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Manifesto contro il lavoro PDF

139 Pages·2003·0.449 MB·Italian
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Titoli originali: Ma ni fest gegen die Arbeit © Krisis 1999 Traduzione dal tedesco di Anselm Jappe e Giancarlo Rossi Die Diktatur der abstrakten Zeit Die A ufhebung der Arbeit © Konkret Literaturverlag, Hamburg 1999 Traduzione dal tedesco di Samuele Cerea © 2003 Deri ve Approdi I edizione: marzo 2003 DeriveApprodisrl P.zza Regina Margherita 27,00198 Roma tei 06-85358977 fax 06-8554602 e-mail: [email protected] www.deriveapprodi.org Progetto grafico: Andrea Wöhr Immagine di copertina di Sabine Bitter e Klaus Staeck ISBN 88-88738-07-X DeriveApprodi Gruppo Krisis: Robert Kurz, Ernst Lohoff, Norbert Trenkle Manifesto contro il lavoro Robert Kurz La dittatura del tempo astratto Robert Kurz, Norbert Trenkle Il superamento del lavoro Postfazione di Anselm Jappe Manifesto contro il lavoro 1. Il dominio del lavoro morto Ognuno deve poter vivere del proprio lavoro: questo è il principio enun­ ciato. Da questo discende che la condizione per poter vivere è il lavoro, e che non esiste il diritto di vivere se non si adempie a tale condizione. Johann G. Fichte, Fondamenti del diritto natu^le secondo i princìpi delia dottrina detta scienza, 1797 Un cadavere domina la società: il cadavere del lavoro. Tutte le potenze del pianeta si sono alleate per difende­ re questo dominio: il Papa e la Banca mondiale, Tony Blair e Jòrg Haider, D’Alema e Berlusconi, sindacati e imprenditori, ecologisti tedeschi e socialisti francesi. Tutti costoro conoscono soltanto una parola d’ordine: lavoro, lavoro, lavoro! Chi non ha ancora del tutto disimparato a pensare si rende facilmente conto che questa posizione è del tutto infondata. Infatti la società dominata dal lavoro non sta vivendo una crisi passeggera, ma si scontra con i suoi li­ miti assoluti. In seguito alla rivoluzione microelettroni­ ca, la produzione di ricchezza si è sempre più separata dall’utilizzo di forza-lavoro umana in una misura che fino a pochi decenni fa era immaginabile soltanto nei ro­ manzi di fantascienza. Nessuno può seriamente afferma­ re che questo processo possa fermarsi o addirittura esse- 5 re invertito. La vendita della merce «forza-lavoro» nel XXI secolo sarà tanto ricca di prospettive quanto nel XX la vendita di diligenze. Ma chi in questa società non ri­ esce a vendere la sua forza-lavoro è considerato «super­ fluo» e finisce nelle discariche sociali. Chi non lavora non mangia! Questo cinico principio è tutt’oggi in vigore, anzi, oggi più che mai proprio per­ ché sta diventando del tutto obsoleto. E assurdo: mai la società era stata una società del lavoro come in quest’e­ poca in cui il lavoro è stato reso superfluo. Proprio nel momento della sua morte, il lavoro getta la maschera e si rivela come una potenza totalitaria, che non tollera nes­ sun altro dio al di fuori di sé. Il lavoro determina il modo di pensare e di agire fin nelle minime pieghe della vita quotidiana e nei più intimi recessi della psiche. Non ci si ferma dinanzi ad alcuno sforzo pur di allungare artifi­ cialmente la vita all’idolo «lavoro». L’ossessiva richiesta di «occupazione» giustifica quella distruzione delle con­ dizioni naturali di vita di cui da tempo siamo consapevo­ li. Gli ultimi ostacoli alla totale commercializzazione di ogni relazione sociale possono essere spazzati via senza remore se c’è in vista qualche misero «posto di lavoro». E l’idea che è meglio avere un lavoro «qualsiasi» piuttosto che non averne nessuno è ormai diventata una professio­ ne di fede imposta a tutti. Quanto più è evidente che la società del lavoro è vera­ mente giunta alla fine, tanto più violentemente questo fatto viene rimosso dalla coscienza collettiva. Per quanto diversi siano i metodi di rimozione, hanno pur sempre un denominatore comune: il dato di fatto, valido global­ mente, che il lavoro si sta rivelando un fine in sé irrazio­ nale e ormai obsoleto, viene ridefinito con ostinazione maniacale come il fallimento di individui, di imprese o di «siti produttivi». Il limite oggettivo del lavoro deve ap­ parire come un problema soggettivo degli esclusi. Se per gli uni la disoccupazione è la conseguenza di 6 pretese eccessive, di scarso impegno e scarsa flessibilità, gli altri rimproverano ai «loro» manager e politici inca­ pacità, corruzione, avidità o tradimento del «sito produt­ tivo». (E in fin dei conti sono tutti d’accordo con l’ex Presidente tedesco Roman Herzog: «Occorre che, per così dire, una “scossa” attraversi il paese, come se si trat­ tasse di dare nuovi stimoli a una squadra di calcio o nuove motivazioni a un gruppuscolo politico. Tutti devo­ no “in qualche modo” remare più forte, anche se da tempo non ci sono più remi, tutti devono darsi da fare, anche se non c’è più niente da fare, e ormai ci si può de­ dicare soltanto ad attività insensate»). Il messaggio sot­ tinteso di questa cattiva novella non si presta a equivoci: chi nonostante tutto non gode del favore dell’idolo «la­ voro» se la deve prendere con se stesso, e può essere espulso o escluso senza scrupoli di coscienza. La stessa legge del sacrifìcio umano vige su scala plane­ taria. Un paese dopo l’altro viene maciullato negli ingra­ naggi del totalitarismo economico e fornisce così sempre la stessa dimostrazione: ha peccato contro le cosiddette leggi di mercato. Chi non «si adatta» senza condizioni, e senza tener conto delle perdite, al corso cieco della con­ correnza totale è punito dalla logica del profitto. Le pro­ messe di oggi sono i falliti di domani. Gli psicotici dell’e­ conomia al potere non si lasciano però impressionare nella loro bizzarra concezione del mondo. I tre quarti della popolazione mondiale sono già stati più o meno di­ chiarati fuori corso. Crolla un «sito produttivo» dopo l’al­ tro. Dopo i disastrati «paesi in via di sviluppo» del Sud del mondo, e dopo il capitalismo di Stato a Est, gli studenti­ modello dell’economia di mercato in Estremo Oriente sono a loro volta scomparsi nell’Ade economico. Anche in Europa si sta diffondendo da tempo il panico sociale. I cavalieri dalla trista figura nella politica e nel manage­ ment continuano però, se possibile ancora più ostinata­ mente, la loro crociata nel nome del dio «lavoro». 7 2. La società dell'apartheid neoliberista Il truffatore aveva distrutto il lavoro, ma si era preso il salario di un la­ voratore; ora questo deve lavorare senza salario e, mentre lavora, im­ maginare perfino nella sua cella quali benedizioni siano il successo e il profitto. [...] Con il lavoro forzato deve essere educato al lavoro secon­ do morale come a un libero atto personale. Wilhelm Heinrich Riehl, II lavoro tedesco, 18(> 1 Una società basata sull’astrazione irrazionale «lavoro» sviluppa necessariamente una tendenza all’apartheid so­ ciale, quando la vendita riuscita della merce «forza-lavo­ ro» da regola diventa l’eccezione. Tutte le fazioni del «campo del lavoro», che comprende tutti i partiti, hanno da tempo accettato silenziosamente questa logica e le danno man forte. Esse non si chiedono più se sempre più ampi settori della popolazione debbano essere spinti ai margini ed esclusi da ogni partecipazione alla vita sociale, ma soltanto come debba essere imposta questa selezione, con le buone o, soprattutto, con le cattive. La fazione neoliberista affida questo sporco lavoro so­ cial-darwinista alla «mano invisibile» del mercato. Le reti di sicurezza sociale vengono smantellate proprio per mar- ginalizzare, il più possibile senza clamore, tutti quelli che non riescono a tenere il passo della concorrenza. E rico­ nosciuto come essere umano soltanto chi appartiene alla ilare confraternita dei vincitori della globalizzazione. Come se fosse la cosa più ovvia del mondo, tutte le risorse del pianeta sono usurpate dalla macchina autoreferenzia­ le del capitalismo. Se poi non sono più mobilitabili con profitto, devono rimanere inutilizzate, anche se vicino a queste risorse intere popolazioni sono ridotte alla fame. A occuparsi di questa fastidiosa «immondizia umana» sono chiamate la polizia, le sette che prometto­ no la salvezza nella religione, la mafia e le mense dei po­ veri. Negli Stati Uniti, e nella maggior parte degli Stati dell’Europa centrale, sono ormai rinchiuse in carcere più persone che in qualsiasi normale dittatura militare. E in America Latina gli squadroni della morte uccidono ogni giorno, in nome dell’economia di mercato, più «ra­ gazzi di strada» e altri poveri che oppositori ai tempi della più feroce repressione politica. Ormai ai reietti resta soltanto una funzione sociale: quella dell’esempio deterrente. Il loro destino deve pungolare sempre di più tutti quelli che si trovano ancora a combattere per gli ul­ timi posti nella società del lavoro, quasi come nel «gioco dei quattro cantoni», e tenere in movimento frenetico perfino la massa dei perdenti, affinché non passi loro per la testa di ribellarsi contro queste insolenti pretese. Eppure, il «Mondo nuovo» dell’economia totalitaria di mercato prevede per i più, anche a prezzo del sacrificio di sé, soltanto un posto come uomini-ombra in un’econo­ mia-ombra. Come lavoratori a buon mercato e schiavi de­ mocratici della «società dei servizi», devono offrire i loro umili servizi ai vincitori della globalizzazione. I nuovi «la­ voratori poveri» possono pulire le scarpe ai businessmen rimasti sulla piazza, vendere loro hamburger contamina­ ti o fare la guardia ai loro centri commerciali. E chi ha ap­ peso il cervello nell’armadio può nel frattempo sognare l’ascesa a imprenditore miliardario. Nei paesi anglosassoni questo mondo dell’orrore è già una realtà per milioni di persone, tanto più nel Terzo mondo e in Europa orientale, e anche a Eurolandia sono decisi a recuperare in fretta il tempo perduto. I giornali economici, del resto, non fanno più mistero di come im­ maginano il futuro ideale del lavoro: i bambini che puli­ scono i vetri delle auto agli incroci ultrainquinati delle strade sono un luminoso modello di «iniziativa impren­ ditoriale» verso il quale, data l’odierna mancanza di «prestatori di servizi», i disoccupati sono pregati di orientarsi. «Il modello dominante del futuro è l’indivi­ duo imprenditore della sua forza-lavoro e responsabile 9 della sua sussistenza», scrive la «Commissione per i pro­ blemi del futuro della Baviera e della Sassonia». E ag­ giunge: «La domanda di semplici servizi alla persona au­ menta quanto più diminuisce il loro costo, e quindi quanto meno guadagnano i prestatori di servizi». Se in questo mondo esistesse ancora autostima fra gli uomini, questa frase dovrebbe scatenare una rivolta sociale. In un mondo di bestie da soma addomesticate susciterà solo un assenso sconsolato. 3. L'apartheid del nuovo Stato sociale Un lavoro qualsiasi è meglio di nessun lavoro. Bill Clinton, 1998; Antonio Fazio, 1999, Emma Bonino, 2000 Nessun lavoro è così duro come non lavorare. Slogan di un manifesto dell’Ufficio di coordinamento fede­ rale di iniziative per disoccupati in Germania, 1998 Le fazioni anti-neoliberiste all’interno del «campo del lavoro» - che comprende tutta la società - non faran­ no salti di gioia a questa prospettiva, ma proprio secondo loro è fuori discussione che un uomo senza lavoro non sia un uomo. Sono rimaste nostalgicamente ferme all’epoca del dopoguerra caratterizzato dal lavoro fordista di massa e non hanno in mente nient’altro che far rivivere quell’epoca, ormai trascorsa, della società del lavoro. Lo Stato deve intervenire quando il mercato non funziona più. Bisogna continuare a simulare la presunta normalità della società del lavoro, grazie a «programmi per l’occu­ pazione», interventi a favore dei siti produttivi, indebita­ mento e altre misure politiche. Questo statalismo del la­ voro, ripreso svogliatamente, non ha la minima possibili­ tà di riuscire ma, per ampi strati della popolazione mi­ nacciati dal degrado, resta un punto di riferimento ideo­ 10 logico. E proprio a causa della sua irrealizzabilità, la pras­ si che ne deriva è tutt’altro che emancipatrice. La metamorfosi ideologica del lavoro da «bene raro» a primo diritto del cittadino esclude sistematicamente tutti i non-cittadini. La logica di selezione sociale non viene dunque messa in discussione, ma soltanto definita diversamente: la lotta per la sopravvivenza individuale deve essere resa meno spietata grazie a criteri etnico-na- zionalistici. L’anima popolare, che nel perverso amore per il lavoro si ritrova, ancora una volta, in una comunità di popolo, grida dal profondo del cuore: «Lo sgobbo ita­ liano agli italiani!». Il populismo di destra grida ai quat­ tro venti questa sua conclusione. La sua critica alla socie­ tà della concorrenza, alla fine, significa soltanto pulizia etnica nelle aree, sempre più ristrette, della ricchezza ca­ pitalistica. Il nazionalismo moderato d’impronta socialdemo­ cratica o verde accetta invece come autoctoni i lavoratori immigrati da lungo tempo e addirittura concede loro la cittadinanza, ma solo se fanno la riverenza e si comporta­ no bene, oltre naturalmente a essere inoffensivi al cento per cento. Tuttavia, in tal modo può essere più facilmen­ te legittimata e più tacitamente praticata la risoluta chiu­ sura dei confini ai profughi provenienti da Sud e da Est- naturalmente sempre nascosta dietro una valanga di pa­ role come «umanità» e «civiltà». La caccia all’uomo con­ tro i «clandestini», che si vogliono impadronire di sop­ piatto dei posti di lavoro nostrani, non deve lasciare, se possibile, odiose tracce di sangue o di incendi sul suolo nazionale. Per questo esistono la polizia di confine e gli Stati-cuscinetto di Schengenlandia, che sbrigano tutto secondo la legge e il diritto, magari tenendosi lontani dalle telecamere. La simulazione statale del lavoro è violenta e repressi­ va di per sé, ed esprime la volontà incondizionata di te­ nere ancora in piedi con tutti i mezzi il dominio dell’ido- 11

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