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Prima lezione di antropologia PDF

119 Pages·2007·0.6 MB·Italian
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eBook Laterza Francesco Remotti Prima lezione di antropologia © 2000, Gius. Laterza & Figli Edizione digitale: settembre 2013 www.laterza.it Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Realizzato da Graphiservice s.r.l. - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 9788858101797 È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata I. Una molteplicità di antropologie 1. Difficoltà di una definizione Nulla sembrerebbe più facile che offrire una definizione nello stesso tempo semplice e unitaria di antropologia. Che cos’è infatti l’antropologia, se non lo studio dell’uomo? Ma non appena ci si chiede che cosa sia “studio dell’uomo”, le difficoltà emergono con tutta evidenza. Studio significa applicazione, interesse, concentrazione nell’osservazione e nell’analisi per comprendere, spiegare, dimostrare, illustrare qualcosa. L’antropologia allora è ciò che spiega l’uomo? Dimostra come è fatto? Fa vedere quale sia la sua costituzione, la sua struttura? Fa capire a noi, uomini, ciò che noi stessi siamo? Se esiste l’antropologia in quanto “studio” dell’uomo, ciò significa che gli uomini di per sé non conoscono se stessi o non si conoscono in maniera adeguata e sufficiente. L’esistenza dell’antropologia è la dimostrazione che essere uomini e conoscere se stessi non coincidono del tutto: non basta essere uomini per sapere chi noi siamo; noi siamo uomini, ma l’essere uomini non dà luogo a una conoscenza immediata di noi stessi. Se c’è un’antropologia, questo implica che esseri che si auto-definiscono “uomini” non conoscono appieno chi o che cosa veramente essi sono. Significa che a un certo momento della loro storia (diciamo così) questi esseri si sono dati da fare per comprendere come erano fatti, più o meno come si sono ingegnati per conoscere il mondo circostante. Quando sarebbe iniziata questa esplorazione del continente uomo da parte degli uomini? Possiamo indicare l’inizio dell’antropologia? Siamo in grado di illustrare i mezzi e gli strumenti principali mediante cui gli uomini hanno inteso intraprendere la conoscenza di se stessi? Inoltre, possiamo individuare delle fasi progressive in questo studio e soprattutto possiamo dire a che punto – a quali risultati – gli uomini sarebbero pervenuti in questa loro avventura conoscitiva? Hanno portato a termine la loro impresa antropologica? Sanno dire finalmente chi sono e come sono fatti, oppure brancolano ancora nel buio e comunque il cammino appare ancora lungo e incerto? Infine, perché gli esseri umani si sarebbero imbarcati in questa avventura? Perché non sarebbe stato sufficiente per gli esseri umani semplicemente esistere e affrontare i problemi della loro sopravvivenza, senza dover aggiungere quelli della loro conoscenza? Cercare di conoscersi, da parte degli esseri umani, è un compito indispensabile per la loro stessa sopravvivenza, esattamente come indispensabile è conoscere l’ambiente in cui operano? Proseguendo con questi interrogativi, sarebbe legittimo anche chiedersi se l’antropologia è un’impresa che ha impegnato soltanto una parte dell’umanità oppure se tutti gli esseri umani fanno in qualche modo antropologia. Quando riflettiamo sull’antropologia, siamo forse portati a suddividere l’umanità in due parti, ovvero in due tipi piuttosto diversi (gli esseri umani che in più sono antropologi da un lato e, dall’altro, gli esseri umani privi di antropologia), oppure presumiamo che tutti gli uomini siano, sotto questo profilo, sostanzialmente uguali? Occorre chiarire bene questo punto. Dire antropologia significa sostenere che soltanto in determinati periodi storici, in alcune parti del mondo, in società particolari gli uomini hanno potuto dedicarsi all’antropologia, allo studio di sé e degli altri, mentre gli altri rimanevano all’oscuro della loro natura, del loro essere? Oppure riteniamo – e poi cerchiamo anche di dimostrare – che tutti gli esseri umani siano anche antropologi? Dire uomo significherebbe alludere a un essere che, in qualche modo e misura, cerca anche di indagare se stesso, oltre che la natura circostante? Se l’antropologia è un’impresa riservata soltanto a una parte dell’umanità, è evidente che dovremo fare ricorso soprattutto a ragioni storiche – inerenti a contesti e tipi di società – per spiegare questa disparità (da una parte gli esseri umani che sono anche antropologi, dall’altra gli esseri umani che sono soltanto oggetto dell’antropologia dei primi). Se invece l’antropologia è una caratteristica di pensiero attribuibile a tutta l’umanità, allora saranno soprattutto ragioni antropologiche – inerenti a come sono fatti gli esseri umani – quelle che maggiormente potrebbero spiegare un’antropologia così diffusa. Sono molte le domande che si sono fin qui affollate, e il quadro che ne risulta è piuttosto ampio e aggrovigliato, così come diverse sono le opzioni, le scelte interpretative possibili. Ciò che intendiamo trasmettere con queste prime riflessioni è infatti il senso della complessità in cui ci si imbatte, non appena si prende in considerazione la gamma di significati che possono essere evocati dal termine “antropologia”. Per cominciare a costruire un filo del nostro discorso è bene porre in luce i livelli di considerazione qui rappresentati. i) In primo luogo, abbiamo parlato di esseri umani. Anche senza dire finora alcunché sulle loro caratteristiche più specifiche, sulla loro natura o su altri aspetti importanti del loro essere, li abbiamo immaginati come posti di fronte ai problemi della loro sopravvivenza e in generale della loro esistenza. Questo livello è raffigurabile con una semplice U, “uomini”, “esseri umani”. ii) Un secondo livello riguarda invece l’antropologia che essi producono, notando fin da subito però l’interesse antropologico insito in questo tipo di sapere o di ricerca. Se si dedicano all’antropologia (comunque questa venga intesa e praticata), evidentemente gli esseri umani non si conoscono a sufficienza e quindi avvertono il bisogno di sapere qualcosa di più relativamente al loro essere o alle condizioni generali del loro esistere. Possiamo rappresentare questo secondo livello con la lettera A, “antropologia”. iii) Svolgendo queste considerazioni, noi attiviamo però un terzo livello, che potrebbe essere definito come antropologia dell’antropologia. Ci sono infatti gli uomini (primo livello); c’è l’antropologia che essi producono (secondo livello); ci sono infine analisi e considerazioni che prendono ad oggetto le ricerche antropologiche e che, se lo fanno con intendimenti antropologici – cioè per capire meglio come sono fatti gli esseri umani –, possono a buon diritto essere denominate appunto in quel modo (“antropologia dell’antropologia”, AA; terzo livello). Vi sono dunque tre livelli di considerazione o di oggetti (uomini antropologia antropologia dell’antropologia) e due gradi di antropologia (l’antropologia di primo grado, corrispondente al secondo livello, e l’antropologia di secondo grado, corrispondente al terzo livello): U primo livello uomini A secondo livello antropologia primo grado AAterzo livello antropologia dell’antropologiasecondo grado Ciò che faremo in questo primo capitolo saranno soprattutto operazioni di terzo livello ovvero un’antropologia di secondo grado: non ancora un’antropologia il cui scopo sarebbe uno sguardo diretto sull’uomo o sugli esseri umani, ma una serie di considerazioni (che vorrebbero essere antropologiche) sul sapere antropologico che gli uomini producono. Con una precisazione, però: attivare questo terzo livello non significa affatto pensare di adottare un punto di vista assoluto o talmente superiore da poter scorgere sotto di sé l’umanità nel suo complesso (primo livello) e tutte le antropologie che essa avrebbe prodotto (secondo livello). Il terzo livello, ovvero l’antropologia di secondo grado, implica soltanto la capacità di trascendere in un certo modo e riflettere criticamente: anche il terzo livello (l’antropologia dell’antropologia) è un’attività che si svolge all’interno di un contesto storico e culturale; e la capacità di trascendimento significa soltanto uno sforzo, più o meno riuscito, di sganciarsi da certi vincoli e condizionamenti per adottarne però certi altri. L’operazione importante, e possibile, è lo sganciarsi, che è sempre provvisorio e temporaneo, nel senso che le posizioni vengono via via assunte e abbandonate, a seguito di nuove istanze e prospettive; pretesa illusoria e impossibile sarebbe quella, invece, di acquisire una posizione assoluta e indiscutibile. 2. Antropologia o antropologie? Per quanto precaria possa essere la posizione acquisita grazie al trascendimento, che cosa si vede, o meglio si intravede, da quassù? Diciamo subito: una molteplicità di antropologie, parecchie non solo per numero ma anche per tipo. Verrebbe voglia di applicare al caso dell’antropologia le considerazioni che Ludwig Wittgenstein ha svolto in riferimento alla nozione di gioco. Come vi sono molti tipi di gioco – diversi tra loro per struttura e concezione dell’attività ludica –, allo stesso modo potremmo sostenere che vi sono differenti antropologie. Esemplificando: come vi sono giochi che si svolgono su un terreno e giochi che invece si praticano a tavolino, così vi sono antropologie che si realizzano attraverso il dialogo e la pratica dell’osservazione sul campo e altre che invece si elaborano in solitudine, in un laboratorio o nel silenzio di una biblioteca. Wittgenstein sosteneva che tra tutti i giochi possibili non vi è «affatto in comune qualcosa, in base al quale impieghiamo per tutti la stessa parola» (1980: 46). Noi li chiamiamo tutti “giochi” (tanto il gioco del pallone, quanto quello degli scacchi); ma dal fatto che usiamo la stessa parola per designarli non possiamo inferire che vi sia qualcosa di comune a tutti, un quid sostanziale che ritornerebbe in tutti i casi. «Non dire: “Deve esserci qualcosa di comune a tutti, altrimenti non si chiamerebbero ‘giuochi’” – ma guarda se ci sia qualcosa di comune a tutti». Contro queste argomentazioni di Wittgenstein potremmo sostenere che, per quanto diverse, tutte le antropologie hanno davvero qualcosa in comune, e cioè il riferimento all’essere umano. Ma questo tratto, che effettivamente attraversa tutte le antropologie – e in assenza del quale difficilmente potremmo parlare di antropologia –, non è forse un po’ troppo esile per costituire una base sostanziale comune? Proseguiamo con le argomentazioni di Wittgenstein. A proposito dei giochi, egli afferma: «se li osservi, non vedrai certamente qualche cosa che sia comune a tutti, ma vedrai somiglianze, parentele, e anzi ne vedrai tutta una serie» (1980: 46). I tratti somiglianti possono essere molti; ma comparando i vari giochi tra loro vediamo «somiglianze emergere e sparire» e «vediamo una rete complicata di somiglianze che si sovrappongono e si incrociano a vicenda» (1980: 47). Ciò significa che alcuni tratti di somiglianza emergono in alcuni giochi, mentre altri collegano giochi differenti. I giochi – conclude Wittgenstein – «formano una famiglia» e le somiglianze che variamente li connettono in una sorta di rete sono appunto definite «somiglianze di famiglia». Possiamo dire anche noi che le antropologie, come i giochi, formano una famiglia (nel senso wittgensteiniano del termine)? L’interpretazione alla Wittgenstein presenta il vantaggio di sottolineare fin da subito la molteplicità delle antropologie possibili e, nello stesso tempo, di trovare numerosi criteri di collegamento tra loro (oltre al fatto, ovvio, che tutte si riferiscono in un modo o nell’altro agli esseri umani). Ma dire che le antropologie formano una famiglia non suona forse ironico (nonostante Wittgenstein), considerate le ostilità, i rifiuti, le esclusioni che spesso si presentano nell’area delle antropologie? In effetti, l’arena antropologica non è la stessa situazione dei giochi. I giochi – in quanto tali – non competono tra loro, mentre le antropologie sì. Può verificarsi perciò che vi siano veri e propri misconoscimenti reciproci e rivendicazioni esclusive, che rendono il quadro molto più complicato di quello costituito da una molteplicità di tipi e di criteri di collegamento. Manteniamo ancora per un po’ uno sguardo distaccato, senza lasciarci coinvolgere da conflitti e incomprensioni interni alla famiglia delle antropologie. Uno sguardo distaccato è più consono al livello rispetto a cui stiamo operando, quello dell’antropologia dell’antropologia (terzo livello o antropologia di secondo grado). Con sguardo distaccato possiamo renderci conto più agevolmente di come esista non tanto una famiglia dell’antropologia, ma più famiglie di antropologie. Come abbiamo detto prima, non è soltanto una questione di molteplicità; è anche una questione di differenziazioni e di opposizioni, di contrasti e di assimilazioni. Proprio perciò conviene avere uno sguardo ampio sulle antropologie, così da non lasciarsi irretire fin da subito da qualche tipo di antropologia e non riuscire a scorgerne altre. Sotto questo profilo, ancora Wittgenstein ci può venire in soccorso, allorché pone in luce i meccanismi mediante cui i concetti – per esempio, il concetto di gioco e, nel nostro caso, quello di antropologia – subiscono restrizioni e dilatazioni secondo gli interessi di chi li usa. I concetti hanno dei confini; ma per Wittgenstein i confini non sono imposti dal quid sostanziale che ne sarebbe alla base o dalla struttura della realtà che vorrebbero riprodurre. Siamo “noi” che decidiamo dove finisce la sfera di un concetto e dove inizia la sfera di un altro concetto: se questo è gioco o se invece è un’altra cosa. Siamo noi che decidiamo se un certo tipo di riflessioni e di analisi rientra nella famiglia delle antropologie o se invece ne è fuori. Siamo noi che scegliamo se irrigidire i confini dell’antropologia o, al contrario, sfumarne i contorni. In generale, possiamo dire che al livello due del nostro schema (cioè al livello dell’antropologia di primo grado) prevale un atteggiamento definitorio e spesso rigidamente definitorio. Il “noi” che decide è il “noi” di una comunità scientifica, la quale si identifica con particolari programmi di ricerca ed è interessata a difendere le proprie caratteristiche e le proprie prerogative, entrando in sorda competizione con altri programmi e con altre comunità. A questo livello ogni comunità è impegnata a sostenere un certo tipo o una certa famiglia di antropologie, osteggiandone altre con un atteggiamento non sempre di rifiuto esplicito, ma spesso di ignoranza e di non riconoscimento. Vogliamo fare subito un esempio? Esistono, nel senso che vengono tuttora coltivate, antropologie di stampo teologico, le quali ignorano quasi del tutto le antropologie di tipo culturale o sociale: e queste ultime, beninteso, le ripagano della stessa moneta. Se ci si colloca al terzo livello (l’antropologia dell’antropologia, ovvero l’antropologia di secondo grado) è assai più redditizio non già decidere i confini, bensì osservare come questi vengano stabiliti – e spesso rigidamente stabiliti – dalle diverse antropologie di primo grado (secondo livello). Ciò che avremo sotto gli occhi sarà dunque una molteplicità di antropologie che, allontanandosi spesso con atteggiamenti di reciproca diffidenza e ignoranza, finiscono per formare famiglie diverse di antropologie, e quindi per provocare correlativamente accostamenti più o meno inaspettati. Per certi versi, potremo per esempio mettere insieme le antropologie di stampo teologico, cui si è fatto cenno prima, e il pensiero antropologico sviluppato da Ogotemmeli, un vecchio cacciatore dogon, le cui speculazioni sono il contenuto del libro Dieu d’eau di Marcel Griaule (1948). Ci renderemo anche conto però dell’artificiosità di certe delimitazioni e che la rigidità e la nettezza dei confini sono funzioni di particolari programmi di ricerca e delle loro rivendicazioni epistemologiche (livello secondo). Per noi che ci predisponiamo al terzo livello (l’antropologia dell’antropologia) vale ancora una indicazione di Wittgenstein e cioè che non sempre è possibile «sostituire vantaggiosamente un’immagine sfocata con una nitida»; anzi – egli si chiede – «spesso non è proprio l’immagine sfocata ciò di cui abbiamo bisogno?» (1980: 49). A questo punto del nostro discorso ci conviene in effetti tenere lo sguardo il più ampio possibile; non privilegiare subito le antropologie in cui professionalmente ci identifichiamo e che senza dubbio potremmo descrivere con maggiore precisione; renderci conto che esistono tanti tipi diversi di antropologie, di modi di accostarsi all’uomo da parte degli esseri umani, anche se le conosciamo assai meno e, per le nostre scelte epistemologiche, difficilmente saremmo disposti a farli rientrare nella grande area delle antropologie. In queste zone per noi marginali i confini sono sfumati e l’immagine che se ne ricava è assai poco nitida. Ma, volendo riflettere sul senso o sui possibili significati che può assumere la ricerca antropologica, quale

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