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Nativo Americano - La voce folk di Bruce Springsteen PDF

267 Pages·2016·1.66 MB·Italian
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Marina Petrillo NATIVO AMERICANO La voce folk di Bruce Springsteen Feltrinelli © Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Prima edizione nella collana “Varia” settembre 2010 ISBN edizione cartacea: 978-88-07-49097-2 INDICE I 1 Voci di fantasmi 2 Il fiume 3 Tom Joad 4 La fiaba nera 5 Questa terra dura II 6 Il lupo fra i pini 7 Le mie piume lunghe e nere 8 La fabbrica 9 Il confine III 10 Con queste mani 11 Il dito sul grilletto 12 Canzoni sacre 13 Liberami dal nulla Sorto dall’acciaio Note sulle fonti 1 – Voci di fantasmi 2 – Il fiume 3 – Tom Joad 4 – La fiaba nera 5 – Questa terra dura 6 – Il lupo fra i pini 7 – Le mie piume lunghe e nere 8 – La fabbrica 9 – Il confine 10 – Con queste mani 11 – Il dito sul grilletto 12 – Canzoni sacre 13 – Liberami dal nulla Sorto dall’acciaio Bibliografia: Articoli e interviste: Discorsi: Documentari: Sitografia: Filmografia: Ringraziamenti Autore inquieto e osservatore attento dei meccanismi del successo, Bruce Springsteen ha influenzato generazioni di giovani, venduto milioni di dischi e respinto definizioni ed etichette. Accanto alla fama di irresistibile maestro di cerimonie del rock, ha maturato una sempre più consapevole identità acustica e si è fatto custode di un'antica tradizione popolare. I suoi personaggi sono operai, disoccupati, migranti, assassini, reduci di guerra, ex galeotti: tutti figli ideali di Tom Joad, il protagonista di 'Furore' di John Steinbeck. Marina Petrillo si lascia guidare dalla "voce folk", quella con cui Springsteen sa rievocare i personaggi di Steinbeck, i paesaggi di Faulkner, le ballate di Woody Guthrie fino al blues, al gospel e allo spiritual. Dai boschi stregati di 'Nebraska' al tour solitario di 'The ghost of Tom Joad', da 'Devils & Dust' alle esperienze con la Seeger Sessions Band e la campagna elettorale di Barack Obama, la voce folk è quella in cui si materializza la voce del vero narratore. Da lì, e soprattutto da lì, dice Petrillo, affiora la voce del mistero e della passione civile. Rigoroso nella ricostruzione di uno Springsteen quasi inedito, 'Nativo americano' è un libro avvincente come una ballata. A Leila, mia madre, che mi ha messo nelle mani della musica, e a Ermanno, che nelle mani della musica un giorno mi ha trovato. “Saper immaginare cosa si prova a essere qualcun altro all‟infuori di se stessi, questo è il nocciolo della nostra umanità. È l‟essenza della compassione, e l‟inizio dell‟etica.” IAN MCEWAN, “The Guardian”, quattro giorni dopo l‟11 settembre I Ieri sera Strasburgo, oggi Bruxelles. Voglio vederne ancora. Stringo fra le dita un biglietto fortunato, tenuto da parte per chi arriva da lontano. Ancora affannata per aver corso nella piazza del Palais des Beaux-Arts, ho seguito la maschera lungo il corridoio. Quando ha indicato il mio posto credevo scherzasse. Riesco a toccare il bordo del palco con le dita. Sotto un piccolo faro luccica l‟asta del microfono. Dietro di me il respiro di tutta la sala. Sappiamo cosa accadrà, ma mai con esattezza. Nella penombra di questo cerchio di canzoni vedremo anche quello che non c‟è: il guizzo di un cavallo bianco, il bagliore di una canna di fucile. Vedremo sorgere il sole e lo vedremo tramontare. Sarà una danza commovente e spaventosa. Si spengono le luci, l‟attesa fra lampo e tuono. Alla mia sinistra un suono sordo. Poi un altro. È un rumore di passi e si avvicina. Tacchi di stivali sul legno. Dalla tenda di velluto una lama di luce. Sta entrando. Un uomo da solo in un tempio di pietra e ossa. 1 Voci di fantasmi “Sentivo il vento che mormorava fra gli alberi e voci spettrali si levavano dai campi.”1 BRUCE SPRINGSTEEN, My father‟s house Pete Seeger compie novant‟anni, e gli amici hanno organizzato una festa-concerto per lui al Madison Square Garden. Il decano del folk, in camicia rossa e berretto blu, guizza fra gli invitati col banjo a tracolla. Bruce Springsteen sale sul palco da solo e comincia a raccontare. Parla di una fredda giornata di gennaio, quando si è trovato a cantare al fianco di Seeger alla cerimonia di insediamento di Barack Obama. Il fatto stesso di essere cresciuto negli anni sessanta, in cittadine segnate dalle rivolte razziali, ha reso quel momento “quasi impossibile da credere”. Ai piedi della statua di Lincoln, racconta, ha guardato a lungo il grande vecchio, il compare di scorribande di Woody Guthrie, il portavoce più longevo della musica popolare americana e delle lotte per i diritti civili. Il primo presidente afroamericano degli Stati Uniti era seduto a due passi da loro. Anch‟io ho seguito quel concerto di Washington su YouTube. Dopo aver ascoltato la musica di Bruce Springsteen per due terzi della mia vita, e averne scritto e parlato alla radio per quasi metà, vederlo infine accanto a Pete Seeger era il suggello di una circostanza storica. Non mi era difficile immaginare cosa significasse per Bruce vedere illuminata all‟improvviso la faccia in ombra del suo paese, quella di cui aveva sempre cantato. Ma Seeger, instancabile, aveva lavorato a quella vittoria per settant‟anni, da prima che lui nascesse. Bruce, la stella del rock, come era arrivato fin lì? A cantare per cinquecentomila persone così entusiaste da non sentire il vento tagliente che spirava sul Mall? A condividere con quella leggenda del folk le due strofe censurate di This land is your land? Che cosa aveva fatto di lui il tramite fra la tradizione e il nuovo impegno civile? Di tutte le narrazioni parallele e intrecciate della sua vita, quella era la meno frequentata: la storia di come fosse arrivato a elidere la distanza fra il pop e la musica di lotta, a farsi tramite e prosecutore di quell‟immenso patrimonio di canzoni dei campi, delle fabbriche, delle chiese e dei sindacati. Alla festa di compleanno di Seeger, Springsteen canta The ghost of Tom Joad. Conscio della tradizione a cui essa si aggancia, mormora: “Uomini a piedi lungo i binari/ diretti in un posto da cui non si ritorna/ elicotteri della stradale che spuntano dalla collina/ minestra a scaldare sul fuoco sotto il ponte/ la coda per il rifugio che si allunga dietro l‟angolo/ benvenuti al nuovo ordine mondiale/ famiglie nel Sudovest che dormono in macchina/ non c‟è casa né lavoro né pace né riposo”.2 Cantata con una voce antica su pochi cenni di chitarra acustica, The ghost of Tom Joad nasconde in realtà una ritmica hip-hop. Springsteen l‟aveva scritta a metà degli anni novanta, evocando una seconda Grande Depressione proprio nel cuore del cosiddetto “nuovo ordine mondiale”. Il suo Tom Joad era il fantasma di quel “vecchio Tom Joad” raccontato in letteratura da John Steinbeck, al cinema da John Ford e in musica da Woody Guthrie: archetipo americano, spettro tangibile che nell‟album a cui dava il nome sfilava alla testa di un corteo di diseredati, fantasmi anch‟essi perché “quasi senza lacrime e quasi senza voce”, spogliati di ogni diritto, ammutoliti, una moltitudine definita soltanto da quel terribile rosario: “niente casa niente lavoro nessuna pace nessun riposo”. Il tour di Tom Joad in solitaria, fatto quasi delle ossa nude della musica di Springsteen, fu per me un ritrovamento e una scoperta. In effetti, lo restituiva alla mia generazione, esclusa dall‟era leggendaria dei primi tour che sentiva raccontare da chi aveva viaggiato fuori dall‟Italia per vederli. A un livello più personale, Tom Joad mi riconsegnava il Bruce narratore, in una forma che avrebbe accompagnato il mio sguardo da adulta. Fino alla pubblicazione di Streets of Philadelphia, la generazione di mezzo dei suoi fan viveva ancora, non solo in Italia, nella nostalgia di un‟epoca perduta. Quel nucleo della mitologia springsteeniana – Born to run, Darkness, The river – era durato cinque o sei anni, ma aveva imprigionato Springsteen molto più a lungo. Oggi che l‟arco della sua carriera copre quasi quarant‟anni, e che gli ultimi quindici hanno portato qualcosa di nuovo al suo lavoro, lo Springsteen che ci appartiene di più è quello che ha lavorato mentre diventavamo adulti noi, quello che ha sparigliato le carte negli anni novanta, quello imprevedibile ed eclettico degli anni Duemila passati sempre in tour. Non aver vissuto il tour di Darkness mi manca, certo, un po‟ come mi manca non aver mai visto i Beatles; con la differenza che ancora oggi, ogni tanto, riesco a vedere negli occhi di Springsteen lo sguardo del ragazzo posseduto del 1978. Il suo primo concerto per me è stato quello di San Siro dell‟85. Sebbene avessi cominciato ad ascoltarlo a tredici anni, il mio battesimo con la sua musica (che, come si sa, può avvenire solo dal vivo) ha coinciso con il suo primo tour commerciale e di massa. Non ha importanza che il disco che aveva cambiato il mio mondo di ragazza fosse Nebraska: restavo una figlia di Born in the Usa, quel disco che aveva fatto lamentare ai fan di lungo corso, con una gelosia tipica del rock, che ormai “tutti” ascoltassero Springsteen. E quello strano complesso è stato duro a morire. Born to run, Darkness e The river, che crescevano in statura a ogni concerto, erano classici talmente inarrivabili da condannare perfino Springsteen a non poterli mai eguagliare. I fan della prima ora intuivano che quell‟epoca aveva un‟innocenza irripetibile, sospesa com‟era tra il punk e la nascita della cultura di Mtv. Springsteen non poteva che avviarsi a un lento e inesorabile esaurimento delle proprie risorse. Più era amato e pagato e più si sarebbe allontanato dall‟urgenza e dalla fresca ispirazione degli esordi. Ma il senno di poi ha qualche pregio. Se all‟epoca della sua uscita Born to run veniva salutato come un “compendio di vent‟anni di tradizione rock”, oggi quella tradizione di anni ne ha cinquanta. Le prospettive sono cambiate, e con loro anche la collocazione storica di Springsteen. Nel frattempo c‟è stato il grunge, l‟hip-hop, il postrock, il new soul, sono morti il vinile e il cd. Bruce è riuscito a svolgere il filo d‟Arianna della tradizione rock portandoselo addirittura sul web e nei social network. Ha seguito la tradizione ma ha respinto il tradizionalismo, quello che si incarna anche nella tendenza naturale del pubblico alla conservazione. Ed è stato esplorando la tradizione che è riuscito a rinnovarsi. Nelle sue mani, nonostante i giovani angeli caduti come Kurt Cobain e Jeff Buckley, la sostanza del rock si è fatta adulta. Nel suo sguardo, il rock non è più la fiera bestia arrabbiata degli anni settanta, o quella degli anni ottanta addomesticata per profitto, ma qualcosa di più naturale e duraturo: un‟altra mutazione, straordinaria, della musica popolare. Nel tour di Tom Joad la mia generazione si accorse anche di non essere l‟ultima. Accanto a noi c‟erano ragazzi che nell‟85 facevano la prima elementare, e per loro il nostro complesso sull‟“epoca perduta” non

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