Antonietta Pastore Nel Giappone delle donne Einaudi © 2004 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino In copertina: foto © Jason Dewey. © Stone / Getty Images / Laura Ronchi. Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo cosí come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche. 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Quando a volte con alcune amiche cenavamo fuori o andavamo al cinema senza scorta maschile – mariti, fidanzati, amici – dovevamo affrontare lo sguardo critico di tanti estranei. Cosa non sempre facile, o non per tutte. Per qualcuna – non io, che avevo sposato un giapponese – era necessario vincere la resistenza del proprio compagno. Superare inibizioni e condizionamenti. Ed ecco che durante il mio primo viaggio in Giappone, ovunque intorno a me, nei ristoranti, negli alberghi, a teatro, vedevo gruppi composti esclusivamente di donne. Né notavo il minimo segno di sorpresa, tanto meno di sconcerto, intorno a loro. Nessun risolino ironico, nessun sopracciglio inarcato. Totale disinteresse semmai. Deferenza professionale da parte di camerieri e inservienti, noncuranza da parte delle altre persone. Possibile che in un paese in cui la parità tra i sessi, da quel che avevo letto o sentito, era ancora lontana, le donne godessero già di una libertà che in Europa iniziavamo appena ad assaporare? Durante i sedici anni che ho trascorso in seguito in Giappone, dal ’77 al ’93, ho avuto modo di constatare quanto fosse giusta quella mia prima impressione: le donne giapponesi hanno un’ampia facoltà di muoversi autonomamente, di ritrovarsi con le amiche in caffè e ristoranti, andare al cinema e a teatro, spostarsi e viaggiare senza essere accompagnate da un uomo. Non solo: nei quartieri affollati del centro come in quelli meno frequentati delle periferie residenziali il pericolo di molestie o aggressioni è minimo. Una donna si sente tranquilla in questo paese, sia che percorra le viuzze piene di bar, ristoranti e night-club dove si accalca la gente la sera, sia che torni a casa, sola, per strade deserte. Nessuno la importuna se entra in un locale a bere qualcosa, nessuno le fischia dietro per la strada o si permette apprezzamenti. Il peggio che le possa capitare è di sentirsi addosso un’anonima mano maschile in un affollato vagone della metropolitana. Così a poco a poco anche un’occidentale si abitua ad abbassare la guardia, si libera di quell’inconscia e costante tensione che in Europa le fa immediatamente riconoscere, con un’infallibile sensazione d’allarme, un passo dietro di lei che viene a ritmarsi sul suo. Al tempo stesso, pur scoprendo una nuova libertà, la donna occidentale percepisce subito quanto il proprio modo di «stare al mondo» sia diverso da quello di una giapponese, quanto il proprio atteggiamento sia più appariscente, più ingombrante, al punto che finisce spesso col limitare, consciamente o no, la propria spontaneità. Per sentirsi in armonia con l’ambiente, per non stonare troppo. Per timore di venir giudicata poco femminile. O troppo spregiudicata, di conseguenza – in base al preconcetto che una donna libera è una donna facile – poco rispettabile. Cosa che allontana le altre donne e può far nascere negli uomini arbitrarie aspettative di natura sessuale. Nel mio caso, tutte queste motivazioni insieme hanno a lungo esercitato un’azione inibitoria sulla mia gestualità. Ogni donna occidentale che viva a lungo in Giappone subisce questa influenza? No, ne ho conosciute alcune sufficientemente sicure di sé per conservare intatta la loro spontaneità. Questa stessa sicurezza però spesso impediva loro di uscire dai propri condizionamenti culturali e avvicinarsi senza pregiudizi alla società giapponese. Credo sia difficile aprirsi a una cultura tanto diversa dalla propria senza subire in parte, almeno temporaneamente, una perdita d’identità. Discrezione è il primo termine che viene in mente per descrivere il comportamento della donna giapponese: occupa poco spazio, i suoi gesti sono contenuti, non fa movimenti che la mettano troppo in evidenza. È socievole e chiacchiera volentieri, ma il suo atteggiamento è sempre garbato, mai brusco né tanto meno sguaiato. La disinvoltura, la spigliatezza, che esulano dai canoni della femminilità, riescono difficili alla donna giapponese adulta. Al contrario, una preoccupazione di eleganza la rende a volte affettata, o falsamente impacciata: corre a passettini, cammina con i piedi all’indentro, quando ride si copre la bocca con la mano. Nel treno legge spesso un libro o una rivista, ma raramente ha la spavalderia di dispiegare un giornale, non accavalla le gambe, e se non legge tiene le mani compostamente unite in grembo o sulle ginocchia. Anche se mette il kimono solo nelle grandi occasioni, o forse mai, è raro che sia veramente elegante negli abiti occidentali, se per eleganza si intende anche sicurezza di portamento. Che indossi jeans e maglietta o che vesta all’ultima moda di Tokyo, che porti l’uniforme della ditta o abiti firmati, nel suo inconscio la donna giapponese è sempre in kimono. Per troppo tempo il suo corpo è stato modellato da questa tunica avvolgente, i suoi gesti sono stati condizionati da quest’indumento che ha una strana caratteristica: mentre nella versione maschile permette una grande scioltezza di movimenti grazie al semplice spostamento della cintura sui fianchi (basti pensare ai duelli dei samurai nei telefilm), nella versione femminile, con l’alto e rigido obi che fascia strettamente il busto, esercita una funzione repressiva della gestualità. Paradossalmente però, le donne più disinvolte, e quindi più eleganti, in questo paese, sono proprio quelle che, per abitudine, gusto o professione, portano ancora abitualmente il kimono: maestre di arti tradizionali, padrone di night-club e ristoranti di lusso, anziane signore benestanti. Forse perché, non avendo messo in discussione il ruolo che ricoprono nella società, sono le sole che si sentano veramente a proprio agio nei loro vestiti. A partire dall’inizio degli anni Novanta, tuttavia, la moda giovane, che è anticonvenzionale e liberatoria (minigonne inguinali, short ridottissimi, vestiti-sottovesti, ancora improponibili alla fine degli anni Ottanta) ha contribuito più di qualunque altro fattore a dare alle ragazze sotto i vent’anni, anche a quelle che restano ai margini dei trend più eccessivi, una certa spontaneità. È vero che quasi tutte tendono ancora e forse più che mai a bamboleggiare e a «fare le bambine» (prova ne sia la quantità di peluche, pupazzi e gadget infantili di cui si circondano), perché essere kawai – adorabili bamboline – è sempre considerato la quintessenza del fascino e del potere di seduzione femminile; ma si tratta di un atteggiamento più mentale che gestuale, adottato sì per condizionamento inconscio, ma anche per vezzo. Insomma le giovanissime, pur restando più a lungo immature (la resistenza a passare all’età adulta è peraltro comune ai due sessi e non la si riscontra solo in Giappone), sono più naturali e spigliate di quanto non siano mai state le donne delle generazioni precedenti. Una volta conclusasi la parentesi di permissività, quando verrà il momento di trovare un impiego, molte di queste ragazze torneranno a un abbigliamento più convenzionale, e assumeranno durante le ore d’ufficio quell’atteggiamento discreto e controllato che i canoni tradizionali di femminilità, e soprattutto il datore di lavoro, imporranno loro. C’è da sperare però che non perdano del tutto la spontaneità acquisita durante gli anni dell’adolescenza e della prima giovinezza. La maggior parte delle donne giapponesi, dunque, eccezion fatta per l’ultimissima generazione, assumono costantemente un atteggiamento misurato e composto che porterebbe a supporre in loro un rapporto inibito col proprio corpo. Supposizione rafforzata dal fatto che in pubblico, nonostante i cambiamenti profondi che la moda ha esercitato sui costumi, lo esibiscono meno delle occidentali: d’estate, sulle spiagge, di topless e tanga non se ne vedono, il bikini è prerogativa delle più giovani, e nelle città, con trentasei o trentasette gradi all’ombra e un’umidità soffocante, il buon gusto impone alle donne adulte di portare le calze di nylon. Ampie scollature e spalle nude non sono considerate decorose al di sopra dei trent’anni. Cosa dedurre da questi comportamenti? Sottomissione a norme più severe? Un esagerato senso del pudore? Ed ecco che s’incontra, facendo una passeggiata in campagna d’estate, qualche vecchia contadina che se ne va in giro a seno nudo, fedele ad abitudini secolari (nella campagna a nord di Osaka dove ho abitato per alcuni anni, l’anziana tabaccaia all’angolo della provinciale passava i pomeriggi estivi seduta dietro la cassa a sventolarsi il petto scoperto, tra lo sconcerto degli avventori di passaggio, ignari delle patrie tradizioni). Si va alle terme, ed entrando in un bagno pubblico nella sezione riservata alle donne si constata che tutte si spogliano con disinvoltura, giovani, meno giovani e vecchie ultraottantenni mostrano senza inibizioni carni sode o cascanti, pelli lisce o increspate di rughe. E siamo noi occidentali a provare un senso di disagio di fronte alla nudità quando non è giovane e fresca, a turbarci alla vista del decadimento portato dall’età: capelli bianchi disciolti, ventri sformati dalle maternità, seni avvizziti. Decadimento che in Europa si cercherebbe di celare e qui invece è rivelato con dignità, e visto con rispetto. Siamo noi a vergognarci di non corrispondere ai criteri di bellezza proposti dalla pubblicità, a provare imbarazzo per i nostri difetti, a muoverci in modo da coprire i più evidenti, ad arrossire di una mancata perfezione che in questo luogo nessuno si attende da nessuno. L’imbarazzo diventa ancora più forte quando, arrivando in qualche stazione termale di qualche provincia lontana, scopriamo che le terme pubbliche, quasi tutte all’aperto, sono miste: uomini e donne condividono, nudi, lo stesso spazio nella pozza di un torrente o nell’ansa di un lago dalle acque meravigliosamente calde. Unica concessione al pudore, un piccolo asciugamano. (Sfruttandolo al meglio, con una mia amica italiana ci decidiamo, dopo lunghe esitazioni, ad uscire dagli spogliatoi, e andiamo a immergerci nell’acqua, constatando con sollievo che la promiscuità ha limiti ben definiti, maschi da una parte della vasca, femmine dall’altra). Come si spiegano dunque questi comportamenti disinibiti in donne solitamente tanto castigate e pudiche? Si tratta per l’appunto – ci dice la ricerca storica e sociologica – del retaggio di antiche usanze, stravolte dal processo di occidentalizzazione: in altri tempi infatti tutte le terme erano miste in Giappone, così com’era normale per i contadini maschi e femmine andare in giro seminudi d’estate, o per le pescatrici di ostriche indossare soltanto un triangolo di stoffa che copriva il basso ventre. Ma un giro di vite a questa secolare naturalezza di costumi venne dato nell’era Meiji (1868- 1912), quando i governanti, volendo offrire all’Occidente un’immagine moderna e positiva del paese, imposero un modello di puritanesimo di stampo vittoriano che finì per alterare il senso del pudore della popolazione. La facilità disinibita con cui le donne solevano un tempo mostrare il loro corpo si è così quasi persa, è sopravvissuta soltanto in ambienti esclusivamente femminili o in circostanze particolari, come in quelle poche terme promiscue ancora rimaste, dove però è raro che si avventurino le giovani non ancora sposate. (Lo stesso discorso vale per il fumo: fino ai primi anni del Novecento era pratica corrente per le donne di tutte le classi sociali fumare il kiseru una piccola pipa dal lungo cannello, ma a poco a poco tale usanza venne considerata disdicevole). Terme e bagni pubblici non sono comunque i soli luoghi in cui le giapponesi escono dal bozzolo di riserbo per rivelare aspetti sorprendenti della loro personalità. Ha del miracoloso la metamorfosi che esse subiscono nel giro di pochi minuti quando si dedicano a qualche sport, il tempo di cambiarsi e prendere il proprio posto in palestra, piscina o terreno di gioco che sia (la stessa metamorfosi che dovevano subire nell’antichità le donne della classe nobile o samurai che imparavano a maneggiare la spada o l’alabarda). Messa da parte temporaneamente quella grazia controllata, quella goffaggine da finte ingenue così stucchevole, anche le più schive trovano di colpo nerbo e sicurezza di sé. C’è un cartone animato giapponese, molto amato dalle ragazzine italiane, che ben illustra questo tipo di comportamento. In Mila e Shiro, due cuori nella pallavolo, le componenti di una squadra femminile passano con estrema facilità da un atteggiamento pudico e bamboleggiante – occhioni sgranati, gesti contenuti, rossori imbarazzati – a un’aggressiva determinazione. Tirando fuori una grinta da far invidia a un campione di boxe, le atlete spiccano salti da gazzella, si buttano a terra, lanciano urla, dànno al pallone sventole tali da proiettarlo nel campo avversario con la potenza di un meteorite. E riportano immancabilmente la vittoria al termine di una partita che sembra una battaglia all’ultimo sangue. Dopo la quale ritrovano di colpo tutta la loro femminile modestia e s’inchinano graziosamente davanti all’allenatore – maschio – per ringraziarlo di averle portate a un tale livello di bravura. Pur nella sua esagerazione, questo cartone animato rappresenta bene una dicotomia presente nella personalità di gran parte delle donne giapponesi. Dicotomia che si manifesta quotidianamente, in maniera per fortuna meno accentuata, ogni volta che un’attività, professionale o no, le obbliga a rinunciare ai loro gesti soavi o impacciati per agire con efficienza: dalla cassiera del supermercato all’infermiera, dall’operaia all’impiegata di banca, tutte, pur restando garbate, eseguono il loro lavoro bene, rapidamente, e in maniera precisa. Altra sorpresa per l’osservatore occidentale: quando una coppia giapponese va al ristorante, al cinema o in qualche negozio, se i due sono sposati è normale che sia la donna a pagare e non l’uomo. Al momento di saldare il conto o di comprare i biglietti, sarà la moglie a tirar fuori il portafogli. È lei infatti che tiene i cordoni della borsa e decide in ogni occasione quanto si può spendere, sia per la famiglia intera che per ogni singolo membro di essa, marito incluso. Questa sua facoltà non è circoscritta alla piccola amministrazione quotidiana ma si estende anche a spese più considerevoli (comprare un mobile o un computer, fare un viaggio). Solo le decisioni veramente importanti, l’acquisto di un’automobile nuova, o a maggior ragione di un appartamento, verranno prese di comune accordo – o disaccordo – dalla coppia. Una contraddizione incomincia allora a delinearsi. Come coniugare efficienza e decisione, spontaneità e naturalezza, con quella cappa di inibizioni che continua a contenere, a ricoprire come una seconda pelle il corpo di queste donne? Come conciliare l’evidente autorevolezza della madre di famiglia, il suo libero potere d’acquisto, con l’atteggiamento sottomesso, addirittura servile, della donna nei confronti dell’uomo? Perché il sistema sociale che per secoli ha represso la donna non ha condizionato tutta la sua sfera d’azione, salvaguardando per lei sorprendenti zone di autonomia e un’innegabile libertà di movimento? Una prima spiegazione a queste apparenti contraddizioni è rintracciabile nel fatto che il Giappone trae origine da una società tribale di tipo matriarcale. Nei primi secoli dopo Cristo, i diversi gruppi familiari eredi delle culture Yōmon e Yayoi si erano organizzati in clan o comunità dette uji, ognuna con le sue divinità (kami) che corrispondevano alla figura di qualche antenato o antenata e alle varie manifestazioni della natura, prima fra tutte la fertilità. La donna, per la sua capacità di procreare, godeva di gran considerazione in questa società animista, tanto che era l’uomo a entrare nella famiglia della moglie, e intorno alla figura materna era organizzata la vita del clan, caratterizzata dalla naturalezza dei costumi. Anche il culto antichissimo della dea del sole, Amaterasu, alla quale la leggenda fa risalire la famiglia imperiale, è una testimonianza di quest’originario matriarcato (del quale parlano raramente gli storici ufficiali, mentre vi fa spesso riferimento la cultura popolare). Agli inizi della storia giapponese alcune donne salirono sul trono: l’imperatrice Jingo nel terzo secolo, Suiko, che favorì la diffusione del buddismo, nel sesto; nel settimo Jitō che fece compilare il primo codice di leggi, nell’ottavo Gemmyō che stabilì la capitale a Nara. E infine l’imperatrice Shōtoku, che regnò dal 764 al 770 dopo Cristo e fu grande patrona delle arti. Ma lo scandalo provocato da una sua relazione con un monaco troppo ambizioso indusse la corte a escludere le donne dall’esercizio del potere, e a vietarne nei secoli a venire l’ascesa al trono (solo nel 2001, quando la futura imperatrice Masako metterà al mondo una bambina, l’assenza di un erede diretto maschio indurrà il Parlamento a considerare la possibilità di togliere questo divieto). All’animismo delle origini, tuttavia, che fu in seguito chiamato shintō, la Via degli Dèi, vennero a sovrapporsi nel sesto secolo, un centinaio d’anni dopo la formazione dello stato di Yamato per agglomerazione di alcune uji più potenti, il buddismo e il confucianesimo; sistema filosofico – quest’ultimo – fortemente maschilista (secondo gli insegnamenti confuciani una donna deve sempre obbedire: prima al padre, poi al marito, infine al figlio). Importate dalla Cina, queste dottrine all’inizio trovarono seguaci solo tra le classi più alte, ma nell’ottavo e nel nono secolo si diffusero in tutti gli strati sociali. La condizione femminile subì allora un peggioramento sul modello della società cinese, dove vigeva un patriarcato estremamente discriminatorio nei confronti delle donne. L’animismo shintō però, con la sua impronta matriarcale e la naturalezza dei suoi costumi, oltre a evitare alle donne le forme più violente della repressione (le giapponesi non hanno mai portato il velo, non sono state recluse né hanno subito mutilazioni fisiche quali la costrizione del piede o l’infibulazione) continuò a far sentire la sua influenza sia nella classe contadina, che costituiva fino a un centinaio di anni fa circa l’85 per cento della popolazione, sia alla corte di Kyoto, dove le donne svolsero un ruolo culturale importantissimo. Le grandi opere della letteratura classica furono scritte da donne della nobiltà in un alfabeto sillabico di loro invenzione, poiché era negato loro l’apprendimento degli ideogrammi importati dalla Cina (la scrittura attuale è un misto dei due alfabeti): nel Man’yōshu, la più antica antologia poetica del Giappone con oltre 4500 opere, realizzata grazie all’interessamento dell’imperatrice Shōtoku, la maggior parte degli autori sono nobili dame. Grandi poetesse furono Ono-no-Komachi, mitica bellezza, nel nono secolo; tra il decimo e l’undicesimo Sei Shonagon, la cui opera più famosa è Makura no Sōshi («Racconti del Cuscino», un incantevole diario in cui viene descritto il raffinato e permissivo ambiente della corte), e Murasaki Shikibu (978? -1015?), autrice del capolavoro della letteratura giapponese di tutti i tempi, il Genji Monogatari («Storia di Genji, il principe splendente»). Queste opere maggiori e numerose altre testimoniano di una forte presenza delle donne nella vita di corte, dove godevano di grande prestigio e manifestavano indipendenza di pensiero. Tutte prerogative che esse persero però gradualmente col rafforzarsi del confucianesimo. A poco a poco obbedienza e sottomissione vennero considerate le principali, se non le sole, virtù femminili. La situazione peggiorò ulteriormente alcuni secoli dopo, nell’era feudale Edo (1600-1868), quando l’indebolimento progressivo della corte e il consolidarsi del potere degli shōgun e dei samurai portarono all’esaltazione delle arti marziali e del valore militare: le donne vennero relegate in una posizione di inferiorità e totale dipendenza, soprattutto nelle classi sociali più alte, dove il rispetto per l’individuo era direttamente proporzionale alla sua abilità nel maneggiar la spada. I samurai furono i primi a confinare le loro donne nel ruolo di mogli e madri devote, e a dare una grandissima importanza alla castità delle loro spose, con la conseguenza che queste, se avevano la vita più facile dal punto di vista materiale, erano di gran lunga le meno libere di muoversi (le più ricche, servite da una schiera di servi maschi e femmine, uscivano di casa solo per render visita a qualche loro pari o recarsi a qualche cerimonia, sempre in risciò o in portantina, e con un tale sfoggio di magnificenza da far accorrere