di terrore e mediazione e compromesso che semplicemente balbetta dei suoni: le parole vacue e altisonanti che abbiamo evirato di ogni significato – libertà, democrazia, patriottismo – e con le quali, infine risvegliatici, tentiamo disperatamente di nascondere a noi stessi quella perdita. Qualcosa è avvenuto al Sogno. Molte cose. Questo episodio, io ritengo, è il sintomo di una di esse. Più o meno dieci anni fa un noto critico letterario e saggista, mio buon amico di lunga data, mi disse che un ricco settimanale illustrato di grande diffusione gli aveva offerto parecchi soldi per scrivere un pezzo su di me – non sul mio lavoro o le mie opere, ma su di me in quanto privato cittadino, in quanto individuo. Io dissi di no, e spiegai il perché: la mia convinzione che soltanto le opere di uno scrittore siano a disposizione del pubblico, aperte alla discussione, allo studio e al commento, in quanto lo scrittore stesso le ha rilasciate al dominio pubblico nel momento in cui ne ha proposto la pubblicazione e in cambio ha accettato del denaro; e di conseguenza egli non soltanto ha accettato ma s’impegna ad accettare qualsiasi cosa il pubblico intenda dire su di esse o fare di esse, dall’osannarle al mandarle al rogo. Tuttavia, finché lo scrittore non commette un delitto o si candida a un pubblico ufficio, la sua vita privata è unicamente sua; e non soltanto egli ha il diritto di difendere la sua privacy, ma il pubblico ha il dovere di fare altrettanto in quanto la libertà di un uomo deve cessare esattamente là dove comincia quella del prossimo; e ritenevo che qualsiasi persona con un minimo di buon gusto e senso di responsabilità avrebbe convenuto con me. Ma il mio amico disse No. Disse: «Ti sbagli. Se faccio io il pezzo, lo faccio con buon gusto e con senso di responsabilità. Ma se tu rifiuti, prima o poi lo farà qualcun altro il quale non starà a preoccuparsi del buon gusto e nemmeno del senso di responsabilità, e al quale non importerà un bel niente di te o della tua statura di scrittore e di artista, ma soltanto di te come merce, come bene economico: che va venduto per aumentare la tiratura e fare un po’ di soldi». «Non ci credo» dissi io. «Finché non commetto un delitto o non annuncio la mia candidatura a qualche elezione, non possono invadere la mia vita privata dopo che ho chiesto loro di non farlo». «Non soltanto possono,» disse lui «ma appena la fama che hai in Europa arriverà fin qui e ti renderà economicamente remunerativo, lo faranno senz’altro. Aspetta e vedrai». E così feci. Aspettai, e vidi. Due anni fa, per puro caso, nel corso di una conversazione con un redattore della casa editrice che pubblica i miei libri, venni a sapere che quello stesso settimanale aveva già dato avvio allo stesso progetto che avevo declinato otto anni prima; non so se gli editori fossero stati ufficialmente informati o se ne avessero soltanto sentito parlare per caso, come era successo a me. Di nuovo dissi No, ricapitolando le medesime ragioni che ancora ritenevo non potessero neppure venir messe in discussione da chiunque detenesse il potere della carta stampata, in quanto i valori del buon gusto e del senso di responsabilità dovrebbero essere inerenti a quel potere affinché sia valido e gli sia consentito di continuare a funzionare. Il redattore mi interruppe. «Sono perfettamente d’accordo con lei» disse. «E comunque, non c’è bisogno che mi dia delle motivazioni. Il semplice fatto che lei non voglia è sufficiente. Desidera che me ne occupi io?». E così fece, o meglio cercò di farlo. Il mio amico critico, infatti, continuava ad aver ragione. A quel punto dissi: «Ci provi di nuovo. Dica loro “Ve lo chiedo per favore: non fatelo”». Così inviai lo stesso Glielo chiedo per favore: non lo faccia al giornalista che doveva scrivere il pezzo. Non so se si trattasse di un membro della redazione che era stato incaricato della cosa, oppure se si fosse offerto lui di farlo, o se magari

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