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L'Italia che non cresce. Gli alibi di un paese immobile PDF

183 Pages·2013·0.78 MB·Italian
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Saggi Tascabili Laterza 381 Alessandro Rosina L’ItALIA che non cResce Gli alibi di un paese immobile Editori Laterza © 2013, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Prima edizione febbraio 2013 Edizione 1 2 3 4 5 6 Anno 2013 2014 2015 2016 2017 2018 Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-0552-8 ai miei figli, Jacopo e Lorenzo, e alla loro generazione Introduzione Le RIsoRse che IL pAese non sA vALoRIzzARe Si sente sempre più spesso dire che siamo un paese “senza futuro”. Non è vero. Non perché alla fine certamente ce la faremo (questo non è scontato, anzi), ma semplicemente per il motivo che il futuro prima o poi, implacabilmente, arriva. È quello che concretamente saremo fra 10, 20, 40 anni. La questione vera è quindi “quale futuro”. Quella in gioco è soprattutto la qualità della vita che ci attende. Domani possiamo star peggio di oggi, non c’è nessuna leg- ge di natura che lo impedisca, c’è solo l’azione politica e sociale che può rendere più o meno possibile un generale scadimento del benessere e delle opportunità. Dato che il futuro affonda le sue radici nel presente, le premesse del vivere meglio o peggio nel breve e medio periodo dipen- dono dalle scelte che facciamo ora. Chi non prepara bene il terreno oggi e non semina con cura non può pretendere di raccogliere buoni frutti domani. Questo vale sia per i singoli che per il sistema paese. La convinzione comune è che se si rimane fermi, statici, non c’è crescita ma nemmeno decrescita; non si guada- gnano posizioni ma nemmeno si arretra. Neanche questo è del tutto vero. Il mondo è in continuo mutamento, la realtà sociale è in accelerata trasformazione. Rinunciare a crescere per rimanere fermi significa quindi, nel migliore dei casi, trovarsi a scivolare lentamente verso i margini. Una strategia che può essere desiderabile solo per chi ha vii rinunciato a mettersi in sintonia con le opportunità del cambiamento ed è interessato a rallentare il più possibile la perdita delle posizioni conquistate nel passato. La grande crisi iniziata alla fine del primo decennio del nuovo secolo può diventare allora l’occasione per una pausa di riflessione, utile per riprendere fiato e ricomin- ciare con un nuovo passo. Certamente non per tornare indietro, anche se molti oggi – soprattutto in un paese con una classe dirigente così invecchiata e disorientata come quella italiana – guardano con nostalgia al passato. È ve- ro, ci sono stati anni felici, ma quel tempo non esiste più e quelle condizioni non sono più possibili e, forse, nem- meno auspicabili. E comunque l’Italia non ha certo oggi bisogno di una politica che rimpianga i vecchi tempi o che tenti di nascondere la propria inadempienza dietro logori alibi, ma di una nuova generazione di idee e impegno su come crescere in questo secolo, evitando però di ripetere l’errore di preoccuparci del come senza prima chiarirci il senso1. Il concetto di crescita che qui adottiamo è quello di un processo in grado di porre le condizioni perché domani tenda a essere migliore di oggi. Questo è un impegno che dovrebbe avere ogni generazione nei confronti delle suc- cessive. Proprio sulla capacità o meno di onorare questo impegno si può misurare il contributo dato al processo di sviluppo da ogni generazione, anziché sulla base di quanto prodotto e consumato da essa nel corso della propria vita2. Un’impostazione quindi che non considera la ricchezza materiale prodotta come l’unico parametro di riferimento. 1 “Ripensare la crescita comporta prima di tutto un nuovo atto di intelligenza”: M. Magatti, La grande contrazione, Feltrinelli, Milano 2012. 2 Quello che deve crescere non è tanto la quantità disponibile oggi ma la qualità possibile di domani, ovvero le opportunità di scelta e azione (di poter essere e fare) delle nuove generazioni. viii Nel secolo scorso abbiamo confuso il “molto-avere” con il “ben-essere”. Il prodotto interno lordo è stato considerato la pressoché unica stella polare da seguire per i governi del mondo. Andava bene tutto ciò che aumentava tale indicatore, con il rischio di trascurare questioni cruciali per il vero benessere, come l’equità e i diritti, ma anche la sostenibilità ambientale della crescita e le ricadute per le generazioni future. Non ci ha portato del tutto fuori rotta quel modo di pen- sare e agire e non si può oggi esagerare nella direzione op- posta, come rischiano di fare alcuni teorici della decrescita. La riprova è che attualmente in larga parte del mondo, sotto molti punti di vista, si vive meglio che in passato. Abbiamo molte più possibilità di viaggiare, di informarci e scambiare idee, di scegliere liberamente come costruire la nostra vita, di difendere la nostra salute. Per oltre un secolo all’aumento del prodotto interno lordo ha infatti corrisposto anche un miglioramento più generale dei diritti, delle condizioni di vita e delle opportunità. È però anche vero che questo lega- me appare oggi sempre meno scontato3. La stessa longevità nei paesi più ricchi risulta sempre meno connessa al Pil, mentre contano sempre più altri fattori legati ai diritti di accesso alle cure, all’ambiente e al contesto sociale4. I limiti di un modello di sviluppo basato sulla ricchezza materiale prodotta e consumata sono diventati sempre più evidenti, come dimostra l’ampia letteratura esistente5. Lo testimonia la persistenza, a volte anche l’inasprimento, di squilibri so- ciali, territoriali e generazionali che condizionano l’effettivo miglioramento del benessere collettivo6. 3 Cfr. tra gli altri M. Revelli, Poveri, noi, Einaudi, Torino 2010. 4 M. Livi Bacci, Storia minima della popolazione del mondo, Il Mulino, Bologna 2002. 5 J.E. Stiglitz, A. Sen, J.P. Fitoussi, La misura sbagliata delle nostre vite, Etas, Milano 2010. 6 M. Pianta, Nove su dieci. Perché stiamo (quasi) tutti peggio di ix

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