ANNABELLA D’ATRI Metafisica e leggi di natura in D.M. Armstrong Il filosofo australiano David Malet Armstrong, nato a Melbourne nel 1926 e attualmente professore emerito presso l’Università di Sydney, si è conquistato un posto di primo piano nel panorama della filosofia analitica contemporanea a partire in particolare dal testo del 1978 in due volumi, Universali e Realismo Scientifico1. In precedenza, dopo essersi dedicato al tema della visione in G. Berkeley2, filosofo del quale aveva curato anche un’edizione delle opere, aveva comunque ottenuto una vasta notorietà nelle discussioni filosofiche grazie alla netta posizione assunta nella questione del rapporto mente/corpo, a favore di una teoria materialista della mente3. Intendiamo qui di seguito analizzare le tesi principali contenute nell’opera del 1978 e indicare quali di esse sono state da Armstrong riprese e articolate nelle opere successive, in particolare in Cosa è una legge di natura del 1983. Il nostro obiettivo principale è mostrare quanto sia rilevante per il suo sistema filosofico la posizione di base che Armstrong assume in difesa della metafisica: il filosofo australiano saluta infatti con entusiasmo il fatto che essa, dopo la dichiarazione della sua fine 1 Si vedano D.M. ARMSTRONG (1978a) e (1978b). 2 Si veda D.M. ARMSTRONG (1960). 3 Si tratta di D.M. ARMSTRONG (1993). La prima edizione dell’opera risale al 1968 e anche in questo primo sistematico lavoro si rivela l’efficacia del metodo, sia d’indagine che espositivo, di Armstrong il quale presenta le proprie tesi in un serrato confronto critico con le più accreditate teorie filosofiche, non limitandosi a quelle contemporanee. Ma, come ha di recente riconosciuto lo stesso Armstrong, le sue tesi giovanili sulla mente non sono riuscite del tutto a risolvere alcune delle questioni fondamentali che riguardano la natura del mentale, in particolare le questioni che derivano dal riconoscimento del carattere intenzionale della coscienza e dalla percezione delle qualità: «So in my philosophy of mind I face difficulties from the alleged qualia and from the phenomenon of intentionality that seem rather greater that anything I am aware of it in the rest of my ontological scheme» (D.M. ARMSTRONG 2010 p. 115). Una discussione della filosofia della mente di Armstrong, che non rientra comunque nelle finalità del pesente lavoro, richiede necessariamente, in quanto la presuppone, l’analisi delle opzioni metafisiche di fondo dello stessso Armstrong. Bollettino Filosofico 27 (2011-2012): 95-118 95 ISBN 978-88-548-6064-3 ISSN 1593-7178-00027 DOI 10.4399/97888548606437 96 Annabella D’Atri operata dal positivismo logico4, sia tornata a essere di nuovo rispettabile. Non esita addirittura a caratterizzare questa fase del pensiero filosofico come una vera e propria “svolta ontologica”5 che farebbe seguito alla nota “svolta linguistica” del Novecento. 1. Predicati e proprietà. L’opera dedicata agli universali è divisa in due parti, di cui la prima di carattere storico-critico, mentre la seconda è volta a presentare una teoria sistematica degli universali, anche se lo stretto intreccio fra le due parti è reso indispensabile dal metodo di Armstrong: egli espone infatti il proprio realismo sugli universali come la teoria che risulta preferibile in base a un mero calcolo razionale dei costi e dei benefici dei sistemi esaminati, calcolo operato grazie all’analisi critica dei vantaggi e degli svantaggi in termini di coerenza e completezza delle diverse teorie in campo, analisi che egli compie appunto nel primo volume. Ma qual è la questione di fondo, l’oggetto principale dell’interesse di Armstrong che lo conduce, a conclusione dell’argomentazione, ad affermare l’esistenza degli universali in re? La questione è dichiaratamente di tipo linguistico: riguarda la natura della proposizione e la sua struttura minima, che corrisponde all’atto della predicazione, all’attribuzione di un predicato a un soggetto. Questo punto di partenza dell’analisi, al quale Armstrong resterà sempre fedele, è fortemente condizionato dai suoi primi interessi in campo filosofico, maturati, come più volte ricorda, quando, negli anni 1949-50 frequentava le lezioni di John Anderson il quale coniugava un rigido naturalismo con la tesi, sorprendentemente analoga a quanto sostenuto in 4 È lo stesso Armstrong a indicare lo stato attuale della metafisica contemporanea come la fase della sua riabilitazione, della riconquista della sua rispettabilità, dopo il discredito su di essa gettato dal positivismo logico e dalla filosofia Oxoniense del linguaggio ordinario: «The years when analytic philosophy was dominated first by the ideas of the logical positivists and then by the ‘ordinary language’ approach that become fashionable in Oxford were thankfully long done. Gone also were the objections that were made to traditional metaphysics by these philosophers. Metaphysics is now respectable again.» (D.M. ARMSTRONG 2010 p. VIII). 5 Armstrong (D.M. ARMSTRONG 1993b, p. 144) adopera quest’espressione nel presentare J. Fales, allievo di G. Bergmann all’Università dell’Iowa, ricordando lo splendido isolamento riservato dal mondo accademico e dalla tradizione analitica alle riflessioni ontologiche avanzate in questa Università. Metafisica e leggi natura in D.M. Armstrong 97 Europa da Russell e Wittgenstein6, che la realtà ha una struttura proposizionale: «Io sono stato comunque influenzato molto profondamente dalla teoria proposta dal mio docente a Sydney, il filosofo scozzese John Anderson, secondo la quale la realtà, benché indipendente dalla mente che la conosce, ha una struttura ‘proposizionale’».7 Anche se Armstrong aderisce pienamente a questa formidabile impresa filosofica, definibile come una vera e propria «svolta fattualista» della filosofia, che trova il suo principale motivo di ispirazione nelle prime proposizioni del Tractatus di Wittgenstein8, ciò che caratterizza in maniera 6 In verità, come ricorda Armstrong (ARMSTRONG, 1993a, p. 96), in Australia, dopo la seconda guerra mondiale, la filosofia era fortemente divisa fra i seguaci di Anderson dell’Università di Sydney e quelli di Wittgenstein, in Melbourne. Armstrong ricorda anche con orgoglio di essere stato l’unico caso di laureato di Sydney a essere chiamato a insegnare a Melbourne. 7 D.M. ARMSTRONG (1999, p. 3). La stessa considerazione viene da Armstrong fatta nel corso dei seminari tenuti alla City University di New York nel 2008: «Interestingly, my own teacher in Sydney, John Anderson, used to argue that reality was ‘propositional’ and appeared to mean much the same thing as Russell and Wittgenstein» (ARMSTRONG 2010, p. 34). 8 Com’è noto, la proposizione 1.1 del Tractatus dice:«Il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose», e la 2: «Ciò che accade, il fatto, è il sussistere di stati di cose» (L. WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus, trad. it. A. G. Conte, Torino, Einaudi, 1964, p. 5). Ci sembra opportuno, per i lettori di lingua italiana, richiamare un’importante questione di traduzione. Questo è il testo tedesco della proposizione 1.1:«Die Welt is die Gesamtheit der Tatsachen, nicht der Dinge», la cui traduzione italiana non crea eccessivi problemi; ma la questione si complica se la mettiamo in relazione con la proposizione 2, che definisce i fatti: «Was der Fall ist, die Tatsache, ist das Bestehen von Sachverhalten». Come si vede, in italiano non emerge bene la differenza sia fra i diversi sensi di “cosa”, sia fra la semplice cosa e i rapporti fra cose, che naturalmente solo una successiva attenta analisi dell’opera faranno emergere. Infatti “Sachverhalt” viene definito in 2.01 «eine Verbindung von Gegenständen (Sachen, Dinge)», quindi come una combinazione di oggetti, che possono essere o cose o altre entità. Veniamo invece alle traduzioni inglesi; la prima, del 1922 è di C.K. OGDEN e F.P. RAMSEY, London, Routledge & Kegan Paul, 1922, con introduzione di Bertrand Russell. Così traduce la proposizione 1.1: «The World is everything that is the case» e così la 2.:«What is the case, the fact, is the existence of atomic facts». Qui c’è una lieve modifica del senso originario: definendo fatto come l’insieme esistente di fatti atomici, si evidenzia l’esistenza di minime unità di senso, ma si elimina l’esplicito riferimento ai rapporti fra cose (sache) ed al fatto che questi fatti atomici siano a loro volta combinazione di “objects”. Invece la traduzione di D.F. PEARS e B.F. MCGUINESS, New York, Humanities Press, 1961, alla quale fa riferimento Armstrong traduce la 2 come: «What is the case (a fact) is the existence of state of affairs», traduzione che appunto contiene il termine usato da Armstrong, ma che ha anche il vantaggio di evidenziare il senso di ‘relazione’ rappresentato dal termine “affair”. Il lettore italiano, 98 Annabella D’Atri peculiare il suo approccio alla questione è, da una parte, il rispetto per le teorie classiche della predicazione, a partire innanzitutto dal Parmenide di Platone, e, dall’altra, il rifiuto di un’impostazione meramente “semantica”. Tale rifiuto si sintetizza nel negare che il riconoscimento delle proprietà e del loro statuto ontologico dipenda essenzialmente dal bisogno di assegnare un riferimento, un significato, ai predicati adoperati nei diversi linguaggi. Armstrong intende operare un’«emancipazione della teoria degli universali dalla teoria semantica»9 , il che significa che non dovremmo aspettarci una corrispondenza biunivoca fra predicati (ovviamente qui “predicato” va inteso nel senso di ‘tipo di predicati’, sorvolando sulle differenze linguistiche negli enunciati di predicati che si riconosce abbiano identico significato) e universali o proprietà. Potranno esserci predicati ai quali non corrispondono universali, così come, viceversa, universali ai quali non corrispondono predicati. Come esempi del primo tipo Armstrong porta quelli di ‘unicorno’ (o ‘essere unicorno’) e di ‘essere più veloce della luce’10. Ovviamente non è invece possibile fornire esempi di casi del secondo tipo; per questo secondo caso sorge quindi la seguente questione: cosa ci porta a sostenere che questi universali esistano? La risposta appare fin troppo semplice, derivando da un’asserita analogia con la teoria della percezione: così come è concepibile e ragionevole sostenere che esistano oggetti che non sono percepiti né da noi né da altri, similmente è concepibile e ragionevole sostenere che degli universali, non espressi e non detti, esistano11. Ed ancora, una volta che la questione è stata posta in termini così semplici ed evidenti, non può non nascere un’ulteriore domanda: come mai i filosofi del passato non hanno colto questa analogia? E soprattutto come mai hanno condotto la discussione sugli universali per lo più presupponendo che a ogni predicato corrispondesse un universale, rendendo così oscuro e ‘sovraffollato’ il mondo degli universali? Armstrong non ha dubbi: «È l’influenza dell’argomento che parte dal Significato che ha così spesso falsato, e così fatalmente, il Problema degli ormai avvezzo al termine “stati di cose” in Wittgenstein potrebbe non riconoscere immediatamente, a differenza dal lettore di lingua inglese, la derivazione dal Tractatus del termine “stato di fatto” con il quale si traduce “state of affairs”, termine che, come vedremo, è centrale nella metafisica di Armstrong. 9 ARMSTRONG (1978a, p. 6). 10 ARMSTRONG (1978b, p. 10). 11 Ivi, p. 13. Metafisica e leggi natura in D.M. Armstrong 99 Universali. Se si concepiscono gli Universali come significati, e se si accetta il criterio semantico per l’identità dei predicati, ne segue immediatamente che ciascun predicato-tipo è associato con il suo universale proprio. Di questa situazione poi i Realisti hanno avanzato un’interpretazione inflazionaria, i Nominalisti una deflazionaria.»12 L’analisi della contrapposizione fra posizioni Nominaliste e Realiste, che è il tema del primo volume sugli universali, trova così il suo filo conduttore nell’individuazione di una comune distorsione semantica: i Realisti moltiplicano i loro universali, ne deprezzano il loro valore (li ‘inflazionano’), mentre i Nominalisti, non riconoscendo una moltitudine di entità non empiricamente date, finiscono per non riconoscere alcun valore agli universali (li ‘deflazionano’): sostengono infatti che esistono solo i particolari. Quanto al problema dell’identità del significato, per darne una spiegazione, seguono strade diverse, possono infatti ricondurlo o a) all’ identità del predicato, o b) a quella del concetto, o c) a quella della classe (o d) dell’aggregato) di appartenenza, o e) alla somiglianza con un modello paradigmatico. E proprio in base al diverso criterio scelto per giustificare l’identità del significato Armstrong individua le diverse forme di Nominalismo, etichettandole rispettivamente come Nominalismo: a) del Predicato, b) del Concetto, c) della Classe d) delle parti, o «Mereologico»13, al quale Armstrong dedica un’attenzione minima, e) della Somiglianza. Egli sottopone poi ciascun tipo di Nominalismo a una critica serrata e passa inoltre al vaglio dell’analisi razionale quella forma di Realismo che è definibile come “Trascendente” o “Platonico” in quanto fa corrispondere ai significati e ai predicati delle entità non spazio temporali. Al termine delle diverse, accurate, analisi, emerge come ipotesi metafisica più plausibile e meno problematica un’altra forma di Realismo, quello immanente che Armstrong spesso identifica con un Realismo di tipo “aristotelico”14. Fra le critiche specifiche alle quali Armstrong sottopone i diversi tipi di analisi dell’identità del significato, ve ne è però una di tipo generale, valida per tutte le teorie elencate: egli mostra, attraverso la riduzione analitica, 12 Ivi, p. 11. 13 Questa ne è la definizione:«La teoria che analizza l‘avere la stessa proprietà, o essere nella stessa relazione da parte di particolari nei termini di essere parte dello stesso aggregato di particolare» (ARMSTRONG 1978a ,138). 14 Per l’interpretazione delle tesi aristoteliche nelle opere di Armstrong si veda D'ATRI (2010). 100 Annabella D’Atri come tutte finiscano per cadere in un regresso vizioso all’infinito. Sia il Nominalismo del Predicato che quello del Concetto, classificabili come soluzioni soggettiviste del problema degli Universali, dal momento che collocano gli universali o nelle parole degli uomini o nelle loro menti15, sono costretti a mettere in relazione due tipi diversi di entità: gli oggetti, da una parte, e il nome o il concetto, dall’altra, trovandosi quindi a dover ammettere sempre ulteriori relazioni intermedie fra le singole cose, cioè gli esemplari particolari delle cose, e il predicato o il concetto. In questi casi si dovranno allora ammettere concetti di concetti e predicati di predicati, concetti e predicati di livello sempre superiore fino all’infinito16. Nel caso invece del Nominalismo della Classe, che sostiene che attribuire a diversi oggetti un unico predicato o un’unica proprietà corrisponde a rendere ciascun oggetto membro di una classe, a generare il regresso all’infinito è la relazione di ‘essere membro di’, che, essendo un predicato, è necessario che a sua volta venga analizzato in termini di appartenenza a una classe. Lo stesso tipo di regresso che vige nel caso del Nominalismo della Classe è valido nel caso del Nominalismo della Somiglianza. A questo proposito occorre sottolineare che Armstrong prende in esame una forma sofisticata di teoria della somiglianza: quella forma che, di fronte al problema che si origina dal fatto che, per lo più, le cose hanno fra loro differenti gradi di somiglianza e non sempre uno stesso grado, risolve tale problema facendo riferimento all’idea di paradigma: «Il Nominalismo della Somiglianza è la teoria che analizza l’avere una stessa proprietà o una stessa relazione da parte dei particolari in termini dell’avere una somiglianza sufficiente con qualche paradigma particolare».17 Ebbene, anche in questo caso, si ricade nel regresso all’infinito in quanto è la relazione di ‘essere somigliante al paradigma’ che, a sua volta, ha bisogno di essere analizzata in termini di somiglianza a qualche paradigma al quale assomiglia. Se, per esempio, abbiamo analizzato ‘essere bianco’ in termini di somiglianza a un dato oggetto paradigmatico della 15 ARMSTRONG (1978a, p. 25). 16 In effetti Armstrong distingue due tipi di regresso, che chiama rispettivamente: a) regresso dell’oggetto, quello al quale abbiamo fatto riferimento e b) regresso della relazione, quello che riguarda il significato della stessa relazione di “cadere sotto un concetto o un predicato” o, viceversa, di ‘applicarsi a un oggetto da parte di un predicato o un concetto’, ma ai fini della nostra analisi, necessariamente sintetica, questa distinzione può essere trascurata. 17 ARMSTRONG (1978a, p. 138). Metafisica e leggi natura in D.M. Armstrong 101 bianchezza, ci rimane comunque da analizzare la relazione di somiglianza, e così di seguito. Quindi, onde evitare queste forme viziose di regresso, è opportuno ammettere che i predicati, o meglio, le proprietà degli oggetti, corrispondano a degli universali. A tal proposito Armstrong riconosce che il primo ad avere con chiarezza difeso la teoria degli universali è stato Bertrand Russell. Questi scrive in The Problems of Philosophy del 1912: Se vogliamo evitare gli universali bianchezza e triangolarità noi sceglieremo un particolare pezzo di cosa bianca o un particolare triangolo e diremo che qualche cosa è bianca o è un triangolo se ha una rassomiglianza col particolare che abbiamo scelto. Ma allora la rassomiglianza ricercata deve essere un universale. Poiché vi sono molte cose bianche, la rassomiglianza deve stare fra molte paia di particolari cose bianche; e questa è la caratteristica di un universale. Sarà inutile dire che vi è una somiglianza diversa per ciascuna coppia, in quanto dovremmo dire che queste somiglianze si somigliano fra loro, e quindi in ultimo saremo costretti ad ammettere come un universale la somiglianza. La relazione di somiglianza quindi deve essere una verità universale ed essendo stati forzati ad ammettere questo universale, noi troviamo che non vale la pena di inventare difficoltà ed inammissibili teorie per evitare di ammettere degli universali come bianchezza e triangolarità18. Russell però, nello stesso capitolo del libro, introduce il suo famoso “terzo mondo” o mondo degli universali e dell’universale dice: «non è nello spazio né nel tempo, non è né materiale né mentale: eppure è qualcosa»19 . Russell, così, riconoscendo che gli universali hanno una realtà altra da quella dello spazio e del tempo, diviene il massimo rappresentante nel Novecento di quello che Armstrong chiama “Realismo Platonico”. E comunque, questa è ora la questione cruciale che Armstrong affronta, può questa concezione trascendente degli universali dar conto del problema delle proprietà, rispondere cioè alla solita questione: cosa significa per una cosa avere una proprietà (o essere in relazione con un’altra cosa o altre cose), sfuggendo al regresso vizioso all’infinito, del tipo di quelli ai quali abbiamo precedentemente fatto cenno? La risposta di Armstrong è assolutamente negativa, anzi, è proprio nelle ontologie di ispirazione platonica che emergono le maggiori difficoltà 18 RUSSELL (1922, pp. 150-151). 19 Ivi, p. 114. 102 Annabella D’Atri logiche di analisi del concetto di proprietà. Sono quelle stesse difficoltà che lo stesso Platone ha ben riconosciuto nel Parmenide, e che si sintetizzano nel problema, che ha attraversato tutta la storia del pensiero occidentale, del rapporto dell’uno con i molti, o nel problema dell’uno oltre i molti. Nel Parmenide la questione viene posta, fra l’altro, per quanto riguarda il rapporto della Forma o Idea con le cose: il problema sorge in quanto è necessario che le cose partecipino delle Idee, ma, contemporaneamente, anche che ne siano separate. Questo è uno dei passi cardine del dialogo platonico: Ma allora ciascuna realtà che partecipa, partecipa di tutta la forma o di una parte? Oppure esiste un altro tipo di partecipazione oltre a questi?» «E come potrebbe esistere?- rispose» «Ti sembra, dunque, che la forma sia presente nella sua interezza in ciascuno dei molti, rimanendo essa una, o come?» «Perché, che cosa lo impedisce, Parmenide?- chiese Socrate» «Se fosse una e identica, sarebbe presente contemporaneamente nella sua interezza nei molti, che però sono separati, e in questo modo essa sarebbe separata da sé20. Strettamente connessa con questa aporia, propria della teoria delle Idee, lo stesso Platone inoltre coglie l’aporia derivante dall’argomento del regresso all’infinito: analizzando l’idea di grandezza21 sostiene che, se chiediamo cosa sia comune alla cosa grande e all’idea di grandezza, immediatamete fa il suo ingresso una terza idea di grandezza che le accomuna e così di seguito fino a che le idee diventano una pluralità infinita. Armstrong riconosce a Platone il merito di aver colto le aporie della relazione fra cose e proprietà, e quindi gli riconosce una superiorità filosofica rispetto ai platonici novecenteschi che hanno sorvolato sulle aporie proprie del concetto di partecipazione, ma, fatto significativo, quando si riferisce all’aporia presentata nel Parmenide, lo fa attraverso l’interpretazione datane da Aristotele. Armstrong la chiama infatti questione del “terzo uomo”, che è così citata da Aristotele in Metafisica 990 b15-17; anche attraverso questi indizi si rivela l’ intenzione, da parte del filosofo australiano, di assumere la questione per come la presenta Aristotele, cioè come uno dei motivi fondamentali di critica e 20 Parmenide, 131 a4- b2 in PLATONE (2004, p. 213). 21 Parmenide 132a2-b2 in PLATONE (2004, p. 215). Metafisica e leggi natura in D.M. Armstrong 103 rigetto della teoria platonica delle Idee o Forme trascendenti. Ma Armstrong nota anche che l’argomento del terzo uomo è valido contro la teoria delle Forme trascendenti solo in quanto si assuma anche l’auto-predicazione delle forme, cioè, per esempio, il fatto che la Forma del bianco, la bianchezza, sia essa stessa bianca, cosa che, per esempio, non è, mentre, invece, è vero che la forma del bianco è essa stessa una forma, quindi che essere forma è un predicato che si applica anche a se stesso22. Pur senza volere addentrarsi nelle questioni esegetiche della teoria platonica delle Idee, Armstrong ricorda come sorprendentemente la sua introduzione da parte di Platone in Fedone 95-96, sia congiunta alla questione della ricerca delle cause del divenire23. Sorprendentemente perché proprio la necessità che le Forme agiscano come cause del mondo, nota opportunamente Armstrong, indebolisce fortemente la tesi di Platone che le proprietà delle cose sono dipendenti da forme o entità trascendenti: È naturale dire sia che i poteri causali di un particolare sono determinati dalle sue proprietà, sia che questi poteri sono determinati dall’essere in sé del particolare e da niente oltre a questo. Ma se si accetta la teoria degli universali trascendenti, le proprietà di una cosa non sono determinate dal suo essere in sé, ma piuttosto dalle relazioni che essa ha con le Forme oltre se stessa24. Il bisogno di riconoscere che le cose hanno un potere causale su altre cose che non può derivare dal rapporto delle cose con le loro Forme, accanto alla ragione di carattere logico derivante dalla separatezza delle Idee, sopra ricordata, è una seconda, forte ragione, che Armstrong adduce contro tutte le teorie esplicative delle proprietà che non riescano a dar conto dei poteri causali delle cose. Aderendo, di fatto, alla definizione aristotelica della conoscenza come conoscenza delle cause, Armstrong avanza come alternativa ontologica più plausibile la propria dottrina, che 22 Si riconosce chiaramente in questa precisazione l’applicazione da parte di Armstrong alla teoria platonica delle Idee della questione dell’autoreferenzialità delle classi, o paradosso delle classi, che, com’è noto, si origina dalla domanda: la classe che contiene tutte le classi che non contengono se stesse, contiene se stessa? 23 Si tratta dei notissimi brani in cui Platone parla della sua insoddisfazione per la le cause individuate dai naturalisti, e del suo bisogno di rifugiarsi nei logoi (da tradursi come discorsi, o concetti e idee). Sull’interpretazione del brano si veda REALE (1987, p. 157). 24 ARMSTRONG (1978a, p. 75). 104 Annabella D’Atri ammette la realtà spazio-temporale degli universali, con ciò riattualizzando la critica di Aristotele alla teoria platonica delle idee come critica neo- aristotelica al platonismo novecentesco di Russell. 2. Universali e stati di fatto. Come riesce il Realismo immanente, quello che sostiene che gli universali esistono non separati dalle cose,quella forma di Realismo alla quale aderisce Armstrong, a sfuggire alle questioni logiche legate al problema del rapporto fra oggetti e loro proprietà, fra individui e universali? Se tutti i paradossi derivano dalla questione sul tipo di relazione sussistente fra questi due generi di entità, la mossa di Armstrong consiste nel rigettare l’idea che fra particolari e universali esista una vera e propria forma di relazione: la questione del tipo di relazione sorge infatti se partiamo dal presupposto che le due realtà siano distinte e separate. E questo presupposto, fallace, è condiviso anche dalla tradizione empirista, a partire da Locke, il quale, distinguendo fra l’essenza nominale delle cose, cioè l’idea complessa data dalla collezione di tutte le loro proprietà, e la loro essenza sconosciuta, non risolve il problema del rapporto fra questo misterioso substrato e l’idea della cosa come un insieme di proprietà. Seguendo le critiche di Berkeley all’idea di sostrato di Locke, Armstrong nota il perfetto parallelismo, quanto al problema della relazione fra cosa e suo concetto, delle tesi di Locke con quelle del Platonismo Trascendente: Tutto ciò che possiamo dire sulla relazione è che è la relazione che sussiste fra il substratum e le proprietà. Non possiamo dire nessuna cosa interessante sul substratum. Locke lo descrisse come “qualcosa che non so cosa sia”, ma questa di fatto è una descrizione troppo lusinghiera! Egli suppone che il substratum abbia un qualcosa, una natura, sebbene noi in tale natura non possiamo penetrare. Ma nei fatti può non avere alcuna natura. Essa è mera particolarità, mera mancanza di natura che si trova in una relazione indescrivibile con le proprietà. Non è chiaro se così abbiamo ottenuto un’ipotesi intellegibile25. Di conseguenza, quindi, Armstrong sostiene che quello che si richiede è appunto una forma di Realismo Immanente che sia di tipo non-relazionale, tale cioè da presupporre che fra particolarità e universalità dei particolari sussista un’unione molto più intima che non una semplice relazione. Anzicchè presupporre la loro separatezza ontologica, che costringe poi i 25 ARMSTRONG (1978a, p. 105).
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