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Micromega: 5/2019. Almanacco della scuola PDF

289 Pages·2019·1.659 MB·Italian
by  AA.VV.
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Se si vuole che la democrazia prima si faccia e poi si mantenga e si perfezioni, si può dire che la Scuola a lungo andare è più importante del Parlamento e della Magistratura e della Corte costituzionale. Piero Calamandrei direttore: Paolo Flores d’Arcais con la collaborazione di Cinzia Sciuto Ingrid Colanicchia Giacomo Russo Spena Roberto Vignoli www.micromega.net sommario IL SASSO NELLO STAGNO Alessandro Barbero Se la scuola muore ICEBERG 1 parola di insegnante Stefania Marchetti Confessioni (disperate) di una prof. Christian Raimo La scuola, cuore della città Francesca Antonacci e Monica Guerra Una scuola diversa è possibile (ed è già realtà) Carlo Scognamiglio Il paradosso dell’inclusione che esclude Onofrio Nardella Sostegno: luci e ombre di un sistema all’avanguardia Eraldo Affinati Le scuole Penny Wirton Marilù Oliva La scuola aperta: una proposta per le superiori DIALOGO 1 Ernesto Galli della Loggia / Tomaso Montanari Quale scuola per il futuro? LABIRINTO Vera Gheno Felici e connessi (Per un’alfabetizzazione digitale nelle scuole) Paolo Berdini Per studiare servono luoghi belli Salvo Intravaia Professione docente Cristiano Corsini Luci e ombre delle prove Invalsi Rossella Benedetti Scuola: come funziona nel resto d’Europa Checchino Antonini Il ritorno delle scuole popolari Ismaele Calaciura Errante e Francesco Paolo Savatteri A.A.A. Politica studentesca cercasi SAGGIO 1 Paolo Ercolani Verso una società ottusa? DIALOGO 2 Girolamo De Michele / Antonio Vigilante Critica della ragione scolastica SAGGIO 2 Carlo Barone e Antonio Schizzerotto A che serve studiare? ICEBERG 2 Luciano Canfora ‘Italiani, vi esorto alle storie’ Nicola Gardini Studiare il latino fin dalle elementari Ezio Bosso Musica, maestro! (Insegnare le note dalla più tenera età) Nicola Grandi Buone pratiche per l’insegnamento delle lingue Francesco ‘Pancho’ Pardi Un elogio della geografia NOTIZIE SUGLI AUTORI COLOPHON il sasso nello stagno SE LA SCUOLA MUORE Ossessionata dalla valutazione, sommersa dalle scartoffie, genuflessa al dogma del mercato, la nostra scuola sta soffocando. E noi stiamo a guardare. Eppure basterebbe poco per invertire la rotta. Non è neanche un problema di soldi (che naturalmente non guasterebbero). Sarebbe sufficiente per esempio che gli insegnanti fossero lasciati in pace a fare il loro lavoro, anziché costringerli a buttare via il loro tempo per compilare inutili incartamenti e stressarli con assurde valutazioni. E basterebbe tornare a pensare che la scuola deve produrre teste pensanti, e non meri esecutori di mansioni. ALESSANDRO BARBERO In tutto l’Occidente il declino della scuola pubblica è un fenomeno storico ben riconoscibile da qualche decennio. Ovviamente esistono differenze da un paese all’altro, perché ci sono luoghi in cui da sempre frequentare la scuola pubblica significa ricevere un’istruzione giudicata di serie B (e dove quindi la classe dirigente manda i suoi figli esclusivamente in scuole private, come capita ad esempio negli Usa), e altri – come l’Italia – in cui la qualità più alta è sempre stata garantita dai licei pubblici; e non solo da quelli famosi delle grandi città (il Parini, il Mamiani, il D’Azeglio, scuole i cui nomi sono parte della storia della società e della cultura italiana). Al di là delle differenze nazionali è però evidente che in tutto l’Occidente la scuola pubblica è in crisi e che sta subendo un progressivo abbassamento di livello. L’allergia al pensiero critico della classe politica e imprenditoriale L’insufficienza delle risorse è solo uno dei problemi, anche se spiega molte cose. Per limitarci a un esempio, nel gennaio di quest’anno il colossale sciopero degli insegnanti a Los Angeles («frutto di anni di frustrazioni», osserva il Guardian) ha rivelato il declino del sistema scolastico californiano, che una volta era il migliore degli Stati Uniti: «Gli insegnanti lottano con classi sovraffollate e bambini le cui necessità di sostegno, assistenza psicologica e aiuto nell’apprendimento dell’inglese superano di gran lunga le possibilità della scuola». Nei quartieri poveri gli insegnanti comprano stracci e detersivi e fanno loro stessi le pulizie alla fine della giornata: il tutto in uno Stato, la California, che ha la più alta concentrazione di miliardari sulla Terra1. Ma la scarsità di mezzi non basta a spiegare le difficoltà in cui si dibatte la scuola. Il problema più grave è l’approccio culturale: l’indifferenza, se non l’ostilità, della classe politica nei confronti della scuola e degli insegnanti. Un’ostilità neanche tanto nascosta quando si tratta della destra: in Italia è innegabile l’antipatia di un intero settore dell’opinione pubblica nei confronti di un mondo, quello degli insegnanti, tradizionalmente considerato di sinistra). Ma il problema va al di là della collocazione politica e dell’orizzonte italiano, anche se l’Italia, per l’estrema inadeguatezza e ignoranza della classe politica, è particolarmente indifesa. La minaccia più insidiosa è l’ideologia unica del profitto, l’esaltazione dell’imprenditoria come sale della terra, l’attenzione esclusiva all’economia e al mercato. Ne risulta una classe dirigente che non capisce letteralmente più a che cosa servano la cultura e lo spirito critico e che, quando lo capisce, li considera pericoli da neutralizzare. La scuola non deve produrre teste pensanti, ma esecutori, tecnici: è solo in questi termini che la classe dirigente riesce a concepirla. Va da sé che in questa prospettiva la scuola si giustifica esclusivamente come preparazione al lavoro, in maniera ben diversa da quando a scuola andavano soltanto i figli della classe dirigente. Gli istituti più prestigiosi offrivano allora una formazione completamente scollata dalla realtà pratica del mondo del lavoro ed è proprio questo che la borghesia voleva per i propri figli. Ora che a scuola vanno tutti, invece, improvvisamente questo non va più bene. In passato era ovvio che andare al ginnasio anziché a una scuola di avviamento professionale rappresentasse un enorme vantaggio, da cui infatti le masse erano escluse; oggi nessuno osa più dire che la formazione culturale impartita dalla scuola arricchisce e avvantaggia chi la riceve soprattutto se è indipendente dalla formazione professionale. Durante la prima guerra mondiale, l’esercito chiamava come ufficiali per comandare i plotoni anche giovani di 19 anni, purché diplomati. Il latino serviva a impartire gli ordini? Evidentemente no, ma si dava per scontato che una formazione scolastica completa preparasse una persona più forte e più capace in ogni ambito della vita. Nei decenni delle lotte per i diritti, del welfare state e della crescita dell’uguaglianza, dalla fine della seconda guerra mondiale fino agli anni Settanta, questa concezione si è allargata senza snaturarsi. L’idea era che la scuola servisse a formare il libero cittadino e che per questo tutti dovessero andarci il più a lungo possibile, fino a quattordici anni, poi fino a sedici, e che questo dovesse essere un obbligo, per evitare che nelle classi sociali più disagiate prevalesse la tentazione di mandare i figli a lavorare, privandoli così di una possibilità di miglioramento (umano, prima ancora che sociale ed economico) che invece doveva essere garantita a tutti. All’epoca un bambino, o un ragazzo, che andava a lavorare anziché a scuola era guardato con tristezza, visto come uno «spreco» e come un indicatore di arretratezza del paese. Oggi invece c’è l’alternanza scuola-lavoro: per la prima volta da secoli si è invertita la spinta a garantire a tutti un periodo di scuola il più lungo e libero possibile e si è cominciato a dire che restare a scuola fino a diciott’anni senza essere obbligati a lavorare è un lusso o una perdita di tempo, che allontana dal cosiddetto mondo reale. In molti casi gli insegnanti che gestiscono l’alternanza scuola-lavoro riescono, con grande e non ricompensata fatica personale, a trarne un’esperienza utile per i loro ragazzi, ma in altri casi non siamo lontani dalla concezione sovietica per cui gli studenti d’estate dovevano andare a raccogliere le patate – salvo che qui alla base non c’è nemmeno l’egualitarismo sovietico, ma la realizzazione del progetto, sempre presente nei programmi dei governi di destra, di ridurre di fatto l’obbligo scolastico sostituendolo con percorsi lavorativi. Burocratizzazione L’altro dramma che investe la scuola riguarda la fatica degli insegnanti e lo spreco obbligatorio del loro tempo, frutto di un cancro di cui soffre oggi tutta la società, ma in modo particolarmente grave il settore pubblico: la burocratizzazione. La scuola è aggredita dalla cultura imperante della pianificazione, dell’offerta formativa, delle sigle ridicole, della burocrazia kafkiana e della perdita di tempo istituzionalizzata, delle riunioni inutili e dei moduli da riempire, magari al fine conclamato di certificare il merito e la qualità. È un’aggressione che subiamo tutti, e che nasce da un processo di cui non si ha ancora abbastanza coscienza: la tendenza della burocrazia a impadronirsi della società, a rendersi non solo indispensabile, ma padrona in tutti gli ambiti. La burocrazia sa bene che per fare questo deve elaborare sempre nuovi regolamenti, imporre nuovi adempimenti, costringere a compilare altri moduli. (Domanda rivolta a quattro insegnanti: «Quanto tempo passate a compilare scartoffie?». Risposta concorde: «In certi periodi, il doppio del nostro lavoro», dove è interessante la percezione che compilare scartoffie non sia il loro lavoro, ma solo qualcosa che sono costretti a fare2). Il paradosso è che questo immenso spreco, che va direttamente a scapito della produttività e del benessere individuale e collettivo, viene gabellato come una garanzia per assicurare la qualità. L’idea, priva di qualunque fondamento scientifico, che individui e collettivi lavorino meglio se le loro prestazioni sono programmate, previste e dichiarate in anticipo, ovviamente secondo griglie rigide predisposte dalla burocrazia, governa oggi indiscussa la vita della scuola. Gli insegnanti debbono dedicare lunghe ore non a studiare, o a preparare le lezioni, ma a produrre incartamenti in un linguaggio occulto, che li segrega ulteriormente dal mondo: c’era una volta il Pof, il Piano dell’offerta formativa, ora c’è il Ptof, Piano triennale dell’offerta formativa, vulgo il «pitòff». Se poi in una scuola ci si accorge che non ci sono soldi per comprare le lim (le lavagne interattive multimediali) o i computer, bisogna chiedere come concessione eccezionale quello che dovrebbe spettare di diritto a tutti, e per ottenerlo è ovviamente necessario presentare un «progetto», altra parola magica della nostra epoca («La scuola ormai è un progettificio»). La cultura del progetto non serve affatto a premiare l’iniziativa e a concedere ulteriori risorse ai più bravi; serve, invece, a fare in modo che anche l’indispensabile sia concesso solo ad alcuni, in cambio di una sottomissione sacrale agli idoli. La sottomissione consiste nella compilazione di progetti dai nomi arcani («I Pon sono europei, i Por sono regionali»), che per avere successo debbono essere compilati in una neolingua orwelliana («Basta sapere cosa scrivere: problem solving, inclusione, classe capovolta»), che ovviamente costano tempo e fatica e non sono rimunerati ma sottratti a quello che dovrebbe essere il vero lavoro dell’insegnante. Compilare i progetti richiede una competenza specifica, perché la modulistica è straordinariamente complessa: c’è chi ha fatto corsi di formazione di 40 ore per imparare a compilarli. L’orgoglio di aver aiutato la propria scuola a ottenere qualche soldo in più non elimina la sensazione di un tangibile svilimento del proprio mestiere («Noi siamo delle puttane che si vendono al miglior offerente. Io preparo progetti dalla mattina alla sera, perché abbiamo bisogno di soldi, altrimenti non possiamo comprare nemmeno la carta igienica»). L’inganno della valutazione

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