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Per una psichiatria alternativa PDF

166 Pages·1977·6.006 MB·Italian
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15 MEDICINA E POTERE COLLANA DIRETTA DA GIULIO A. MACCACARO Domenico De Salvia rat una psichiatria MTCRfìATIVffe Prefazione di Gianfranco Minguzzi Feltrinelli Prima edizione: gennaio 1977 Copyright by © Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano PREFAZIONE Oggetto occulto o occultamento del suo oggetto, la storia della psichiatria sembra una storia impossibile e una storia non necessaria se non per gli psichiatri, i quali, infatti, per riconoscersi, sono prolifici storici di se stessi. (dalla tesi di laurea di G. Gallio) Questo libro non è uno studio storico, eppure almeno nella prima parte fornisce anche una trama per la storia della "psichiatria di settore” e della sua impossibile attua­ zione. Sarebbe la storia di un progetto che nell’impatto con la realtà ha mostrato l’illusione, anche generosa, di chi pensava di risolvere gli immani problemi psichiatrici met­ tendo fra parentesi le istituzioni, o meglio la loro esistenza. Era un progetto seducente o, per lo meno, io ne fui sedotto quando, dopo un lungo periodo di servizio manico­ miale statico e tradizionale in Italia, all’inizio degli anni Sessanta venni in contatto con l’ambiente psichiatrico fran­ cese, che appariva effervescente di idee e di tentativi. Era un progetto che, riferendosi ad esperienze concrete — da quella lontana di Saint-Alban a quelle più recenti di Or­ léans e Versailles — formulava critiche rabbiose a ciò che De Salvia chiama " paleomanicomialismo” e auspicava la psicoterapia istituzionale (a quel tempo ancora non perfu- sa dallo psicanalismo e abbastanza vicino alla comunità te­ rapeutica), attribuiva una funzione non custodialistica agli infermieri, parlava di lavoro in équipe, e soprattutto proiet­ tava all’esterno, fuori dal manicomio, l’attività degli ope­ ratori. "Da frati di clausura dobbiamo trasformarci in frati zoccolanti, questuanti,” diceva G. Daumezon, e non era che una delle voci del nutrito gruppo di psichiatri, usciti dalla Resistenza con una precisa volontà democratica, che inten­ devano porre la questione sociale della malattia mentale e della sua assistenza. In quell’epoca in Italia si cominciava ad abbozzare l’idea di Unità Sanitaria Locale, cioè si avvertiva la necessità di un intervento socio-sanitario che non facesse perno sul­ l'ospedale, ma piuttosto sul territorio ( questa parola-entità oggi logorata dall’uso); il progetto "settore” sembrava es­ serne il necessario corrispondente in campo psichiatrico. C’erano dunque degli elementi buoni, degli aspetti po­ sitivi in questo progetto, che ha rappresentato, come affer­ ma R. Castel, una rottura in rapporto alla cristallizzazione precedente della situazione psichiatrica. E lo dico con un atteggiamento autogiustificativo perché mi sento responsa­ bile, sia pure in minima parte, della sua introduzione in Italia con il Convegno "Processo al manicomio’’ del 1964 (24-26 aprile) a Bologna, e della sua proposizione a qualche amministrazione provinciale come schema organizzativo dei servizi. Aggiungo che non è stato attuato in nessuno dei casi ove io l’ho consigliato in funzione di esperto. E non poteva essere diversamente, sia perché il "settore" è un'organizzazione degli interventi psichiatrici fondata su criteri puramente tecnici, e non sui bisogni della popola­ zione, sia perché le riforme, le ristrutturazioni non posso­ no essere imposte dall’alto (con una circolare ministeriale e mediante il parere di un esperto “illuminato"), senza un adeguato coinvolgimento dei vari attori dell’attuazione del progetto, in primo luogo gli amministratori e gli ope­ ratori. Però anche nei pochi casi in cui questo coinvolgimento è avvenuto, presumo per un'effettiva convinzione dei tec­ nici e dei politici, l’esperimento ha fallito i suoi obiettivi dichiarati: il manicomio è sempre li, appena un po’ piu aperto, e la psichiatria è sempre controllo della devianza, forse solo un poco più sottile e accurata di prima. E questo perché il "settore” non affronta la radice del problema assistenziale-psichiatrico, cioè il manicomio: lo accetta co­ me una necessità, da modificare, da migliorare, ma in de­ finitiva da mantenere; non critica le categorie psichiatri- che, ma solo il loro uso, la loro organizzazione. Il libro di De Salvia lo dimostra inequivocabilmente attraverso una dettagliata analisi che non dovrebbe lasciare più spazio alcuno alle reviviscenze. Eppure queste sono tuttora attuali anche in Italia. No­ nostante le esperienze ormai famose di Gorizia, Perugia, Arezzo, Trieste, Reggio Emilia, Parma, che nulla hanno a che fare con il “settore," nonostante la critica dell’ideologia psichiatrica, nonostante la contestazione del ruolo ege­ monico del tecnico, ancor oggi si sente parlare di politica del "settore,” non solo da parte di chi è fortemente so­ spetto di voler mantenere immutate le cose con una nuova etichetta (penso ad un recentissimo documentario televi­ sivo sul “potere” girato all’Ospedale Psichiatrico di Giri­ falco), ma anche da parte di coloro cui dobbiamo conce­ dere il massimo di credibilità nell’intenzione di innova­ mento. Nel recente convegno interprovinciale Nord-Italia : "Dal potere locale: strumenti nuovi per una politica psichiatri­ ca democratica” (Milano, 26-27 marzo 1976), la relazione introduttiva proponeva come valida la politica del settore, soprattutto in alcune delle sue idee-guida quali la conti­ nuità terapeutica e la ristrutturazione dei reparti manico­ miali per zone geografiche. A tali proposte Psichiatria De­ mocratica rispondeva con questi argomenti. "Innanzi tutto, quando il settore fa capo ad un reparto manicomiale, come sempre avviene, continuità terapeutica significa ricoverare facilmente il malato in periodo di crisi, senza porre il problema della ricerca di soluzioni alterna­ tive, come l’assistenza domiciliare oppure il breve rico­ vero in un letto dell’ospedale generale. In secondo luogo, il settore, cosi come è stato finora realizzato, ha sempre privilegiato l’intervento sul caso acuto, e privilegiato nel senso del controllarlo accuratamente, direi con eccesso; proprio per evitarne il ricovero si fanno ingurgitare al pa­ ziente farmaci a iosa; questo significa l’esportazione della logica manicomiale, medicalizzante, all’esterno dell’O.P. "Infine, la politica del Settore comporta l’abbandono dei lungodegenti al loro inevitabile destino di progressivo indementimento istituzionale. Il concetto di continuità te­ rapeutica ha un senso là dove c’è dinamismo, modificazio­ ne del quadro ambientale, e di conseguenza clinico; ma il lungodegente nell’O.P. tradizionale è statico e quindi conti­ nuità terapeutica può voler dire solo mantenerlo nelle con­ dizioni in cui è attualmente. "Poco conta prevedere una fase successiva di trasferi­ mento del Settore dall'O.P. ad un reparto psichiatrico in ospedale generale; queste ci sembrano formule verbali che 9 non incidono sulla realtà, per il fatto che in precedenza non si è modificata la logica istituzionale, per esempio evi­ denziando il ruolo dell'infermiere come elemento di dina- micizzazione di una vita da anni solo vegetativa, oppure il ruolo di copertura dell’assistenza psichiatrica a problemi che potrebbero avere una risposta adeguata, per esempio, nell’assistenza sociale, o meglio nella lotta politica. "Come ultima critica all'ideologia del settore va rile­ vato che, secondo questo tipo di organizzazione, gli ope­ ratori rimangono inevitabilmente legati più all'O.P. che ai poteri locali per quanto riguarda le scelte programmatiche, e cosi si allontana il criterio del decentramento che non può riguardare solo la dislocazione logistica dei servizi, ma consiste soprattutto nella possibilità della gestione co­ munitaria e non tecnica dei servizi stessi.” È da rilevare che il documento conclusivo del Convegno di Milano non portava più alcun accenno al "settore." Non vorrei si pensasse che tale risultato sia ascrivibile ad una vittoria tattica di Psichiatria Democratica; è stato piutto­ sto un giusto ridimensionamento di certi concetti orga­ nizzativi, come la suddivisione in zone del territorio di in­ tervento, che mantengono una loro validità se opportuna­ mente sganciati dal riferimento al progetto “settore," ed inquadrati, invece, in una politica generale di decentramen­ to. In questi termini suona la relazione introduttiva del convegno interprovinciale Centro-Italia: "I servizi psichia­ trici verso la riforma sanitaria" (Firenze, 13-14-15 maggio 1976), relazione della quale mi sembra utile riportare un ampio stralcio, anche per completare con i più recenti scritti l’approfondita opera di documentazione svolta da De Salvia. "Per superare le contraddizioni e le macroscopiche inef­ ficienze operative di tale tipo di organizzazione separata dei servizi intra- ed extra-ospedalieri, venne proposto, una decina di anni fa, un modello derivato dalle esperienze francesi della cosiddetta 'psichiatria di settore’ caratteriz­ zato dalla costituzione di gruppi di lavoro ( équipes) mul­ tidisciplinari che avrebbero dovuto occuparsi, secondo cri­ teri di unitarietà, continuità e decentramento, di tutti i problemi psichiatrici di un territorio definito. In questa prospettiva, si proponeva la istituzione nel territorio di al­ cune strutture di cura (ambulatori) e riabilitative (labo­ ratori protetti, case famiglia, centri di post-cura) aventi io

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