«EIKASMOS» XIV (2003) L’opera alchemica dello Pseudo-Democrito: un riesame del testo Nei primi secoli della nostra era assistiamo alla comparsa, all’interno della produzione pseudo-scientifica in lingua greca, di testi ‘misteriosi’ che si occupano della trasformazione dei metalli meno preziosi – rame, ferro, stagno e piombo – in oro o argento. Si tratta dei primi documenti scritti riguardanti l’alchimia, disciplina esoterica che continuerà ad affascinare l’immaginario occidentale fino ai nostri giorni. Grazie agli sforzi ed alla tenacia di pochi studiosi, a partire dalla fine del XIX sec. ci si è avvicinati a questo importante lascito del mondo tardo-antico, tentando di ricostruirne la complessa tradizione manoscritta e di fornirne l’edizione critica e la traduzione. La strada è stata aperta dall’entusiasmo e dall’immenso lavoro del chimico francese M. Berthelot, aiutato dal filologo C.-É. Ruelle: tra il 1887 e il 1888 escono, infatti, i tre volumi intitolati Collection des anciens alchimistes grecs1, con testo e traduzione della maggior parte del Corpus alchemicum greco2. Nonostante le numerose critiche che tale lavoro subì fin dalla sua prima apparizio- ne, ancora oggi esso rappresenta l’unica possibilità per lo studioso moderno di entrare in contatto con questa particolare produzione del mondo greco. Successiva- mente furono redatti altri studi, tesi soprattutto a far luce sulla complessa situazione codicologica3, e solo negli ultimi anni si sta tentando un nuovo approccio filologi- camente corretto all’argomento, in primis grazie ai numerosi contributi di Chrysopoeia (Société d’Étude de l’Histoire de l’Alchimie) e ad alcuni testi ripubblicati dalla casa editrice «Les Belles Lettres»4. 1 D’ora in avanti CAAG, con il primo numero romano ad indicare il volume, il secondo la sezione; il primo numero arabo l’opera, il secondo la pagina. 2 Mancano, purtroppo, le opere in versi attribuite ad Eliodoro, Teofrasto, Ieroteo ed Archelao – pubblicate da Goldschmidt 1923, 1-59 – e le nove lezioni di Stefano di Alessandria. Queste ultime rappresentano un’importante lacuna colmabile solo in parte: il testo greco, infatti, è pub- blicato in Ideler 1842, 109-247; solo le prime tre sono state ripubblicate con traduzione inglese e breve commento da Taylor 1936, 116-139 e 1938, 38-49. 3 È d’obbligo ricordare la realizzazione, tra il 1924 e il 1932, del Catalogue des manuscrits alchimiques grecs (CMAG) in otto volumi, ad opera di numerosi studiosi coordinati da J. Bidez. Purtroppo lo scoppio del conflitto mondiale non permise di passare alla seconda fase del progetto, ovvero alla ripubblicazione dei testi alchemici con criteri filologicamente più corretti rispetto all’edizione di Berthelot. 4 Per ora sono apparsi solo due testi, Halleux 1981 e Mertens 1995. 162 MARTELLI La letteratura alchemica rappresenta un importante settore di studio nel panorama culturale del periodo greco-romano e bizantino: essa è presente con straordinaria continuità dai primi secoli d.C. fino al IX-X secolo5. I primi trattati, spesso attribuiti a personaggi mitici o ad antichi pensatori, sembrano occuparsi soprattutto di questioni tecniche legate alla manipo- lazione dei metalli: abbiamo così l’opera tramandata sotto il nome di Democrito, di cui ci occuperemo nel presente studio, o i numerosi frammenti di Maria l’Ebrea, che sembrano concentrarsi sulla strumentazione utilizzata. A questa produzione si legano due importanti papiri, detti comunemente papiro di Leida (P. Leid. 10) e papiro di Stoccolma (P. Holm.), che tramandano numerose ricette per colorare alcuni metalli in giallo o in bianco, falsificare le pietre preziose e tingere la lana con succedanei della porpora6. Quindi, tra il III e il IV sec. d.C., si inserisce la prima figura di alchimista storicamente riconoscibile: Zosimo di Panopoli, che scrive numerosi trattati sull’argomento e costituisce una fonte imprescindibile per ricostruire la storia dell’alchimia nel periodo a lui precedente. Nei secoli successivi queste opere sembrano riscuotere un certo successo, tanto che ha inizio una complessa tradizione di commentari e trattati esplicativi dei testi più antichi. Per citare solo gli autori la cui produzione ci è pervenuta almeno in parte, nel IV sec. abbiamo Sinesio ed Olimpiodoro7, nel VII sec. Stefano di Alessandria, nel VII-VIII sec. Pappo e Cristiano, ed infine, nell’VIII- IX sec., due commentatori che confluiscono, all’interno della tradizione manoscritta, in un unico personaggio anonimo, chiamato appunto oJ filovsofo" ajnepivgrafo"8. Infine, ritrovia- mo alcune tracce di questi singolari testi all’interno della Cronografia di Sincello (pp. 14 e 297 Mosshammer), della Biblioteca di Fozio (II 163 Henry) e della Suda (z 168 A.). Se circoscriviamo la nostra indagine alle origini dell’alchimia, tra i testi più antichi tramandati dalla tradizione manoscritta vi sono due operette attribuite al filosofo atomista Democrito, pubblicate da Berthelot con il titolo Fusika; kai; mustikav e Peri; ajshvmou poihvsew" (CAAG II, II 1). Sul vero autore dei trattati non sappiamo nulla, se non alcune leggende riportateci dagli alchimisti successivi: egli sarebbe stato iniziato nel tempio di Menfi dal grande mago Ostane ed avrebbe ricevuto da costui il segreto della natura, la legge che regola tutti i cambiamenti e le trasformazioni9. È, tuttavia, molto probabile che il nostro testo abbia un certo legame con la letteratura pseudo-democritea che sembra svilupparsi a partire dal- l’età ellenistica: in questo periodo, infatti, sembra consolidarsi un particolare lega- me tra il nome del pensatore presocratico ed un sapere esoterico di derivazione vicino-orientale. Cominciano a circolare le leggende su Democrito allievo dei magi10 5 Per una breve ma corretta panoramica sulla produzione alchemica in lingua greca, si vedano Festugière 1944, 217-282 e Letrouit 1995, 11-93. 6 Per l’edizione di questi testi, si veda Halleux 1981. 7 Da non confondere, il primo, con Sinesio di Cirene, il secondo, con Olimpiodoro storico del V sec., né con il filosofo neoplatonico del VI. 8 Cf. Letrouit 1995, 63-65. 9 Oltre ad un passo presente nella stessa opera pseudo-democritea (CAAG II, II 1,42s., § 3), abbiamo le importanti testimonianze di Sinesio (CAAG II, II 3,56 = VS 68 [55] B 300,17 D.-K.) e di Sincello (p. 297 Mosshammer = VS 68 [55] B 300,16 D.-K.). 10 I testimoni principali sono Plin. NH XXX 8ss. (= VS 68 [55] B 300,13 D.-K.) e Diog. L’opera alchemica dello Pseudo-Democrito: un riesame del testo 163 e, sotto il suo nome, si diffonde una cospicua produzione di testi riguardanti le proprietà magico-mediche di piante, pietre ed animali11. Sarà utile, a questo propo- sito, citare almeno la testimonianza di Aulo Gellio, che mostra la diffusione di questi scritti nei primi secoli d.C.: Gell. X 12,8 = VS 68 [55] B 300,7 D.-K. multa autem videntur ab hominibus istis male sollertibus huiuscemodi commenta in Democriti nomen data nobilitatis auctoritatisque eius perfugio utentibus. Probabilmente all’interno di questo particolare background culturale è possibile iscrivere anche la nascita di opere più specificamente alchemiche, che trattano delle proprietà occulte della materia e della possibilità di trasformare – ‘trasmutare’, nel successivo linguaggio degli adepti – i metalli vili in oro o argento. I trattatelli pseudo-democritei vengono tramandati da tutti i manoscritti greci alchemici pervenutici. Nella mia indagine mi sono avvalso del Marcianus gr. 299 (= M) e dei Parisini gr. 2325 (= B) e 2327 (= A). Inoltre è di particolare interesse anche la traduzione latina delle due operette, redatta da Domenico Pizzimenti e pubblicata a Padova nel 1573 con il titolo Democritus Abderyta de arte magna sive de rebus naturalibus. Già Berthelot e Ruelle (CAAG I 173-219) fecero approfondite ricerche sui numerosi codici alchemici, puntualizzando le questioni più delicate su cui gli studi successivi si sarebbero concentrati: in modo particolare la mancata corrispondenza tra la lista di testi che compare all’inizio di M e le opere effettivamente tramandate nel manoscritto, ed i possibili rapporti tra l’esemplare veneziano e i due parigini. Essi, tuttavia, non scelsero in maniera chiara le fonti su cui stabilire la propria edizione critica, e spesso si avvalsero di testimoni tardi e poco autorevoli. In séguito alla redazione del Catalogue des manuscrits alchimiques grecs, Festugière (1967, 205-229) tornò sulla questione: per quanto non delineasse un vero e proprio stemma codicum, egli definì in modo chiaro le principali dipendenze dei vari manoscritti ed indicò, appunto, M, B ed A come i tre testimoni principali. Nel corso degli anni, tuttavia, sono apparsi vari studi volti a dare maggiore importanza ora ai testimoni francesi, ora a quello veneziano: da un lato Lagercrantz (1927, 341-358 e 1932, 399-432) propende per A, dall’altro Reitzenstein (1919, 1-37), Rehm (1939, 394-434) e di recente Letrouit (1995, 11-14) considerano BA dipendenti da M. A mio avviso, un accurato con- fronto fra i tre codici, reso più agevole dal recente studio di Saffrey (1995, 1-10) sull’esem- Laert. IX 34ss. (= VS 68 [55] A 1 D.-K.). Secondo Bidez–Cumont 1973, 167s. i due autori traggono le loro notizie dalla letteratura peri; mavgwn che circola a partire dall’età ellenistica. In generale, sul rapporto tra la cultura greca ed il mondo iranico, si veda anche West 1993, 269-311 (a Democrito e agli atomisti sono dedicate le pp. 307ss.). 11 A questo proposito, l’attenzione degli studiosi moderni si è concentrata soprattutto sulla figura di Bolo di Mende, autore del II sec. a.C. che, firmandosi con il nome di Democrito, scrisse opere di carattere medico-magico di cui ci rimangono pochissimi frammenti. Per un’analisi pun- tuale ed aggiornata della questione, si vedano Halleux 1981, 66ss. e Hershbell 1987, 5-20. 164 MARTELLI plare veneziano, non permette di dare maggiore importanza ad uno solo tra questi. In primo luogo, la natura stessa di queste fonti rende difficile il confronto: si tratta, infatti, di anto- logie di testi, in cui le opere dei vari autori non vengono riportate per intero, ma solo in estratti. Inoltre, come ha ben notato Festugière (1967, 224s.), i tre codici sono frutto di interessi diversi da parte dei loro compilatori, e seguono perciò criteri diversi nella scelta dei testi da tramandare. I manoscritti B ed A, rispetto a M, riportano alcuni trattati in più (di cui sono i più antichi testimoni), oltre ad interessanti varianti nelle opere tramandate in comune: sono, dunque, necessari tutti e tre i codici per ricostruire l’intero corpus di testi alchemici greci pervenutici. Tali testi, inoltre, si presentano a volte come veri e propri works in progress: i compilatori spesso univano tra loro solo alcune parti di diverse opere originali, creando così strane sillogi, in cui si mischiano trattati piuttosto antichi con opere più tarde12. Di conseguenza, solo un’analisi puntuale e completa di tutto il materiale di M, B ed A può portare lo studioso a ricostruire con maggiore attendibilità i testi tramandati. In definitiva, sembra filologicamente corretta la posizione di Mertens (1995, XX-XXXVIII), che si è avvalso di tutti e tre i manoscritti nella recente riedizione di parte dell’opera di Zosimo. Riguardo ai trattati pseudo-democritei, analizzando tale tradizione troviamo: 1. Il codice M nell’indice iniziale elenca le seguenti opere: Dhmokrivtou peri; porfuvra" kai; crusou' poihvsew": fusika; kai; mustikav, e Tou' aujtou' peri; ajshvmou13 poihvsew". Tali testi sono presenti all’interno del manoscritto: ai ff. 66v,27-71r,6 è riportato un estratto intitolato Dhmokrivtou fusika; kai; mustikav, e ai ff. 71r,7-72v,8 un altro intitolato Peri; ajshvmou poihvsew". 2. Il codice B presenta una situazione molto simile a M, in quanto ai ff. 8r,10-17r,16 riporta i Dhmokrivtou fusika; kai; mustikav, e ai ff. 17r,16-20r,18 il Peri; poihvsew" ajshvmou. 3. Il codice A segue fedelmente B e M; troviamo infatti ai ff. 24v,5-29v,4: Dhmokrivtou fusika; kai; mustikav, e ai ff. 29v,4-31r,22: Peri; poihvsew" ajshvmou. Quindi, nella parte finale del manoscritto14, ai ff. 258r,17-259v, è tramandato un estratto intitolato Dhmokrivtou bivblo" ev prosfwnhqei'sa Leukivppw/. Si tratta sicuramente di un apocrifo (anche rispetto al nostro Ps.-Democrito!), normale all’interno della letteratura alchemica, in cui numerose 12 Si veda, a titolo di esempio, la collezione di ricette tramandata da A 268v,14–278v e pubblicata in CAAG II, IV 22, in cui ritroviamo alcuni passi dello Pseudo-Democrito. Del resto, probabilmente, a seconda del destinatario, i testi alchemici subivano delle modifiche, puntando maggiormente, ora sulle considerazioni teoriche sull’arte, ora sulle indicazioni artigianali legate alla pratica di laboratorio. Osservazioni analoghe sono fatte da Garzya (1983, 35-71) riguardo ai ‘testi letterari d’uso strumentale’ che circolavano a Bisanzio: in modo particolare, trattando della produzione scientifica (pp. 58-65), egli evidenzia come le opere mediche si differenziassero in base al loro scopo. Oribasio, ad esempio, scrisse ben tre trattati: le `Iatrikai; sunagwgaiv, una vera opera enciclopedica e teorica, la Suvnoyi", compendio utile a chi già conoscesse la scienza me- dica, e gli Eujpovrista, semplice raccolta di precetti pratici e ricette. 13 Il termine a[shmo" indica l’argento. A tal proposito si veda Halleux 1973, 370-380. 14 I ff. 251v,20-260v,19 costituiscono una parte molto importante di A. Vi troviamo, infatti, alcune opere alchemiche di cui il nostro codice è il più antico testimone: accanto al quinto libro di Democrito, abbiamo due versioni di un testo di Zosimo ed un passo attribuito ad Iside. L’opera alchemica dello Pseudo-Democrito: un riesame del testo 165 opere tarde sono attribuite ad autori antichi, nel tentativo di conferire loro prestigio ed autorevolezza15. Del resto, nessuno tra gli alchimisti antichi – in particolare Zosimo, Sinesio o Olimpiodoro – che mostrano di conoscere bene l’opera del nostro autore, fa alcun riferi- mento a questo libro. Il testo dei Fusika; kai; mustikav ha inizio con due estratti sulla tintura della lana in porpora. Quindi abbiamo una parte narrativa in cui si racconta l’iniziazione di Democrito da parte del maestro Ostane: quest’ultimo, morto prematuramente, non riuscì a svelare all’allievo il segreto della natura, rivelato solo alla fine grazie ad un inaspettato prodigio. Si tratta di un importante adagio, ripreso dalla maggior parte degli alchimisti successivi: hJ fuvsi" th'/ fuvsei tevrpetai, hJ fuvsi" th;n fuvsin nika'/, hJ fuvsi" th;n fuvsin kratei'. Conclusasi questa parte narrativa, seguono tredici ricette, tutte alla seconda persona singolare dell’imperativo, che spiegano come trasformare varie sostanze in oro. Una breve polemica del nostro autore contro i giovani medici che non vogliono credere all’importanza dell’insegnamento divide le prime dieci dalle rimanenti. Sul margine della prima ricetta, tutti e tre i manoscritti riportano il segno della crusopoiiva16. Al termine dell’estratto si afferma che così è stata trattata la materia della crusopoiiva, e che si passerà alla trattazione delle specie utilizzate per l’ajrguropoiiva. Ha inizio, a questo punto, la seconda operetta di Democrito, quella che tutti i manoscritti riportano con il titolo di Peri; ajshvmou poihvsew" o Peri; poihvsew" ajshvmou. Essa è formata da nove ricette in cui viene spiegato, ancora con l’imperativo, come trasfor- mare varie sostanze in argento. Tutti gli studiosi sono concordi nel ritenere queste opere compilazioni piuttosto tarde, che riassumono e probabilmente interpolano gli originari scritti dello Pseudo-Democrito. Questi sono databili solo approssimativamente grazie ad elementi interni alla stessa tradi- zione alchemica. Da un lato il nostro autore cita una sostanza chiamata klaudianovn, identificabile, secondo gli studiosi, con una lega che prende il nome dall’imperatore Claudio (41-54 d.C.)17: dunque tali opere sicuramente non sono anteriori al I sec. D’altro canto, 15 Cf. Letrouit 1995, 80 n. 253. 16 Abbiamo, cioè, il segno , in cui il primo simbolo rappresenta il sole e di conseguenza l’oro, ed il secondo (un p che racchiude il dittongo oi) è un’abbreviazione per poivhsi"/poiei'n (si veda, ad es., Thompson 1912, 81). 17 Il legame con il nome dell’imperatore Claudio è sostenuto sulla base del confronto con altre leghe metalliche che prendono il nome da illustri personaggi. Plin. NH XXXIV 3s. ricorda il rame sallustiano (da Sallustius Crispus, uno dei principali confidenti di Augusto), quello liviano (da Livia, moglie di Augusto) ed infine quello mariano (dai Montes Mariani, ovvero dalla Sierra Morena ricca di giacimenti di questo metallo). Tuttavia è impossibile stabilire con esattezza i componenti di questa lega, conosciuta solo tramite i testi alchemici. Per le varie ipotesi si vedano: Berthelot 1885, 233 (lega piombo-stagno); CAAG III, II 1,47 n. 4 (lega piombo-rame-stagno con un po’ di zinco); Taylor 1930, 123 (lega piombo-rame); Hershbell 1987, 11 (lega rame-piombo- stagno). Tali proposte, però, non sono confermate da un chiaro riscontro all’interno del Corpus alchemicum, che rimane sempre piuttosto vago nei passi che trattano di questa lega. Essa viene associata al guscio delle uova (CAAG II, I 2,9 e 14) secondo una tipica classificazione dei materiali per cui i vari elementi sono legati, a seconda della consistenza e del colore, al guscio, all’albume e al tuorlo. Solitamente lo strato più duro corrisponde ai metalli vili o alle leghe composte dalla loro combinazione. Sinesio (CAAG II, II 3,64), inoltre, ci dice che il claudiano 166 MARTELLI l’alchimista più antico che citi espressamente lo Pseudo-Democrito è Zosimo di Panopoli, attivo a cavallo tra il III e il IV sec. Questo costituirebbe, dunque, il terminus ante quem18. In base alle testimonianze degli alchimisti successivi, è possibile raccogliere qualche notizia in più su questi scritti, che, a giudicare dai continui riferimenti presenti nel Corpus alchemicum, dovettero riscuotere un forte successo. Innanzi tutto, nessun alchimista cita mai un’opera intitolata Fusika; kai; mustikav, ma tutti, a partire da Zosimo, presentano il filo- sofo di Abdera come l’autore di quattro libri distinti sulla fabbricazione dell’oro, dell’argen- to, delle pietre preziose e della porpora19. Oltre a queste importanti testimonianze, anche un’analisi più attenta di ciò che rimane dell’opera permette di ricostruire un’originaria struttura suddivisa in libri. L’indice di M, infatti, cita espressamente i libri Peri; porfuvra" poihvsew", Peri; crusou' poihvsew" e Peri; ajshvmou poihvsew". Quindi, all’interno del ma- noscritto, i primi due testi sembrano confluire in un’unica compilazione che prende il titolo di Fusika; kai; mustikav, mentre il terzo rimane distinto. Infatti, analizzando il contenuto dei Fusika; kai; mustikav, ci rendiamo conto che la prima parte riporta probabilmente alcuni estratti dal libro dedicato alla porpora, mentre la seconda riporta ben tredici ricette tratte da quello sull’oro. Quest’ultima ipotesi è confermata anche dalla presenza del simbolo della crusopoiiva presente sui margini dei tre codici. Manca, invece, il libro sulle pietre, alcuni estratti del quale sembrano comparire in un’altra compilazione, tramandata solo dai codici parigini con il titolo di Katabafh; livqwn kai; smaravgdwn kai; lucnivtwn kai; uJakivnqwn ejk tou' ejx ajduvtou tw'n iJerw'n ejkdoqevnto" biblivou, Tintura delle pietre e degli smeraldi e dei rubini e delle acquemarine dal libro tratto dal penetrale dei templi20. Riguardo al titolo Fusika; kai; mustikav, adottato dallo stesso Berthelot nella sua edizione, si tratta senz’altro di un’invenzione successiva, forse dello stesso compilatore che riassunse il testo originario. Recentemente Letrouit21 ha supposto che i quattro libri fossero riuniti sotto il titolo generico di `Aformhv, basandosi sulla seguente testimonianza di Olimpiodoro l’alchimista: CAAG II, II 4,102, § 54 oJ de; Dhmovkrito" ejk touvtwn labw;n22 sunegravyato bibliva tevssara tw'/ th'" `Aformh'" ojnovmati. è simile all’orpimento (solfuro di arsenico), dunque di colore giallo. Questo potrebbe far pensare ad un ottone (rame-stagno). La presenza del piombo potrebbe essere suggerita da una lista di sostanze, pubblicata in CAAG II, I 8,24, in cui il claudiano è elencato appunto assieme al piombo e al litargirio (ossido di piombo). 18 Propendono per una datazione piuttosto bassa Lippmann 1919, 27s.; Diels 1920, 128; Wellmann 1928, 68; Festugière 1944, 225ss. 19 Letrouit 1995, 75-81 ha raccolto tutte le testimonianze al riguardo presenti nel Corpus alchemicum. 20 L’opera è riportata da B ff. 160v,1-173v,8 e da A ff. 147r,1-155v,23. Essa è pubblicata in CAAG II, V 7. Si tratta di una raccolta di ricette piuttosto tarda, che però raccoglie anche mate- riale antico, come i numerosi riferimenti allo scritto dello Pseudo-Democrito. 21 Letrouit 1995, 79: «Tous ces témoignages concordants permettent d’affirmer que notre Pseudo-Démocrite avait groupé sous le titre général de Principe quatre livres consacrés aux enduits». 22 A questo punto Berthelot integra ajformav". Avremmo così: «Democrito traendo i principi L’opera alchemica dello Pseudo-Democrito: un riesame del testo 167 Democrito basandosi su questi (cioè sugli aforismi sulla natura23) scrisse quattro libri sotto il titolo de Il Principio. A mio avviso, è tuttavia probabile supporre una dipendenza di Olimpiodoro da Sinesio, che compose un vero e proprio commentario all’opera dello Pseudo-Democrito. Egli, infatti, ci dice: CAAG II, II 3,57, § 1 ejk touvtou labw;n ajforma;" sunegravyato bivblou" tevssara" bafikav": peri; crusou' kai; ajrguvrou kai; livqwn kai; porfuvra". Traendo da costui (Ostane) i suoi principi, scrisse quattro libri relativi alle tinture: sull’oro, l’argento, le pietre e la porpora. Le due testimonianze, in effetti, mostrano la medesima struttura, tranne per il fatto che Olimpiodoro non riporta l’argomento di cui parlano i quattro libri. Troviamo addirittura utilizzate le medesime espressioni: si veda ejk touvtou labwvn ~ ejk touvtwn labwvn e sunegravyato bivblou" tevssara" ~ sunegravyato bibliva tevssara. È evidente che Olimpiodoro aveva sotto gli occhi il commento di Sinesio, che egli cita espressamente, poco prima di darci questa notizia24. Il titolo `Aformhv, dunque, potrebbe nascere semplicemente da un’errata interpretazione, da parte di Olimpiodoro, della sua fonte. È da dire che l’unica edizione esistente di questi estratti, curata da Berthelot, presenta imperfezioni di vario tipo: il lavoro, infatti, fu composto senza una coe- rente coscienza filologica e senza avere ben chiari i rapporti tra i vari manoscritti; la traduzione è spesso inesatta e dovuta alla libera interpretazione del chimico francese, che conosceva il greco solo superficialmente. Inoltre, per rispettare gli accordi con il Ministero che finanziava il progetto, si ridusse notevolmente l’appa- rato critico e non si compose un adeguato commento che spiegasse le numerose difficoltà testuali ed esegetiche. Un ritorno ai codici risulta fondamentale per for- nire un testo più corretto e tentare di sciogliere alcuni nodi filologici. Si propone qui di séguito la rilettura di una serie di passi problematici, corredati da un breve apparato che chiarifichi le diverse lezioni tramandate dai codici. Testo e traduzione da cui si procede sono, invece, del citato Berthelot. da questi ...». In realtà, in questo caso, non è necessario correggere il testo, che ha senso anche senza tale congettura. 23 Così almeno ipotizza Letrouit 1995, 78. In effetti, nella frase precedente Olimpiodoro cita un frammento in cui compare proprio uno di questi aforismi: hJ ga;r fuvsi" th'/ fuvsei tevrpetai. 24 Cf. CAAG II, II 4,102, l. 10. All’interno dell’opera di Olimpiodoro compare un’altra volta il nome di Sinesio in CAAG II, II 4,90, l. 20. Evidentemente il nostro autore conosceva il com- mento al libro di Democrito indirizzato a Dioscoro, visto che in entrambi i casi vi fa chiaro riferimento. 168 MARTELLI Dal Peri; porfuvra" poihvsew" I codici riportano soltanto un piccolo estratto da questo scritto, suddivisibile in due parti: nella prima l’autore spiega un procedimento di tintura della lana con diversi ingredienti, la cui identificazione risulta piuttosto difficile; nella seconda abbiamo un vero e proprio elenco delle varie sostanze utilizzate, in base alla loro efficacia. 1. Già l’incipit presenta notevoli difficoltà: CAAG II, II 1,41, § 1 balw;n eij" livtran mivan porfuvra" diobovlou livtran skwriva" sidhvrou eij" ou[rou dracma;" zv, ejpivqe" ejpi; pura'" w{ste labei'n bravsmata. Ei\ta labw;n ajpo; tou' puro;" to; zevma, bavle eij" lekavnhn, probalw;n th;n porfuvran, kai; ejpiceva" to; zevma th'/ porfuvra/, e[a brevcesqai nucqhvmeron e{n. CAAG III, II 1,43, § 1 Mettez dans une livre de pourpre, un poids de deux oboles de scories de fer, macérées dans sept drachmes d’urine, posez sur le feu jusqu’à ébullition. Puis, enlevant du feu la décoction, mettez le tout dans un vase. Retirant d’abord la pourpre, versez la décoction sur la pourpre et laissez tremper une nuit et un jour. 2. skwriva" BA : skorsan M. La traduzione non dà conto dei problemi posti dal testo, che risulta talvolta corrotto ed appare slegato dalla parte successiva. Lo studioso francese sembra non curarsene, e la mancanza di un adeguato commento non permette di comprendere le motivazioni delle sue scelte. Innanzi tutto Berthelot traduce diobovlou con ‘de deux oboles’, supponendo che specifichi livtran. Tuttavia tale interpretazione sol- leva forti incertezze: a) La forma diobovlou sembrerebbe riconducibile a diovbolo", normalmente attestato col senso di ‘scagliato da Zeus’ (si vedano, ad es., Soph. OC 1464 ed Eur. Alc. 128). Soltanto nel De mensibus di Giovanni Lido (IV 157, l. 7 Wünsch) tro- viamo to; diovbolon con il valore di ‘due oboli’25. Altrimenti, come specifica l’ Et. Gud.26, compare to; diwvbolon con questo significato. b) Inoltre, nella traduzione di Berthelot, livtra assume il significato generico di ‘misura’, ‘peso’. Tuttavia, il confronto con le analoghe ricette dei papiri di Leida 25 Oppure, nel X libro del De comp. med. di Galeno troviamo l’espressione: ajnavplatte dioboliaivou" trocivsmou" (XIII 264, l. 6 Kühn). 26 II 366, ll. 24s. de Stef.: kai; diovbolon, to; uJpo; Dio;" ballovmenon, to; dio mikrovn: diwvbolon dev, oiJonei; duvo ojbolouv", to; diw mevga. L’opera alchemica dello Pseudo-Democrito: un riesame del testo 169 e di Stoccolma smentisce quest’interpretazione27: livtra, infatti, rientra in uno spe- cifico sistema di misura in cui corrisponde a 516 oboli (si veda, a tal proposito, l’esauriente spiegazione in Halleux 1981, 19-21). Un’ipotesi alternativa, a mio avviso, è normalizzare diobovlou in diwbovlou, e supporre che, riferito al termine porfuvra, esso ne indichi il valore, il prezzo. Con porfuvra, infatti, non ci si riferisce, nel nostro caso, alla porpora vera e propria28: considerando che occorrevano 12.000 molluschi per ricavare 1,4 g di tale principio tintorio (Halleux 1981, 43), la quantità postulata dal nostro testo risulterebbe chia- ramente eccessiva. L’autore, dunque, avrebbe voluto indicare un succedaneo della porpora, sicuramente meno costoso: da qui l’utilizzo di diwbovlou. Occorre però ammettere che in nessun’altra ricetta troviamo simili indicazioni, e ci si può chie- dere se diobovlou non celi una più profonda corruzione. Inoltre, a prescindere dall’incipit, l’intero passo sembra slegato dal resto del- l’estratto. Da quanto si può intuire, il nostro autore sembra descrivere la prepara- zione di un bagno formato da un principio tintorio (indicato con il termine porfuvra), un mordente (il ferro29) ed un diluente (l’urina30). Queste tre sostanze, secondo le indicazioni forniteci, vengono unite insieme e fatte bollire. Non è possibile, in questo caso, isolare con precisione i singoli momenti nel trattamento della lana: lavaggio, mordenzatura e tintura non sembrano, infatti, separati. Del resto, come nota giustamente Forbes (1955, 134), gli antichi o immergevano i tessuti prima in una soluzione mordente quindi in una tintoria, oppure combinavano entrambe in un unico bagno. Tuttavia, nel testo, non viene detto di immergere la lana all’interno di tale soluzione: infatti, dopo averla portata ad ebollizione, viene prescritto sola- mente di mantenerla in questo stato per un giorno ed una notte. Quindi ha inizio la descrizione di una seconda operazione, basata sull’utilizzo di alghe marine, che sembra non aver alcun legame con la parte precedente. In definitiva, si ha la netta sensazione che queste prime righe siano il frammento di una ricetta che non ci è giunta per intero, e il cui senso, di conseguenza, ci sfugge. 27 Quando si vuole rendere il termine generico ‘peso’, si utilizza staqmov". Cf., ad esempio, Holm. 159 (Halleux 1981, 151). 28 Principio tintorio tratto dai molluschi delle famiglie del murex o del buccinum. Anche nei papiri di Leida e Stoccolma il termine porfuvra non è mai utilizzato con tale valore. Si veda Halleux 1981, 225. 29 Anche nei papiri di Leida e Stoccolma, accanto all’allume, spesso sono utilizzati sali di ferro (scorie di ferro, allume in lamelle, acetati di ferro) nel processo di mordenzatura. Cf. Halleux 1981, 44s. 30 L’urina veniva utilizzata sia nel processo preliminare di lavaggio (pluvsi") della lana come elemento sgrassante, sia nella diluizione di alcuni principi coloranti (a[nesi"). Di solito era utilizzata quella di pecora o quella di cammello, particolarmente apprezzata: si veda, ad esempio, in Holm. 93 (Halleux 1981, 133). A volte ritroviamo anche l’urina umana, soprattutto quella di fanciullo impubere (Holm. 149: Halleux 1981, 148). 170 MARTELLI 2. Un altro passo degno d’attenzione è compreso nella seconda parte, in cui lo Pseudo-Democrito elenca le varie sostanze utilizzate nella tintura. Non evidenzieremo in questo contesto le innumerevoli difficoltà legate all’identificazione dei vari in- gredienti, resa ancor più ardua dall’uso di un linguaggio volutamente allusivo. CAAG II, II 1,42, § 2 eij" de; th;n kataskeuh;n th'" porfuvra" ta; eijsercovmenav eijsin tavde. Fu'ko" o} kalou'si yeudokogcuvlion, kai; kovkkon kai; a[nqo" qalavssion, a[gcousan ladikivnhn hJ krhmnov", ejruqrovdanon to; ijtalikovn, fullavnqion to; dutikovn, skwvlhx oJ porfuvrio" ejk tou' ejrwvou genovmeno", rJovdion to; ijtalikovn. CAAG III, II 1,44 Voici ce qui entre dans la composition de la pourpre: l’algue qu’on appelle fausse pourpre, le coccus, la couleur marine, l’orcanette de Laodicée, le cremnos, la garance d’Italie, le phyllanthion d’Occident, le ver à pourpre, tiré de….., la rose d’Italie. 1. ta; eijsercovmena BA : ta; ajpercovmena M || 2. tavde M : tau'ta BA || kovkkon MB, kovkon A : ft. kovkko" || 3. a[gcousan ladikhvnh M, a[gcousan ladikivnhn BA : ft. a[gcousa Laodikivnh || hJ MBA: ft. h] || 4. fulavnqion MBA|| porfuvrio" MA: porfuvreio" B || ejk tou' ejrwvou genovmeno" M, om. BA: ft. ejk tou' privnou. Il passo è corrotto in più punti: a) Innanzi tutto, ci troviamo di fronte ad una lista di ingredienti che compaio- no sia al nominativo sia all’accusativo. Berthelot, nel testo greco, mantiene inalte- rate le forme tramandate dai codici, senza curarsi dell’alternarsi dei due casi. I termini kovkkon e a[gcousan sono giustificabili all’accusativo solo se retti dal sintagma o} kalou'si: sarebbero, dunque, altri modi in cui viene chiamato il fuco31. Tale ipotesi, tuttavia, sembra piuttosto improbabile, poiché i due termini compaiono molto spesso in altre ricette di tintura con un valore specifico: il primo indica il kermes32, il secondo l’Alkanna tinctoria L33. È probabile che la vicinanza di sostan- tivi neutri abbia indotto in errore il copista, che ritornerà alla forma corretta solo con krhmnov". Anche in questo caso, paradossalmente, sembrerebbe che un’altra svista porti l’amanuense a correggere l’errore precedente: egli, infatti, scambia la particella disgiuntiva h[ con l’articolo nom. femm., e torna all’utilizzo del nomina- tivo. Tuttavia, krhmnov" è maschile, e per di più nessun ingrediente viene elencato in questa lista con l’articolo. Chiaramente bisogna correggere hJ in h[, particella 31 Alga indicata oggi con il nome di Rhytiphlaea tinctoria. Così almeno si deduce da Theophr. HP IV 6,3-6 e da Plin. NH XIII 135s. Tuttavia Diosc. IV 99, accanto alla nostra alga, cita anche una piccola radice chiamata con lo stesso nome, identificata dagli studiosi con la Roccella tinctoria L. (cf. André 1985, 107 e 198). Dunque, sembra che il termine fu'ko" indicasse due princìpi tintori. 32 Cocciniglia parassita della Quercus coccifera L. Cf. Halleux 1981, 217. 33 Pianta dalle cui radici si estraeva il principio tintorio. Cf. Halleux 1981, 205.
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