“Quello che nessuno si aspettava è successo. Una tragedia è arrivata, dispiegando su tutti coloro che si trovavano nei pressi le sue ali insanguinate.” Lo stile è retorico, le parole ridondanti, ma la tragedia è vera. Un po’ come Pioquinto Manterola, il cronista di nera di El Demòcrata che ha scritto il pezzo: retorico e ridondante, ma genuino. Naso adunco, occhialini rotondi, capelli fini e ricci, Manterola vive di emozioni. E di partite a domino. Suoi compagni fissi, un operaio cinese nato a Tampico di nome Tomás Wong, dirigente anarcosindacalista, che canta una canzone imparata molto tempo prima da una prostituta tedesca (gonna rosa di garza che si agitava al vento, il mare come sfondo), e intanto si guarda attorno e filosofeggia sul mondo e sulla vita. E poi, Alberto Verdugo (verdugo, come boia), avvocato dei diseredati, irruento e sognatore, attaccabrighe e rodomonte. E Fermín Valenciaga, poeta per vocazione e fraseologo pubblicitario per fame, piccoletto, miope, gran fazzoletto rosso al collo e stivaloni alla Pancho Villa. Già, perché l’epoca è quella di Villa: polvere e sangue, zoccoli che sollevano scalpitando il terriccio, e pallottole che fischiano. Ma intanto, in città si verificano anche omicidi “privati”: un suonatore di trombone stecchito sul palco della banda, un cadavere che precipita da un piano alto e altri ancora, mentre i quattro amici discutono del quartiere “di tolleranza” che dev’essere trasferito, bevono tequila e cercano di capire chi e perché uccide. E il bello è che ci riescono.
Una ricostruzione storica in chiave grottesca e divertentissima, e nello stesso tempo un thriller impeccabile.