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Numero 21 PDF

259 Pages·2013·17.08 MB·Italian
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Numero 21 – Gennaio 2013 Numero miscellaneo Issue 21 – January 2013 Miscellaneous Issue ISSN: 1824-4483 Dep n. 21 Gennaio 2013 B. Bianchi-Marco Spina, Presentazione pp. I-IV Ricerche C. Stella, Helga Schneider: la storia mancata di una madre e di una figlia p. 1 A. Cegna, “Di dubbia condotta morale e politica”. L’internamento femminile in Italia durante la seconda guerra mondiale p. 28 I. Adinolfi, Simone Weil e Etty Hillesum: l’attesa di Dio p. 55 D. Canciani, Simone Weil. Il male dell’Occidente: lo sradicamento p. 64 P. Zaretti, Maria d’oro, Maria di catrame. Radicamento e sradicamento nel pensiero e nella vita di Simone Weil p. 78 P. De Lucia, Immagini in dissolvenza. Lettura “interessata” di Can The Subaltern Speak? di Gayatri Chakravorty Spivak p. 95 L. Kocova e P. Romito, “Per noi la guerra non è ancora finita”. I ricordi e la condizione presente delle donne in Bosnia p. 115 Documenti Londra, 1919-1920. La propaganda contro il blocco navale, a cura di B. Bianchi p. 138 La Wilpf e l’aiuto alle vittime del nazismo (1942-1944), a cura di B. Bianchi p. 153 © DEP ISSN 1824 - 4483 Indice DEP n.21/2013 Una finestra sul presente Presentazione del Report “I had to run away”. The Imprisonment of Women and Girls for “Moral Crimes” in Afghanistan, Human Rights Watch 2012, a cura di S. Camilotti p. 174 S. Armstrong, Bitter Roots, Tender Shoots. The Uncertain Fate of Afghanistan’s Women p. 177 Intervista ai registi Razi e Soheila Mohebi, a cura di A. Zabonati p. 185 Consigli di lettura, a cura di S. Camilotti p. 193 Tra repressione e solidarietà. Voci e organizzazioni delle donne afghane nella rete web, a cura di M. Ermacora p. 195 Recensioni, interventi, resoconti Identités Troublées 1914-1918. Les appartenances sociales et nationales à l’épreuve de la guerre (M. Ermacora) p. 202 M. Ponzani, Guerra alle donne. Partigiane, vittime di stupro, «amanti del nemico» 1940-45 (C. Corazza) p. 208 T. Zahra, I figli perduti. La ricostruzione delle famiglie europee nel secondo dopoguerra (M. Ermacora) p. 211 Wu Ming 2-Antar Mohamed, Timira. Romanzo meticcio (M. Pandolfo) p. 216 A. Pung, Gemma impura (M. De Giuli) p. 219 D. Fassin-R. Rechtman, L’empire du traumatisme. Enquête sur la condition de victime, Champ essais (S. Pegna) p. 221 © DEP ISSN 1824 - 4483 Indice DEP n.21/2013 P. Farina, Simone Weil e il male dello sradicamento sociale, intervento p. 228 L. Magnarin, Percorsi di vita dei migranti LGBTQ tra sradicamento e resistenza, intervento p. 238 P. Errázuriz, I Encuentro Internacional de Teoría y Praxis ecofeministas: España y América Latina p. 247 T. Vidaurrázaga, Seminario Internacional de ecofeminismo y teología feminista en Chile p. 249 © DEP ISSN 1824 - 4483 Presentazione di Bruna Bianchi e Marco Spina In questo numero miscellaneo la rivista riprende e approfondisce alcuni temi già toccati in passato – l’internamento nella Seconda guerra mondiale, le violenze ses- suali inflitte alle donne nella guerra dell’ex Jugoslavia, l’impegno femminista per porre fine al blocco navale durante il Primo conflitto mondiale e per trarre in salvo i perseguitati dal nazismo durante il Secondo – e affronta anche temi nuovi, quali la condizione attuale delle donne afghane, la riflessione sullo sradicamento in Simone Weil e sul concetto di “violenza epistemica” negli scritti della femminista indiana Gayatri Chakravorty Spivak. La rubrica “Ricerche” si apre con il saggio di Chiara Stella su Helga Schneider (Helga Schneider: la storia mancata di una madre e di una figlia), un’autrice le cui opere hanno avuto una grande diffusione in Italia, ma delle quali mancava ancora una analisi in profondità. La testimonianza di Helga Schneider – scrive Chiara Stella –, donna tedesca di libero pensiero nata in Slesia nel 1937, rappresenta uno dei punti di vista più origi- nali sulla tragedia della Shoah. Non si tratta, infatti, del racconto di una sopravvis- suta alla deportazione, bensì della visione di una “figlia della Shoah”. Pur non a- vendo vissuto né visto direttamente l’orrore dei Lager, la Schneider ne è in qualche modo divenuta “figlia indiretta” soprattutto per il ruolo della madre, che proprio a Birkenau fu stimata e ammirata come una della guardiane più efficienti del campo. L’oscillazione tra il rancore verso quella “volenterosa carnefice” e l’affetto sentito per la donna che resta pur sempre sua madre, rappresenta, ancora oggi, uno degli elementi più preziosi della sua esperienza. Il saggio di Annalisa Cegna, “Di dubbia condotta morale e politica”, è dedicato all’internamento femminile in Italia durante la Seconda guerra mondiale. Sulla ba- se di una vasta mole di documenti d’archivio l’autrice ricostruisce le motivazioni che condussero alla decisione dell’internamento e le condizioni di vita nei campi centro-meridionali, in particolare in quelli di Marche, Molise e Campania. Dalla ricerca emerge che le internate che transitarono nei campi femminili erano in mag- gioranza straniere di “nazionalità nemica”, in particolare inglesi, francesi, ex jugo- slave oltre, naturalmente, a ebree e antifasciste. Come l’autrice mette in rilievo, ad essere puniti furono in prevalenza comportamenti riguardanti la sfera personale e la vita quotidiana, che poco avevano a che vedere con la sicurezza dello stato. L’internamento femminile fu infatti un potente strumento per colpire quei compor- tamenti che si discostavano dalla figura femminile veicolata dal fascismo. Se molte © DEP ISSN 1824 - 4483 Presentazione DEP n. 21 / 2013 vissero l’internamento e il conseguente sradicamento dalla vita abituale come una parentesi, per altre esso fu una frattura insanabile, per alcune infine, in particolare per le donne ebree, fu il principio di una “discesa agli inferi” che le avrebbe con- dotte ad Auschwitz e, quasi sempre, alla morte. Il saggio di Isabella Adinolfi, Simone Weil e Etty Hillesum: l’attesa di Dio, af- fronta il tema della radice mistica del pensiero delle due donne ebree. Il mistico – scrive Adinolfi – ama il mondo perché ne percepisce il legame con Dio, con la fon- te della vita, che sgorga dentro di sé. Dunque l’amore-compassione che le due gio- vani donne provano per gli sventurati si alimenta e trae forza dall’amore di Dio, anzi è lo stesso amore di Dio. Come non sfuggirà al lettore attento, il tema dell’amore di Dio in Simone Weil, la sua ricerca del radicamento in Dio, nell’Assoluto, è emerso anche nel corso del seminario Il male dell’Occidente: lo sradicamento di cui in questo numero pubbli- chiamo alcuni interventi. Il seminario, organizzato da DEP il 17 novembre 2011 e coordinato da Marco Spina, si proponeva di mettere in rilievo l’attualità della riflessione politica di Si- mone Weil, a partire dal concetto di “sradicamento”, con l’intenzione di inaugurare una serie di seminari su alcune grandi pensatrici politiche del Novecento. Tra gli interventi di quella giornata, appare qui nella rubrica “Recensioni, inter- venti, resoconti” il contributo di Paolo Farina, Simone Weil e il male dello sradi- camento sociale, in cui l’autore rilegge l’ultimo testo – incompiuto – della Weil, L’Enracinement, scritto nel 1943, pochi mesi prima di morire. In quest’opera – come Farina ben sottolinea – Simone Weil, preoccupandosi di lasciare delle linee guida per la ricostruzione della Francia post-bellica, pone nuove basi materiali e spirituali per la rinascita dell’Europa dopo la tragedia del nazifascismo. Sempre a partire dal seminario, sono nati i due saggi di Domenico Canciani, Simone Weil. Il male dell’Occidente: lo sradicamento, e di Paola Zaretti, Maria d’oro, Maria di catrame. Radicamento e sradicamento nel pensiero e nella vita di Simone Weil. Nel primo saggio, Domenico Canciani, tra i più autorevoli studiosi e traduttori in Italia di Simone Weil, condensa in poche pagine l’essenza del pensiero politico e religioso della filosofa francese: la nozione di sradicamento viene analiz- zata non soltanto nell’ultimo periodo della sua riflessione, successivo allo scoppio del Secondo conflitto mondiale, ma viene presentato come il filo rosso che attra- versa tutte le fasi della vita e del pensiero della Weil, fin dagli anni dell’impegno sindacale e dell’esperienza in fabbrica a metà degli anni ’30. Inoltre, l’autore sotto- linea come il desiderio weiliano di un radicamento, di una patria radicata, si espri- ma in maniera netta e esplicita contro il colonialismo francese, a sua volta respon- sabile di aver sradicato i popoli non europei. Paola Zaretti ricostruisce in una maniera avvincente il rapporto tra radicamento e sradicamento nella riflessione e nella vita di Simone Weil, districandosi con abili- tà e originalità nell’imponente materia dei Quaderni, la testimonianza forse più im- portante della forza filosofica e spirituale di Simone Weil. Attraverso una prospet- tiva sensibile al pensiero della differenza sessuale (nel finale del saggio viene citata Adriana Cavarero, tra le filosofe femministe italiane di maggior rilievo), Zaretti mette in evidenza le contraddizioni vitali che caratterizzano il desiderio di radica- mento di Simone Weil, che ella riesce a sperimentare soltanto nella sventura e II Presentazione DEP n. 21 / 2013 nell’annientamento di sé; la sua morte è qualcosa di più e di diverso dal suicidio, è il conseguimento di quel distacco che, attraverso la condivisione della sventura umana, fino all’accettazione su di sé del rischio della morte, ha portato Simone Weil a fare delle sue riflessioni sulla morte un pensiero in atto, calato nel dramma storico europeo dell’avanzata nazifascista. L’“avidità di vita”, nel suo inscindibile legame con la morte, è per Paola Zaretti ciò che lega Simone Weil al destino di al- tri “testimoni dell’Assoluto” morti suicidi, come il goriziano Carlo Michelstaedter e lo scrittore giapponese Yukio Mishima. Il saggio di Pàmela De Lucia, Immagini in dissolvenza. Lettura “interessata” di Can The Subaltern Speak?, affronta anch’esso il tema dello sradicamento attraver- so la lettura di alcuni scritti della femminista indiana Gayatri Chakravorty Spivak. Può parlare “la più povera donna del Sud” – si chiede Spivak –, ovvero un soggetto doppiamente marginalizzato dall’economia e dalla subordinazione di genere, brac- cato da Imperialismo e Patriarcato? La subalterna è afona, senza voce. E questo “senza” – scrive De Lucia – si di- spiega nell’impossibilità ad esistere, ad essere presente, visibile, riconosciuta nello spazio pubblico. Spivak inventa allora un nuovo codice linguistico che viola il campo concettuale occidentale. L’Epistemic violence è la violenza alle forme della conoscenza perpetrata dall’Imperialismo, la violenza ai segni, ai valori, alle rappre- sentazioni del mondo, alla cultura, all’organizzazione della vita e della società dei paesi colonizzati. “Il Soggetto sovrano si è consolidato e costituito riempiendo il globo del suo modo di conoscere, delle sue rappresentazioni, del suo sistema di va- lori”. Un worlding of a world del Soggetto Maschio Bianco, come afferma Spivak, che ha creato i suoi Altri come oggetti da analizzare, assumendosi il potere/sapere di rappresentarli e, soprattutto di controllarli. Alla violenza epistemica Spivak sostituisce il primato dell’immaginazione, inte- so come “un modo di farsi altro, alterarsi, in una relazione non più pregiudicata dal circolo della precomprensione e del giudizio, ma che sia piuttosto accoglimento dell’altro e trasformazione di sé, in un movimento simultaneo”. Chiude la rubrica il saggio di Ljubica Kokova e Patrizia Romito “Per noi la guerra non è ancora finita” in cui vengono esposti i risultati di una ricerca svolta nel 2011 nel corso della quale sono state intervistate 21 donne bosniache, vittime di stupri o di altre violenze durante la guerra, e alcune operatrici sanitarie e attiviste. Le interviste hanno raccolto la sofferenza del ricordo, la difficoltà di parlare delle proprie esperienze, la pena di vivere. La ricerca inoltre rende conto delle condizioni economiche, abitative e di salute delle intervistate. Nella seconda parte del saggio le autrici rivolgono la loro attenzione al tema dello “spazio sociale” necessario per elaborare i traumi, ovvero il sostegno offerto, ma per lo più negato, alle donne dalla famiglia, dalla comunità, dallo stato. Oggi, infatti, le donne in Bosnia devono af- frontare, quasi sempre in povertà e in solitudine, le conseguenze drammatiche delle violenze subite. La realtà degli stupri, nota a tutti, è qualcosa di cui non si può an- cora parlare, e questo silenzio impedisce l’elaborazione del trauma e non favorisce riparazione e giustizia. Passando alla rubrica “Documenti”, in questo numero riproduciamo alcuni vo- lantini e due opuscoli di propaganda contro il blocco navale (tema già affrontato nel saggio L'arma della fame apparso nel numero 13/14 di DEP) a cura del Fight III Presentazione DEP n. 21 / 2013 the Famine Council: What the Army Thinks of the Blockade (1919) e Shall the Ba- bies Starve? (1920). I documenti ben descrivono il contesto politico ed etico in cui nacque il “Save the Children Fund” ad opera di Eglantyne Jebb e Dorothy Buxton, autrice, quest’ultima, dell’opuscolo del 1920. Altri due scritti a cura della Women’s International League for Peace and Free- dom, rispettivamente del 1942 e del 1944, affrontano il tema dell’aiuto alle vittime del nazismo, un tema che la rivista ha già proposto con la pubblicazione dell’opuscolo del 1943 di Eleanor Rathbone Rescue the Perishing (n. 12, 2010). Come ogni numero miscellaneo, anche il numero 21 include la rubrica “Finestra sul presente” dedicata, questa volta, alla condizione femminile in Afghanistan. Prendendo le mosse dal rapporto di Human Rights Watch sulle donne incarcerate per crimini morali, i testi raccolti nella rubrica descrivono una condizione di di- scriminazione, povertà e sofferenza, mettono in rilievo l’impegno delle donne per promuovere il cambiamento, sia nelle leggi che nelle istituzioni, si interrogano sul futuro del paese. Attraverso l’inchiesta della giornalista Sally Armstrong, l’intervista ai registi Razi e Soheila Mohebi, la rassegna delle opere degli scrittori che hanno posto l’Afghanistan al centro dei loro romanzi a cura di Silvia Camilotti e la ricognizione delle fonti sulle condizioni delle donne afghane reperibili in rete a cura di Matteo Ermacora, la rubrica offre alcuni strumenti per approfondire il tema da vari punti di vista. IV Helga Schneider: la storia mancata di una madre e di una figlia di Chiara Stella* Abstract: The story of Helga Schneider, an open-minded German woman born in Silesia in 1937, is one of the most original points of view about the tragedy of the Shoah. In fact, it is not just the storytelling of a woman who survived the deportation, but a unique perspective from a “child of the Shoah”. Even if she did not experience or directly see the horror of concentration camps, Helga Schneider became in some way an “indirect daughter” mostly for her mother’s role, who in Birkenau was appreciated and esteemed as one of the most efficient guardians of the camp, like a modern career woman. It was 6th October 1998, when, in a hotel room in Vienna, Helga was preparing to visit her mother, who was very ill. It was twenty- seven years since they had last met. What kind of feelings can a daughter have for a mother who refused her duty as a parent to join Heinrich Himmler’s organization? The ambiguity between resentment against that “willing executioner” and love, felt for the woman who was, after all, always her mother, represents – still today – one of the most precious elements of her experience. Bene, bisogna dire la verità, dapprincipio Momik pensava che Bella intendesse parlare davvero di un mostro immaginario o di un dinosauro gigantesco che esisteva una volta e tutti ne avevano paura. Ma non aveva avuto tanto coraggio di chiederle chi e che cosa […]. Bella gli aveva risposto con un tono aspro, che ci son certe cose che grazie a Dio un ragazzo di nove anni ancora non è obbligato a saperle, e con mano nervosa gli aveva aperto come al solito il bottone del colletto della camicia, e gli aveva detto che si sentiva soffocare al solo vederlo in quel modo, ma Momik aveva deciso di insistere, e le aveva chiesto che razza di bestia fosse la Belva nazista […]. E Bella aveva tirato una lunga boccata di fumo dalla sua sigaretta, e poi l’aveva spiaccicata forte forte nel posacenere, e l’aveva guardato, e poi aveva storto le labbra, e non voleva dir nulla, però le era sfuggito di bocca, e aveva detto che * Chiara Stella si è laureata nel giugno 2012 in Scienze filosofiche presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, con una tesi in Storia del pensiero etico-religioso intitolata “Perdere Dio per ritrovarlo in se stessi. Uno sguardo interiore sulla Shoah”. I suoi interessi di ricerca si concentrano su alcuni temi decisivi del dibattito filosofico moderno e contemporaneo, quali i diritti umani, il problema del male, il rapporto tra etica e religione e i legami tra letteratura, storia e filosofia. I suoi studi si dedicano inoltre ai temi del razzismo e della violenza contro l’altro, con particolare attenzione al ruolo rivestito dalle ideologie politiche e religiose nei fenomeni di intolleranza verso il “diverso”. © DEP ISSN 1824 - 4483 Chiara Stella DEP n. 21 / 2013 la Belva nazista in fondo poteva venir fuori da qualunque bestiaccia, se solo l’avessero allevata in modo adatto e col mangiare adatto1. La voce a cui appartengono queste parole è quella del protagonista e narratore di un romanzo di David Grossman, Vedi alla voce amore. Il piccolo Momik, figlio di deportati, sente continuamente parlare della Shoah in modo allusivo e oscuro e, proprio interrogandosi sul mistero dei numeri tatuati sulla pelle dei genitori, inizia a credere che la “Belva nazista” sia realmente un animale misterioso e senza dubbio feroce e terribile almeno quanto i mostri di cui si narra nelle favole. Per avvicinarsi alla verità, Momik dovrà crescere, diventare scrittore e seguire le tracce del nonno in Polonia, là dove la storia divenne Sacra “con tutta la violenza, la terribilità, talvolta la maledizione del Sacro, quando esso non è il semplice e spontaneo rispetto per tutto ciò che vive, bensì l’irrompere di una forza devastante”. Ma le “belve naziste” di cui parla il giovane – ossia i guardiani di Auschwitz, i diligenti esecutori di ordini disumani, coloro che “non sapevano perché volevano non sapere”2 – erano davvero soltanto “creature terribili”? Che cosa accade quando virtù umane quali la fedeltà, la disciplina e l’obbedienza non vengono più finalizzate al bene e alla giustizia, bensì subordinate alle idee e alla volontà di un partito o di un capo carismatico? Domande come queste mi hanno portata a scoprire e a conoscere – attraverso i fili che legano l’immensa letteratura sulla Shoah – l’originale voce di Helga Schneider, una delle testimoni più notevoli del Novecento, che scorse con i suoi stessi occhi la fine di quel Terzo Reich che si annunciava come “millenario”. Di origini tedesche, la Schneider, che vive in Italia dal 1963, ha pubblicato molte delle sue opere proprio in lingua italiana. Tuttavia, il racconto della sua esperienza si rivela qui significativo e fondamentale per il fatto che, oggi, esiste ancora pochissima letteratura critica riguardo alla sua vicenda. Sia nella produzione in lingua italiana, che in quella tedesca, risultano infatti ancora troppo modesti l’interesse e l’attenzione verso questa scrittrice, che meriterebbe, invece, un ruolo di primario rilievo nel panorama letterario, storico e filosofico della nostra epoca. Quali sono, dunque, le tracce più importanti lasciate dalla sua storia? Innanzitutto, come il piccolo Momik, anche la Schneider sente parlare dei campi di concentramento già durante la sua infanzia, a soli quattro anni. Una notte dell’inverno 1945, dopo che Helga e il fratellino Peter vennero portati, insieme ad altri “piccoli ospiti del Führer”, nel bunker della Cancelleria, la piccola avverte le chiacchiere di due madri, che parlano poco lontano a bassa voce, quasi in un sussurro: “Mio marito costruisce rifugi. Ma prima della guerra si occupava di cose molti più interessanti”. “Costruire rifugi mi sembra un ottimo mestiere di questi tempi, – osserva la Von Ahorn con una buona dose di cinismo”. “Bèh… è vero”. Nuova pausa. “Mio marito invece è un dirigente al campo di Dachau” – dichiara poi la Von Ahorn dandosi un certo tono. “Davvero? Ci sono anche ebrei in quel posto?”. “No, quelli li mettono in campi speciali”. 1 David Grossman, 'Ayen’ Erekh: Ahavà, Picador USA Edition, New York 1986; trad. it. di Gaio Sciloni, Id., Vedi alla voce amore, Mondadori, Milano 1988, pp. 18-19. 2 Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 1958, p. 161. 2

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Mi illusi che fosse un segno di Dio, che Dio mi volesse consolare rassicurandomi 226-231; Klaus Voigt, op. cit.; Antonietta Favati, Le internate.
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