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Mondi perduti. Una storia dei nativi nordamericani, 1700-1910 PDF

386 Pages·2019·3.487 MB·Italian
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Aram Mattioli Mondi perduti Una storia dei nativi nordamericani, 1700-1910 Traduzione di Elena Sciarra Elenco delle illustrazioni 1. Domini coloniali nell’America del Nord, 1750. 2. L’America del Nord dopo la guerra dei sette anni, 1763. 3. Gli Usa dopo la guerra d’indipendenza, 1783. 4. Itinerario della spedizione di Lewis e Clark. 5. Espansione territoriale degli Usa, 1783-1853. Sono passate sette vite da quando i primi europei sono arrivati sulle coste dell’America del Nord. I nostri antenati, è chiaro, vi abitavano già da molte migliaia di anni. Ma fin da quel primissimo incontro, fra di noi hanno cominciato a verificarsi eventi straordinari. Quel contatto iniziale ha provocato un’onda d’urto che è stata avvertita dagli indiani di tutto il continente. Ed è avvertita ancora oggi. TOMSON HIGHWAY, membro della nazione cree, 1989. Il ciclone della civiltà si è spostato verso ovest; foreste antiche di secoli sono state spazzate via; i fiumi si sono seccati; i laghi si sono ritirati dai loro vecchi confini; e tutto ciò su cui i nostri padri amavano posare lo sguardo è stato distrutto, deturpato o guastato, tranne il Sole, la Luna e i cieli stellati lassú in alto, che il Grande Spirito nella sua saggezza ha posto al di fuori della loro portata. SIMON POKAGON, potawatomi, The Red Man’s Rebuke, 1893. Premessa Ci sono temi che ci accompagnano da una vita senza che sappiamo spiegarne esattamente il perché. Uno di questi temi è stato ed è tuttora, per me, la distruzione dell’America del Nord indigena e il connesso annientamento, o quasi, dei cosiddetti first peoples o «primi popoli». Come tanti della mia generazione sono cresciuto con le riduzioni cinematografiche di Winnetou e di Calza di Cuoio, con i fumetti e naturalmente con i western americani, che negli anni Settanta venivano trasmessi negli orari migliori. Ben presto cominciai ad avere l’impressione che in quelle epopee eroiche c’era qualcosa che non tornava. Anche se, partiti per «regioni selvagge», si appropriavano di territori altrui e facevano strage di indiani, i trapper, i coloni, i cowboy e i cavalleggeri bianchi venivano sempre dipinti come i buoni. Nel febbraio del 1973 la notizia, diffusa dalle televisioni di tutto il mondo, che alcuni attivisti dell’American Indian Movement avevano occupato Wounded Knee, una località del South Dakota ricca di valore simbolico, sconvolse quel mio mondo fantastico che si alimentava di fumetti, libri e film. Per settimane, nella riserva di Pine Ridge, i lakota oglala e i loro simpatizzanti si scontrarono con la guardia nazionale, armata fino ai denti, per attirare l’attenzione sulle loro difficili condizioni di vita. I coraggiosi discendenti degli sconfitti di un tempo erano scesi in campo per ottenere maggior autodeterminazione ed erano disposti anche a morire pur di riuscirci. Il fatto che quegli indiani ritenuti scomparsi esistessero ancora e fossero tornati a lottare mi affascinò immensamente. Qualche tempo dopo, vedendo Piccolo grande uomo di Arthur Penn, grazie al personaggio di Jack Crabb (interpretato da Dustin Hoffman), mi resi conto che gli avvenimenti rappresentati nel film risalivano ad appena qualche generazione prima della mia e che gli ultimi testimoni di quell’epoca, il XIX secolo, non erano morti da tanto. Come centinaia di migliaia di altri occidentali, di lí a poco lessi il celeberrimo Seppellite il mio cuore a Wounded Knee (1972) di Dee Brown, il mio primo testo storico sull’argomento: mi aprí gli occhi sulla tragedia che tra il 1860 e il 1890 si era consumata nelle Grandi Pianure, ma anche nel Sudovest. A Basilea, durante l’università frequentai i corsi di Hans R. Guggisberg sulla storia degli Stati Uniti e lessi la sua opera di riferimento riguardante la nascita e l’ascesa di quella repubblica modello sull’Atlantico, in cui le «guerre indiane» sono affrontate solo di sfuggita. Nell’ambito della mia attività didattica, poi, anche se sarebbe passato del tempo prima che cominciassi a lavorare sul tema in prima persona, la storia della violenza di massa, del razzismo e del colonialismo di insediamento ha sempre occupato un posto importante. Proprio dal rilievo dato a questi argomenti è nato il mio libro sul progetto espansionistico di Benito Mussolini in Africa orientale (1935-41), uscito nel 2005, che mi ha condotto ai miei attuali interessi di ricerca. A ogni modo nel corso dei decenni non è venuta meno, pur con il mutare degli scenari geografici, la mia attenzione verso i vinti della storia che, malgrado la loro strenua resistenza, hanno finito per essere stritolati dall’inarrestabile modernizzazione del mondo. Questo libro è dedicato alla memoria di Lucy Pretty Eagle, che in realtà si chiamava Take the Tail, una bambina lakota nata due anni prima della battaglia di Greasy Grass (Little Bighorn). Nel novembre del 1883 i funzionari governativi la sottrassero ai genitori, che vivevano nella riserva di Rosebud, per portarla nella lontana Indian Industrial School di Carlisle, in Pennsylvania. Come migliaia di altri bambini indiani dalla fine dell’Ottocento, anche lei avrebbe dovuto essere «americanizzata» e radicalmente rieducata. Già cagionevole di salute, all’arrivo in collegio incominciò a stare cosí male che il 9 marzo 1884 morí. Take the Tail fu la trentaduesima di centonovanta bambini indiani che, tra il 1879 e il 1905, vennero sepolti nel cimitero di questo collegio modello. Aveva solo dieci anni1. ARAM MATTIOLI, 12 giugno 2016. Mondi perduti Capitolo primo Notazioni preliminari Dove sono, oggi, i pequot? Dove sono i narragansett, i mohawk, i pokanoket e tante altre tribú della nostra razza, un tempo potenti? Di fronte all’avidità e all’oppressione dell’uomo bianco si sono dissolti come neve al sole d’estate1. TECUMSEH, 1811. Lo sterminio pressoché totale dei popoli indigeni è uno dei fatti nodali della storia nordamericana. Insieme al crollo delle culture indiane dell’America centrale e meridionale, rappresenta una delle grandi catastrofi dell’umanità verificatesi prima del Novecento2. L’entità della distruzione è difficile da esprimere a parole e le cifre danno solo la misura numerica della tragedia: secondo le stime, nel 1492 vivevano tra i cinque e i dieci milioni di nativi americani nel gigantesco territorio a nord del Rio Grande; nel 1900 ne rimanevano appena 237 000 sul suolo statunitense3. A partire dal 1513, quando il conquistatore spagnolo Juan Ponce de León scoprí, primo europeo a mettervi piede dall’epoca dei vichinghi, la penisola della Florida, perse la vita un numero imprecisato e non piú accertabile di nativi per malattie, fame, riduzione in schiavitú e incuria da parte dello stato, ma anche a causa di guerre, massacri, trasferimenti coatti, cacciatori di taglie e sistematica devastazione culturale. Poco dopo i primi contatti con gli europei, parecchi popoli indigeni scomparvero dalla faccia della terra, mentre chi sopravvisse all’impatto porta, a volte ancora oggi, i segni dell’onda d’urto della colonizzazione euroamericana4. La catastrofe, tuttora incompresa nelle sue reali dimensioni, solleva dubbi inquietanti riguardo al «progetto normativo dell’Occidente» (Heinrich August Winkler) e getta ombre sull’opinione diffusa secondo cui la conquista euroamericana del continente avrebbe rappresentato una marcia verso il progresso per tutti coloro che lo abitavano5. Oggi appare sempre piú evidente che la trasformazione, tanto rapida quanto profonda, avvenuta dopo il 1780, andó di pari passo con lo sradicamento, il soggiogamento e la decimazione delle popolazioni indigene. La marcia trionfale della modernità e una crescente integrazione economica mondiale innescarono processi di marginalizzazione caratterizzati da un dinamismo senza precedenti. Nel lungo secolo XIX, questi processi ridussero l’antica varietà delle culture umane, provocando lo «stato di premorte dei nativi» (Christopher Bayly). Attraverso i disboscamenti, l’estrazione di materie prime e la messa a coltura di vaste praterie, inoltre, si modificarono profondamente gli ecosistemi dei territori extraeuropei6. L’«offensiva globale contro le forme di vita tribali»7 si può esemplificare considerando la distruzione dell’America settentrionale indiana. A questo scopo, però, occorre adottare una prospettiva storica diversa da quella che per molto tempo ha prevalso su entrambe le sponde dell’Atlantico e in parte ancora condiziona l’idea che ne abbiamo oggi. Fino agli anni Sessanta del Novecento, quasi tutti gli storici hanno descritto la storia degli Stati Uniti come se le popolazioni indigene non fossero mai esistite, o ne hanno minimizzato l’importanza storica al punto da ridurle, nelle loro interpretazioni, tutt’al piú al ruolo di comparse8. Tale invisibilità dei nativi americani è evidentemente una «conseguenza della loro sconfitta militare e del loro spossessamento economico»9. Nella narrazione dominante, quella degli Usa è stata descritta come la straordinaria storia dei successi e del progresso di una nazione in cui il principio illuministico di libertà ha conosciuto trionfi precoci e i pionieri di origine inglese hanno trasformato i territori incolti della wilderness in un fiorente giardino con il lavoro delle loro mani10. Già a metà dell’Ottocento lo storico George Bancroft sosteneva che, prima della colonizzazione euroamericana, il continente era soltanto un «deserto improduttivo», abitato unicamente da «tribú sparse di deboli barbari» che non conoscevano la pratica del commercio né avevano eretto monumenti significativi11. Senza avere rispetto per i popoli indigeni argomentava anche Frederick Jackson Turner nel 1893 quando, in occasione dell’esposizione universale di Chicago, presentò per la prima volta la tesi della frontiera. Come per molti storici dopo di lui, anche per Turner la storia degli Usa era caratterizzata in modo decisivo dalla costante espansione verso ovest. «L’esistenza di una superficie di terra libera, il suo continuo arretramento e l’avanzata verso ovest della colonizzazione spiegano lo sviluppo americano»12: ecco l’affermazione chiave della sua famosa conferenza. Alla frontiera, gli «agricoltori pionieri» avrebbero dato vita alle peculiari caratteristiche americane (per esempio l’individualismo, l’ugualitarismo, l’amore per la libertà) e sperimentato una

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