ELIZABETH GEORGE PER AMORE DI ELENA (For The Sake Of Elena, 1992) Per Mamma e Papà che hanno incoraggiato la passione e cercato di capire tutto il resto L'alba spegne il lucignolo consunto di una stella, anche se quei cari sciocchi innamorati la chiamano eterna e un languore di cera congela la vena per quanto sia d'ardore infiammata. Sylvia Plath Nota dell'autrice Chiunque abbia una certa familiarità con la città e l'università di Cam- bridge si accorgerà subito che, tanto per cominciare, la distanza fra Trinity College e Trinity Hall è eccessivamente ridotta; figuriamoci quindi se po- trebbe essere sufficiente a contenere i sette cortili interni e la struttura ar- chitettonica, antica di quattro secoli, che costituiscono il St. Stephen's College il quale esiste solo nella mia fantasia. Ho un debito di gratitudine, e di vario genere, nei confronti di un gruppo di persone straordinariamente gentili che hanno fatto del loro meglio per rivelarmi i misteri del- l'Università di Cambridge dal punto di vista di professori e cattedratici: la dottoressa Elena Shire del Robinson College, il professor Lionel Elvin di Trinity Hall, il dottor Mark Bailey del Gonville e Caius College, i signori Graham Miles e Alan Banford dell'Homerton College. Sono anche molto grata agli studenti universitari e ai laureati dei corsi di specializzazione come ai borsisti, i quali hanno fatto quanto potevano per istruirmi su alcune delle particolarità più spiccate della loro vita: Sandy Shaferrnich e Nick Blain del Queen's College, Eleanor Peters dell'Homer- ton College e David Derbyshire del Clare College. Ma soprattutto devo qui esprimere la mia più profonda gratitudine nei confronti di Ruth Schuster dell'Homerton College la quale ha orchestrato le mie visite, consentendomi di assistere a riunioni di supervisione degli studi e a lezioni universitarie, si è preoccupata di ottenermi il permesso di partecipare ad alcune cene uffi- ciali, ha eseguito, per conto mio, ulteriori ricerche fotografiche e infine ha risposto con pazienza eroica a innumerevoli domande sulla città, i college, le facoltà e l'università. Senza Ruth sarei stata davvero un'anima persa. Ringrazio l'ispettore Pip Lane della polizia di Cambridge per la sua assi- stenza e per alcuni suggerimenti relativi a determinati particolari della tra- ma; Beryl Polley di Trinity Hall per avermi presentata ai suoi ragazzi della scala L e al signor John East dei C.E. Computing Services di Londra per tutte le informazioni relative al Ceephone. E ringrazio in modo speciale Tony Mott per aver ascoltato pazientemente una succinta ed entusiastica descrizione della località in cui è avvenuto un delitto, nonché per averla ri- conosciuta e averle dato un nome. Negli Stati Uniti, ho un profondo debito di gratitudine nei confronti di Blair Maffris che ha risposto con grande abilità a tutte le mie domande sui più svariati aspetti dell'arte; del pittore Carlos Ramos che mi ha consentito di trascorrere una giornata con lui nel suo studio di Pasadena; di Alan Hal- lback che mi ha fatto un vero e proprio corso per principianti sullo jazz; di mio marito Ira Toibin, la cui pazienza, incoraggiamento e sostegno sono i punti di forza della mia vita; di Julie Mayer, che non si stanca mai di leg- gere bozze; di Kate Miciak e di Deborah Scheider - editor e agente lettera- ria - che continuano a credere nel mystery letterario. Se questo libro è in qualsiasi senso accurato ed esatto, ciò è unicamente dovuto al generoso interessamento di questo gruppo di persone gentili. Qualsiasi errore o interpretazione sbagliata sono miei, e miei soltanto. 1 Elena Weaver si svegliò all'accendersi della seconda luce nella sua ca- mera da letto-soggiorno. La prima, a una distanza di tre metri e mezzo cir- ca, sulla scrivania, era riuscita a riscuoterla solo moderatamente. La secon- da, invece, posizionata in modo da colpirla direttamente in faccia da una lampada disposta con un'inclinazione obliqua sul comodino, ottenne lo stesso effetto di uno scoppio di musica fragorosa oppure del suono aspro e stridulo di una sveglia. Quando si insinuò con violenza nel suo sogno - come un intruso sgradito, considerando il soggetto che il suo inconscio si affannava a inseguirvi - si ritrovò seduta d'un balzo sul letto. Eppure, non era affatto lì, proprio in quel letto, che aveva cominciato la notte precedente, e nemmeno in quella camera; fu così che per un attimo batté le palpebre, sconcertata, domandandosi stupita quando le semplici tende rosse fossero state sostituite da queste altre, con un orribile motivo di crisantemi gialli e di foglie verdi che spiccavano sullo sfondo di quello che poteva vagamente assomigliare a un felceto. Erano tirate accuratamente e ben chiuse in modo da nascondere una finestra che, già di per sé, si trovava nel posto sbagliato. Come lo scrittoio. Anzi proprio lì, in quel posto, uno scrittoio non avrebbe dovuto esserci nemmeno. Come non avrebbe dovuto essere letteralmente sommerso da una marea confusa di carte, fogli, qua- derni, qualche libro spalancato e un imponente word processor. Fu proprio quest'ultimo oggetto, come l'apparecchio del telefono che gli stava vicino, a mettere bruscamente a fuoco ogni cosa. Si trovava nella propria camera, sola. C'era rientrata appena prima delle due, si era tolta i vestiti di dosso in fretta e furia, lasciandosi cadere esausta sul letto, ed era riuscita a farsi quattro ore di sonno. Quattro ore... Elena si lasciò sfuggire un gemito. Adesso non si meravigliava più di aver creduto di trovarsi in tutt'altro posto. Buttandosi d'impeto fuori dal letto, cacciò i piedi in un paio di pantofole foderate di pelo e infilò in fretta e furia una vestaglia di lana verde racco- gliendola dal pavimento dove l'aveva abbandonata, vicino a un paio di je- ans. La stoffa era vecchia, talmente consunta da essere diventata soffice e leggera come una piuma. Suo padre, un anno prima, quando era arrivata da matricola a Cambridge, le aveva offerto in dono una stupenda vestaglia di seta: anzi, a dire la verità, si era fatto premura di regalarle un intero guar- daroba che lei non aveva trovato interamente di suo gusto. Così aveva pre- ferito lasciarglielo a casa durante una delle visite che gli faceva spesso al weekend, e pur adattandosi a indossarne qualche capo in sua presenza per placare l'ansia con la quale pareva che lui osservasse ogni sua mossa, non metteva mai niente di tutta quella roba, altrove. A Londra, no di certo, a casa della mamma, e nemmeno lì, al college, mai. La vecchia vestaglia verde era ancora il meglio di tutto. Sembrava velluto a contatto della sua pelle nuda. A passi silenziosi ciabattò attraverso la camera, si avvicinò allo scrittoio e spalancò le tende. Fuori era ancora buio e la nebbia che da cinque giorni gravava sulla città, opprimente come un miasma mefitico, quella mattina le parve più fitta, perché premeva contro i vetri della finestra a due battenti, rigandoli con uno strato lieve di umidità simile a un merletto. Sull'ampio davanzale era stata sistemata una gabbia con una boccettina d'acqua appesa a un lato, una ruota per gli esercizi al centro e un calzerotto sportivo di la- na trasformato in cuccia nell'angolo di destra, in fondo. Accovacciato lì dentro, un batuffolo di pelliccia delle dimensioni di un cucchiaio da tavola, color sherry. Elena si mise a picchiettare con le dita contro le sbarre gelide della gab- bia. Vi accostò la faccia, aspirò una zaffata di un miscuglio di odori fra i quali si distinguevano quello di un giornale fatto a pezzi, dei trucioli di le- gno di cedro e, più aspro e pungente, quello di escrementi, e cominciò a soffiare delicatamente in direzione della cuccia. — To-po — disse. Batté di nuovo delicatamente contro le sbarre della gabbia. — To-po. Dentro quel ciuffetto di pelliccia si aprì un luccicante occhio bruno. Il topo sollevò la testa. Con il naso assaggiò l'aria, — Tibbit. — Elena sorrise di gioia mentre al topo fremevano i baffi. — 'giorno, To-po. Il topo zampettò fuori della cuccia e venne a ispezionarle le dita, eviden- temente aspettandosi qualche leccornia mattutina. Elena aprì lo sportellino della gabbia e lo tirò fuori; ed eccolo sul palmo della sua mano, un cosino fremente di curiosità, lungo sì e no otto centimetri. Se lo appoggiò su una spalla dove il topino cominciò immediatamente a esaminare le possibilità che offrivano i suoi capelli lunghissimi, lisci e di colore identico alla sua pelliccia. Tutti elementi, questi, che pareva offrissero ottime promesse di mimetizzazione, e infatti il topino si rannicchiò felice fra il colletto della vestaglia di Elena e il suo collo dove, aggrappandosi saldamente alla stof- fa, cominciò a lavarsi il muso. Elena lo imitò, aprendo l'armadio che con- teneva il lavabo e accendendo la luce al di sopra di questo. Poi procedette lavandosi i denti, legandosi i capelli sulla nuca con un pezzetto di nastro elastico, mettendosi a frugare tra i capi di vestiario che l'armadio contene- va alla ricerca della tuta da ginnastica e di un pullover. Si infilò i pantaloni e passò nel cucinino adiacente. Qui accese la luce ed esaminò, sfiorandolo con gli occhi, il ripiano dello scaffale al di sopra del lavello in acciaio inossidabile. Coco Puffs, Whee- tabix, Corn Flakes. Bastò la loro vista per darle una sgradevole sensazione di nausea, e allora aprì il frigorifero, ne tirò fuori un cartone di succo d'a- rancia e se lo accostò direttamente alla bocca. Il topino, intanto, terminate le abluzioni mattutine, era tornato zampettando ad acquattarsi sulla sua spalla, pieno di aspettativa. Mentre continuava a ingollare sorsate di succo d'arancia, Elena gli massaggiò la cima della testa con l'indice. I dentini mi- nuscoli del topo le mordicchiarono l'orlo dell'unghia. Basta con le manife- stazioni d'affetto. Stava diventando impaziente. — E va bene — disse Elena. Frugò nel frigorifero, facendo una smorfia per l'odore rancido del latte andato a male, e trovò il barattolo del burro d'arachide. Quel tanto che bastava a coprire la punta di un dito, per il topi- no, era la golosità giornaliera, e quando la ragazza glielo offrì, esso vi si buttò sopra tutto felice. Stava ancora leccandone i residui che gli imbratta- vano il pelo, quando Elena tornò in camera e lo depose sullo scrittoio. Si tolse la vestaglia, infilò un maglione e cominciò a dedicarsi agli stiramenti. Sapeva quanto fosse importante scaldare i muscoli prima del- l'allenamento di ogni giorno. Suo padre aveva cercato di inculcarglielo in testa con monotona regolarità fin dal giorno in cui, ancora durante il primo trimestre all'università, si era iscritta al club "Lepre e Segugi". Comunque, continuava a trovarlo un esercizio terribilmente noioso e l'unico modo in cui riusciva a completare una serie di stiramenti era quello di combinarli con qualcos'altro, come per esempio abbandonarsi a qualche fantasticheria, mettere il pane a tostare, guardare fuori dalla finestra, oppure leggere certa letteratura alla quale aveva evitato di accostarsi da un mucchio di tempo. Quella mattina combinò gli esercizi con il pane tostato e la contemplazione di quello che c'era fuori della finestra. Mentre il pane s'indorava nel tosta- pane sulla libreria, si dedicò a sciogliere i muscoli della gamba e della co- scia, con gli occhi rivolti alla finestra. Fuori, la nebbia creava una specie di vortice che ondeggiava gonfiandosi intorno al palo della luce al centro del- la North Court, togliendole qualsiasi illusione e già fin da quel momento lasciandole capire che la solita corsa mattutina non sarebbe stata piacevole. Con la coda dell'occhio, Elena osservò il topino correre freneticamente avanti e indietro attraverso il piano dello scrittoio, soffermandosi di tanto in tanto per alzarsi sulle zampette posteriori e annusare l'aria. Non era per niente uno sciocco. Svariati milioni d'anni di evoluzione olfattiva gli dice- vano che c'era nelle vicinanze qualcos'altro di mangereccio, e voleva la sua parte. Lei lanciò uno sguardo alla libreria per controllare se la fetta di pane fos- se già balzata fuori dal tostapane. Ne ruppe un pezzetto per il topo e glielo buttò nella gabbia. Lui sgattaiolò immediatamente in quella direzione men- tre le sue orecchie piccolissime, trafitte dalla luce, sembravano di cera dia- fana. — Ehi — disse lei, acchiappando l'animaletto che stava procedendo at- traverso due volumi di poesia e altri tre di critica scespiriana. — Dimmi ciao, Tibbit. — Con affetto, strofinò la guancia contro la sua pelliccia pri- ma di metterlo di nuovo nella gabbia. Il pezzo di pane tostato era quasi grosso come lui, ma il topino riuscì a trascinarselo industriosamente verso la cuccia. Elena sorrise, batté con la punta delle dita sulla parte superiore della gabbia, afferrò il resto della fetta di pane tostato e uscì. Mentre la porta a vetri antincendio del corridoio si richiudeva alle sue spalle con un sibilo sommesso, infilò la felpa del completo da ginnastica e si coprì la testa con il cappuccio. Scese correndo la prima rampa della sca- la L e volteggiò attraverso il pianerottolo aggrappandosi alla balaustra in ferro battuto e atterrando con leggerezza ripiegata su se stessa in modo da ottenere che il peso del corpo gravasse sulle gambe e sulle caviglie, piutto- sto che sulle ginocchia. Fece la seconda rampa a un passo più lesto, attra- versò il vestibolo come un fulmine e spalancò la porta. L'aria fredda la colpì come una massa d'acqua. E i suoi muscoli, per reazione, si irrigidiro- no. Si sforzò di rilassarli, e per qualche minuto abbozzò qualche passo di corsa rimanendo sul posto e scuotendo le braccia. Respirò a fondo. L'aria, con quella nebbia che nasceva dal fiume e dagli acquitrini, aveva odore di humus e di legna bruciata e le calò rapidamente sulla pelle coprendola con una specie di pellicola acquosa. Facendo un po' di jogging attraversò l'estremità meridionale della New Court, e con passi veloci e scattanti percorse i due passaggi coperti che conducevano alla Principal Court. In giro non c'era nessuno. Alle finestre delle camere nemmeno una luce. Era stupendo, la faceva sentire euforica. E straordinariamente libera. Aveva meno di un quarto d'ora da vivere. Cinque giorni di nebbia avevano intriso di umidità edifici e alberi che sgocciolavano, creato rigagnoli di guazza sui vetri delle finestre, e pozzan- ghere sul marciapiede. Appena fuori dal St. Stephen's College i fanali di un camion lampeggiarono nella foschia come due piccole lanterne arancione simili agli occhi ammiccanti di un gatto. Nel Senate House Passage, i lam- pioni vittoriani allungavano dita di luce giallastra nella nebbia e le guglie gotiche del King's College, in un primo momento ben visibili perché vi spiccavano nettamente in rilievo, scomparvero del tutto, quasi dissolven- dosi su un cupo fondale che aveva il colore delle tortore. Più oltre il cielo aveva ancora tutte le ombre cupe di una notte della metà di novembre. Al- l'alba vera e propria mancava almeno un'ora. Elena, correndo con passi cadenzati, raggiunse, dal Senate House Passa- ge, il King's Parade. La pressione dei suoi piedi contro il marciapiede le dava, come risposta, un fremito che le rimbalzava su per i muscoli e le os- sa delle gambe, raggiungendo l'addome. Si appoggiò più forte il palmo delle mani contro i fianchi, nel punto preciso dove si erano posate quelle di lui, nella notte appena passata. Ma a differenza di allora la sua respirazione era regolare, non rapida, impellente, concentrata unicamente sulla frenesia sempre più spasmodica di arrivare all'acme del piacere. Eppure, le pareva quasi di poter ancora vedere la testa di lui buttata indietro. Le pareva quasi di poterlo ancora vedere concentrato nella vampata del desiderio, nello strusciare, nell'ansia di smarrirsi dentro di lei, vogliosa e subito pronta a ri- ceverlo. Le pareva quasi di vedere le sue labbra formare le parole "oh Dio oh Dio oh Dio oh Dio" mentre spingeva in su i fianchi e, avvinghiato a lei, la attirava con sempre maggiore forza contro di sé. E poi, il suo nome sulle labbra e i tonfi violenti, spasmodici del suo cuore contro il petto. E il suo respiro, come quello di un corridore. Le piacque ripensarci. Lo stava addirittura sognando quando, quella mat- tina, la luce si era accesa nella sua camera. Procedette muovendosi veloce, piena di energia, lungo King's Parade in direzione di Trumpington, avanzando a zig-zag dentro e fuori la luce a chiazze. In qualche posto, non molto distante da lì, si stava cuocendo una colazione perché nell'aria si era infiltrato un tenue aroma di pancetta e di caffè. Si accorse che, per reazione, la gola le si chiudeva penosamente e aumentò la velocità per sfuggire a quell'odore, entrando in pieno in una pozzanghera la cui acqua gelida le penetrò, infradiciandola, fino alla calza del piede sinistro. A Mill Lane, svoltò verso il fiume. Il sangue cominciava a scorrerle ve- loce nelle vene e, nonostante il freddo, lei aveva cominciato a traspirare. Il sudore, raccogliendosi fra i seni, le sgocciolava giù, verso la vita. La traspirazione è segno che il tuo corpo sta lavorando, le avrebbe spie- gato papà. La traspirazione, naturalmente. Mai e poi mai lui avrebbe parla- to di sudore. L'aria sembrava diventata più fresca a mano a mano che si avvicinava al fiume, evitando due bidoni della spazzatura appaiati, spinti avanti dalla prima creatura vivente che avesse visto per le strade quella mattina, uno spazzino con addosso una giacca a vento verde acido. L'uomo sollevò di peso uno zaino sul manubrio di uno dei carrettini e alzò in aria un thermos come per farle un brindisi mentre lei passava. In fondo al viottolo, attraversò come un razzo il piccolo ponte pedonale che univa le due sponde del fiume Cam. Lo strato di mattoni sotto i suoi piedi era viscido. Per qualche istante continuò a correre da ferma, traffi- cando intorno al polsino della giacca per dare un'occhiata all'orologio. Quando si accorse di averlo dimenticato in camera, imprecò a mezza voce e tornò indietro, riattraversando il ponte, sempre a passo di jogging, per lanciare una rapida occhiata giù per Laundress Lane. "Accidenti, accidenti, doppiamente accidenti. Dov'è andata a cacciarsi?" Elena socchiuse gli occhi cercando di distinguere qualcosa in mezzo alla nebbia. E subito sbuffò, stizzita. Non era la prima volta che le toccava a- spettare e, se papà avesse ottenuto anche in seguito che le cose andassero come lui voleva, non sarebbe stata neanche l'ultima. "Non voglio assolutamente saperne, Elena. Niente corsa da sola. A quel- l'ora del mattino, no. E neanche lungo il fiume. Non se ne discute nemme- no. Se tu volessi scegliere un altro percorso..." Ma lei sapeva che non avrebbe avuto importanza. Un altro percorso, e papà avrebbe semplicemente tirato fuori un'altra obiezione. Aveva sbaglia- to fin dal principio, non avrebbe mai dovuto fargli sapere che si era messa ad allenarsi alla corsa. Ma al momento le era sembrata un'informazione abbastanza innocua da passargli. "Mi sono iscritta al club 'Lepre e Segugi', papà" e invece lui era riuscito a trasformare anche questo in un'ennesima dimostrazione dell'affetto che le portava. Né più né meno come quando era stato tanto abile da mettere le mani su temi letterali che lei aveva scritto prima che venissero sottoposti al suo supervisore. Li aveva letti, con la fronte aggrottata, l'espressione e l'atteggiamento che dichiaravano chiara- mente: guarda come mi preoccupo, guarda quanto ti voglio bene, osserva come apprezzo il fatto che tu sia tornata nella mia vita, non permetterò mai più che tu ne esca un'altra volta, tesoro mio. Poi glieli aveva criticati, gui- dandola fra introduzioni e conclusioni e punti che andavano chiariti, chia- mando perfino in suo aiuto la matrigna e lasciandosi andare contro lo schienale della sua poltrona di cuoio con gli occhi scintillanti di fervore e di zelo. "Guarda che famiglia felice siamo!" E lei si era sentita accappona- re la pelle. Il suo fiato si levava in aria in grandi sbuffi di vapore. Aveva aspettato più di un minuto. Eppure nessuno sbucava ancora dalla grigia e spessa fo- schia all'imbocco di Laundress Lane. "Vai a farti fottere" pensò, e riattraversò di nuovo il ponte di corsa. Su Mill Pool, alle sue spalle, cigni e anatre si stagliavano con le loro sagome contro uno sfondo che pareva trasparente come una garza, mentre lungo la riva sud-ovest dello stagno un salice affondava i suoi rami nell'acqua. Ele- na si girò a dare un'ultima occhiata dietro le spalle ma non c'era nessuno che arrivasse di corsa all'appuntamento e quindi decise di proseguire, ri- prendendo la corsa. Mentre scendeva il pendio della chiusa, ne calcolò male l'inclinazione e si accorse di essersi fatta un leggerissimo strappo a un muscolo della gam- ba. Trasalì, ma continuò senza fermarsi. Inutile cercare di fare un calcolo dei tempi, ormai dovevano essere completamente sballati - e poi, fra l'altro, non sapeva neanche quale fosse stato fino a quel momento - ma chissà... forse sarebbe riuscita a guadagnare qualche secondo una volta arrivata sul- la strada asfaltata. Affrettò il passo. Il marciapiede si restringeva fino a ridursi a una striscia di macadam con il fiume sulla sinistra e la grande distesa, velata di nebbia, di Sheep's Green sulla destra. Qui, le sagome tozze degli alberi fuoruscivano dalla foschia, i corrimano dei ponticelli per soli pedoni si trasformavano in strisce bian- che, nette, orizzontali quando, occasionalmente, qualche luce dall'altra riva del fiume riusciva a filtrare in quelle tenebre. Intanto che Elena correva, le anatre si lanciavano silenziosamente in acqua dalla sponda con un tonfo sommesso, e lei, frugandosi in tasca alla ricerca dell'ultimo avanzo di pane tostato del mattino, lo tirò fuori, sbriciolandolo, e lo lanciò nella loro dire- zione. I suoi alluci si spingevano con ritmo regolare contro la punta delle scar- pette leggere, da corridore. Le orecchie cominciarono a dolerle per il fred- do. Allacciò più strettamente i legacci del cappuccio sotto il mento e dalla tasca della giacca tirò fuori un paio di manopole e se le infilò soffiandosi sulle mani e comprimendole contro la faccia ghiacciata. Più avanti il fiume si divideva in due parti, il corso principale e una spe- cie di torrente fangoso, mentre scendeva con lentezza intorno a Robinson Crusoe's Island, un grumo di terra fittamente ricoperto all'estremità sud di alberi e cespugli. L'estremità nord, invece, era occupata da una specie di piccolo cantiere per riparare canoe, sandolini, barche a remi e barchini dal fondo piatto dei college. Dovevano averci acceso da poco un falò perché Elena poté annusarne l'odore nell'aria. Probabilmente qualcuno si era ac- campato illegalmente nella zona nord dell'isola durante la notte, lasciando- si dietro un residuo di legna carbonizzata, spenta in fretta e furia dall'ac- qua, perché emanava un odore diverso da quello di un fuoco che si è spen- to per consunzione naturale. Curiosa, Elena allungò lo sguardo fra gli alberi mentre procedeva a gran velocità lungo l'estremità settentrionale dell'isola. Canoe e barchini si am- mucchiavano l'uno sull'altro, e il loro legno appariva viscido, lucente e gocciolante dell'umidità portata dalla nebbia. Ma il luogo era deserto. Il sentiero cominciò a salire in direzione di Fen Causeway che segnava il punto in cui terminava la prima parte della sua corsa. Come sempre, af- frontò la salita graduale con un nuovo scatto di energia, continuando a re- spirare regolarmente, anche se a poco a poco si sentiva crescere la pressio- ne nel petto. Stava cominciando appena ad abituare il proprio fisico alla nuova velocità quando le vide. Due figure erano apparse davanti a lei sul- l'asfalto, una ripiegata su se stessa e l'altra distesa di traverso per tutta la larghezza del sentiero. Erano vaghe e indistinte, praticamente amorfe; pa- reva addirittura che tremassero come ologrammi sfocati, illuminati alle spalle dalla luce incerta che arrivava dalla strada lastricata a una ventina di metri di distanza. Forse sentendo arrivare Elena, la figura rannicchiata si voltò verso di lei e alzò una mano. L'altra non si mosse. Elena socchiuse gli occhi, sforzandosi di vedere meglio in mezzo a quel- la nebbia; li spostò dall'una figura all'altra. Vide la statura. Vide le dimen- sioni. "È Townee" pensò, e si precipitò in avanti. La figura accoccolata al suolo si rialzò indietreggiando quando vide ar- rivare Elena e parve scomparire nella nebbia più fitta vicino al ponticello pedonale che univa il sentiero all'isola. Elena si fermò di botto con le gam- be vacillanti, e cadde in ginocchio. Protese le mani, toccò, tastò, e si scoprì a esaminare con frenesia quello che poi risultò essere soltanto un vecchio cappotto imbottito di stracci. Piena di confusione, si voltò, con una mano appoggiata per terra, facen- do il gesto di volersi rialzare. E respirò a fondo per poter parlare. In quel momento, l'aria densa si frantumò in mille schegge davanti a lei. Ci fu il lampo di un movimento alla sua sinistra. Calò il primo colpo. Lo ricevette in pieno, fra gli occhi. Il suo campo visivo fu trafitto da un lampo abbagliante. Il suo corpo precipitò all'indietro. Il secondo colpo la raggiunse fra il naso e la guancia, spappolando la carne e mandando in briciole l'osso dello zigomo come se fosse stato un pezzo di vetro. Se ci fu un terzo colpo, Elena non lo sentì. Erano appena passate le sette quando Sarah Gordon infilò la sua Escort nell'ampio spiazzo lastricato adiacente alla facoltà di ingegneria. A dispet- to della nebbia e del traffico mattutino, era riuscita a coprire il tragitto da casa in meno di cinque minuti, avventandosi per Fen Causeway come se fosse stata inseguita da una legione di creature demoniache. Tirò il freno a mano, scese rapidamente nell'umidità del mattino e richiuse con un tonfo